lunedì 1 agosto 2016

LA MEDITAZIONE CRISTIANA E I SUOI MISTICI


Con il Beato Giovanni XXIII e con il Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica è entrata in un nuovo stadio di crescita collettiva, quasi come l’ingresso nella pubertà da parte di un ragazzo o di una ragazza. Uno stadio per qualche verso difficile, ma che dà la possibilità di scoprire la propria individualità e la propria relazionalità. Quello che il Papa beato ed il Concilio hanno intuito, con Spirito profetico, è la crescita parallela dell’umanità intera insieme con la Chiesa di Cristo. Anche le altre religioni stanno crescendo verso una nuova maturità, che si realizzerà, in modo analogo al desiderio del rapporto con l’altro nell’adolescente, cioè, con un’esperienza di comunione e di unione.
Un mio confratello, monaco benedettino camaldolese, padre Bede Griffiths (1906-1993) è vissuto in India per quasi quarant’anni, vivendo da cristiano l'esperienza di un profondo rapporto con l’Induismo. Lo nomino per citare la grande metafora espressa nel titolo di un suo libro — forse il migliore — Matrimonio fra Oriente e Occidente. Il futuro del Cristianesimo e dell’Induismo — dice Bede Griffiths — sta in una comunione di tipo matrimoniale che, lungi da sopprimere la diversità dei due, fa sì che il matrimonio diventi motore di ulteriore crescita. Una coppia unita in matrimonio che non allarga la propria unione alla possibilità di vita nuova dei figli ed all’arricchimento delle proprie relazioni sociali di amicizia e di responsabilità, non cresce ma diminuisce ed alla fine rischia di incrinare e di spezzare la stessa relazione matrimoniale. In modo analogo, due o più realtà religiose in relazione fra di loro o si aprono alle molteplici possibilità di comunione reciproca e di comunione con altre realtà spirituali ed umane, oppure diventano motrice di divisione tra le persone, i popoli, le nazioni. Esattamente quello che avviene nei nostri giorni.
Se infatti le religioni hanno diviso l’umanità, ciò è dovuto, mi pare, ad una profonda divisione delle coscienze all’interno di ogni religione. Non voglio semplificare troppo la questione, ma devo dire che, a mio parere, tale divisione in profondità è dovuta alla mancanza della meditazione.
Meditando ci si unisce in noi stessi, fra di noi, e con tutti. La meditazione è una via di unificazione. Un’adesione religiosa senza la meditazione resta in superficie; più è ferrea l’adesione, più porta all’esclusione di coloro che non vi aderiscono, oppure aderiscono alla religione in modo meno tenace. Attaccati alle forme esteriori, gli aderenti di ferro tendono a condannare coloro che tali forme non le osservano, e la condanna ben presto diventa una condanna a morte. Chi medita, invece, scende in profondità, e mentre rafforza le proprie convinzioni spirituali ed i propri propositi di bene diventa più disponibile a riconoscere un fondo comune che lo unisce alle altre persone di fede, pur di convinzioni diverse, ed all’umanità intera. Difficilmente, poi, il meditante trova giustificazioni religiose per atti di violenza.
Vediamo, quindi, che la pratica della meditazione ed il dialogo con le altre religioni e tradizioni spirituali sono affini e si rafforzano a vicenda. Il dialogo con le grandi religioni dell’India è stata iniziata da uomini come Jules Monchanin, Henri Le Saux e Bede Griffiths che basavano la propria vita spirituale di cristiani sull’assidua pratica della meditazione. Notiamo che questi profeti del dialogo avevano iniziato a meditare prima di aprirsi all’India, mentre è stato il contatto con un maestro indiano di meditazione a svegliare nel monaco benedettino John Main il desiderio di cercare Dio attraverso un cammino meditativo secondo la tradizione cristiana.
 
Si può parlare della meditazione nella vita di fede cristiana e nella storia del cristianesimo, ma non si può parlare di una meditazione distintamente cristiana, che a mio avviso non è mai esistita né potrà esistere.
La differenza fra il culto cristiano e quello induista, ad esempio, è evidente, mentre la meditazione praticata dai cristiani e dagli induisti difficilmente si distingue. Quando svolgo un culto pubblico o privato, quando prego con parole o gesti o simboli, professo anche la mia fede in una Realtà ultima che si trasmette a me ed ai miei correligionisti attraverso vari tramiti, vari «mediatori»: le persone sacre, i testi canonici ed i simboli di culto. Queste vie di trasmissione sono sempre legate ad un dato contesto culturale ed anche a particolarità linguistiche: pensiamo all’unicità della lingua araba in cui si deve recitare il Corano o alla disciplina in vigore nella Chiesa cattolica romana prima del Concilio Vaticano II, per cui la sacre liturgie si dovevano celebrare nella sola lingua latina. Il culto induista ha conservato intatto da migliaia di anni il testo dei Veda, la cui recita è sempre preferita ai canti della devozione popolare nelle lingue volgari.
Ci sono delle particolarità culturali anche nella pratica della meditazione, ma queste sono molto meno obbligatorie rispetto al culto. Forse dovremmo dire che ci sono particolari discipline, legate ai diversi contesti culturali, che servono ad iniziare le persone alla pratica di meditazione, ma tali discipline vengono superate nel corso dell’esperienza prolungata di meditazione. Per cui, ad un certo punto, dopo una lunga pratica di meditazione, è difficile o anche impossibile individuare le differenze tra la meditazione di persone di diversa professione di fede.
Immaginiamo tre persone che meditano insieme, un cristiano, un ebreo ed uno yogi di educazione induista. Magari si trovano in una sala con delle sedie o poltroncine, per cui tutti e tre assumono la medesima postura seduta. Ma anche se uno o due di loro si sedesse per terra in posizione di loto, farebbe poca differenza. Se fosse possibile leggere i pensieri dei tre meditanti, al principio si noterebbero delle differenze, magari tra le immagini nelle facoltà sensibili o tra i concetti nelle facoltà intellettive e mnemoniche. Ma alla fine, se l’impegno di meditazione è ugualmente serio in tutti e tre, vi rimarrebbe poco da distinguere sul piano empirico. Poiché il processo di meditazione conduce sempre e necessariamente al passaggio al di là delle immagini e dei concetti verso un unico punto focale, che ognuno dei tre meditanti potrebbe interpretare secondo le proprie convinzioni di fede ma che non lascerebbe segni di distinzione sul piano psicologico.
Questa non-distinzione dipende dal fatto che la meditazione coinvolge in modo globale la persona che la pratica. Meditare è un atto umano, radicato nella nostra natura, sia che si tratti di meditazione cristiana o buddhista o induista. Anzi, se la meditazione è un atto cui giungono le persone più impegnate nella pratica delle rispettive fedi, significa che il punto di partenza della meditazione si debba collocare ad un livello della persona umana a monte di ogni distinzione di professione pubblica di fede, a monte di ogni distinzione di cultura e di lingua.
Però, la meditazione non è indifferente rispetto alle convinzioni di fede di chi medita. Per uno che crede nel Vangelo di Cristo, meditare è anche un atto profondamente cristiano. Il mio essere cristiano tocca l’intimo della mia persona e non si riduce ad una tessera di appartenenza né agli adempimenti cerimoniali di un rito puramente esteriore. Nella meditazione trovo il medesimo Cristo che conosco per fede, e lo trovo nella mia umanità, quindi nell’atto umano di meditare.
Perché, allora, i cristiani delle varie Chiese, spesso sentono un certo disagio, anzi, una specie di diffidenza quando si parla di meditazione? Tanto che persone semplici a volte concludono che non è lecito al cristiano meditare, oppure che la meditazione che portasse al di là delle immagini e dei concetti porterebbe l’anima fuori della grazia di Cristo. Ho costatato personalmente questo disagio e questa diffidenza, e non vi posso dire quanta pena mi fa.
Però nei tempi più recenti abbiamo visto una inversione di tendenza, un crescente bisogno di meditazione fra i cristiani che desiderano vivere ad un livello più profondo la fede che professano. Sono sempre in crescita i circoli ed i gruppi che offrono ai cristiani istruzione nella pratica di meditazione. Alcuni monasteri benedettini hanno istituito «scuole di meditazione cristiana» ed anche se, personalmente, ho difficoltà con l’espressione «meditazione cristiana», sono contento se i miei fratelli e sorelle nella fede vogliono praticarla. A parte l’espressione, significa che loro sono arrivati alla convinzione che il meditare li rende più cristiani ossia che li unisce più intimamente a Gesù Cristo, secondo l’insegnamento dell’apostolo Paolo, per il quale essere cristiani significa essere «in Cristo». Personalmente direi di più: che il cristiano in forza della sua fede deve meditare, e che il cristiano che non medita finisce con il portare il proprio cristianesimo come un vestito, come un uniforme da indossare per una sfilata. Anzi, il cristiano che non medita rischia di vedere il suo legame con la Persona di Gesù Cristo spezzarsi, ridotto ad un filamento secco e senza vita.
Dette queste cose, vorrei tracciare alcuni punti di riferimento nella storia del cristianesimo: i cristiani, in questi duemila anni, come hanno meditato?
Devo precisare: per i Padri della Chiesa, la storia del cristianesimo non si limita agli anni detti «dopo Cristo» ma si allunga all’indietro fino ad «Abele il giusto», anzi, fino ad Adamo ed Eva, e in avanti sino alla fine dei tempi. Ora, la storia della meditazione nella Bibbia non comincia solo nel Nuovo Testamento ma è già presente nel Primo Testamento, tra i cantanti dei Salmi a tra i sapienti e profeti. I primi versetti del Salterio d’Israele cantano la beatitudine di chi «non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte». In questo primo Salmo, sebbene più avanti si parli dei «giusti» al plurale, vi è il contrasto fra i molti che sono trascinati verso l’empietà da una società corrotta ed il giusto quasi solitario, che sta in disparte e medita, anzi, veglia nella notte e medita la parola di Dio sul suo letto. Dice il salmista in prima persona nel Salmo 63/62: «Quando nel mio giaciglio di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali». Lo stesso dice il Profeta Isaia, al capitolo 26: «L'anima mia anela a te di notte».
Il latino del secondo versetto del primo Salmo è particolarmente interessante: in lege eius meditatur [meditabitur] die ac nocte. Il verbo meditor/meditari è coniugato solo nella voce passiva (manca la forma attiva del verbo, che riemerge nel latino volgare e nell’italiano); il senso è riflessivo, quasi come la voce media del greco. Quindi il meditari è un azione che si svolge nel soggetto e sul soggetto stesso, ma il soggetto si colloca «nella» parola di Dio — il testo dice: in lege eius anziché de lege eius. La «legge» o parola divina non è quindi un oggetto o un argomento di riflessione, bensì un messaggio interiorizzato, con il quale il salmista si è immedesimato, per cui la sua meditazione è un meditare su di sé, in sé.
E qui bisogna notare che la meditazione biblica non è un atto puramente mentale ma comporta un’attività fisica. Il verbo ebraico che sta dietro il latino meditari significa precisamente «mormorare», ripetere sottovoce. È un’attività diversa dalla recita di un testo: non si tratta di pronunciare un capitolo o più capitoli biblici dal principio alla fine ma di ripercorrere frasi e parole avanti e indietro, arrivando fino alla ripetizione incessante di una sola parola. Si cita come parallelo del primo Salmo il libro di Giosuè, al capitolo primo versetto otto: «Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma mèditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto». Sentiamo la concretezza del linguaggio biblico: si parla di un libro e della bocca non come un oggetto che si accosta fisicamente alle labbra del corpo ma come una figura che enfatizza il coinvolgimento totale della persona in questa meditazione, che deve sfociare nell’agire secondo la mente di Dio.
La meditazione secondo la Bibbia è altrettanto legata ad una prospettiva storica, per cui l’atto di meditazione partecipa alla dinamica di un flusso di tempo verso un compimento nella «pienezza dei tempi». Quindi chi medita con i salmisti e con i sapienti d’Israele non mira solamente alla rottura di piani fra il tempo e l’eternità ma accetta volentieri di restare nel tempo, al centro di quel grembo del tempo che attende la parturizione della propria pienezza.
Nel Nuovo Testamento la meditazione si concentra non più sull’istruzione divina contenuta nel libro della legge ma ormai sull’evento di Cristo e sulla venuta del regno dei cieli. L’esempio neotestamentario del meditante è la Vergine di Nazaret, che nel primo momento tace davanti all’angelo, domandando in cuor suo il senso del suo saluto. Di nuovo troviamo la Vergine Madre in silenzio, dopo la visita dei pastori: «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore». E ancora, dodici anni più tardi, trovato il Figlio con i dottori nel tempio e udita la risposta misteriosa di lui («Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»), la Madre si ritira di nuovo nel silenzio: «Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore».
Recentemente è stato restaurato un quadro di Piero della Francesca, «La Madonna del Parto»: gli angeli aprono una tenda, quasi un sipario, per rivelare la Vergine in stato interessante, una figura in piedi, nobile e ieratica, che è ben più di una futura mamma. L’artista ha capito benissimo che la vera gravidanza di Maria è cominciata dopo che abbia dato alla luce Gesù. Anzi, in certo qual senso possiamo parlare di una Vergine perennemente incinta, perennemente in attesa di realizzare la piena potenzialità di questa divinità in lei nascosta. Maria era gravida del mistero del suo figlio fino alla resurrezione ed alla discesa dello Spirito Paraclito nel giorno di Pentecoste, ma anche dopo, come madre nella Chiesa e perciò della Chiesa. Lei partecipa, quindi, alle doglie del parto di tutto il creato, che attende la piena rivelazione dei figli di Dio.
Andiamo avanti sulla linea storica del cristianesimo. Nel momento in cui la Chiesa — non più un popolo perseguitato — è divenuta la religione di un impero, la meditazione si è ritirata nel silenzio ed è diventata prerogativa dei padri e delle madri del deserto, cioè del movimento monastico. I primi monaci si sono opposto in modo netto e non violento ad una Chiesa mondana ed attivista che aveva perso il filo della divina contemplazione, il proprio legame con i testi giovannei del Nuovo Testamento. I monaci meditavano, ed i fedeli si rivolgevano a loro come guide nella meditazione. È più o meno la stessa situazione che troviamo oggi, diciasette secoli più tardi!
Salto diversi secoli per citare un testo importante — «Scala dei monaci» di Guigo il certosino, fine dodicesimo secolo — che riassume in modo sistematico la tradizione monastica della meditazione. I monaci, assidui frequentatori del Salterio, imitavano i sapienti della Bibbia nella mormorazione continua della parola ma tenevano cara anche l’immagine della Vergine Madre e del suo silenzio meravigliato davanti al mistero di suo Figlio. Guigo individua quattro momenti di quella che egli chiama lectio divina, che non è riducibile alla «lettura di un testo ispirato da Dio», il senso più ovvio della frase, ma muove nella direzione di un apprendimento diretto della mente divina: si leggono quindi i pensieri di Dio dei quali il testo ispirato è solo un veicolo.
I quattro momenti della lectio divina di Guigo sono 1) lectio, 2) meditatio, 3) oratio, 4) contemplatio. Il primo momento non è una lettura lineare, non più che la meditazione del Salmista fosse uno studio di codici legali. L’occhio del meditante si posa sulla pagina sacra, percorrendola in giù ed in su, in cerca di una frase significativa per il suo stato spirituale. Individuato il testo, lo si «medita» proprio nel senso del primo Salmo: cioè il meditante «mormora» le parole, prima con la voce e poi con la mente soltanto. Il terzo stadio segna il distacco degli occhi e della mente dalla pagina, per spostare l’attenzione a Dio, una presenza all’interno dell’anima del meditante: il Deus intimior intimo meo, superior supremo meo della mistica agostiniana. Infine si trascende anche la categoria della preghiera: la grazia infusa sospende le facoltà del meditante, che dimentica se stesso e l’esercizio della meditazione nel perfetto riposo contemplativo.
Possiamo esprimere in termini più semplici ed evangelici questi quattro momenti della meditazione guigoniana, a partire dal detto di Gesù nel discorso della montagna: «Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto». Il meditante cerca nella Bibbia il senso della parola di Dio per la propria vita. Cerca ed a un certo punto trova un passo, una frase, od una sola parola che sembra essergli stata rivolta personalmente. Ripetendo quella parola il meditante comincia a bussare alla porta interiore, credendo e sperando nella risposta del Dio che lo inabita. Alla fine la porta si apre, il meditante entra e si perde nell’abbraccio con Dio.
Oggi si rilegge il testo di Guigo alla luce dello Yoga, e vi si trovano importanti punti di convergenza. Più che con una tecnica particolare dello yoga, collegherei la pratica guigoniana con la ricerca delle «grandi parole», mahavakya, nelle Upanishad ed in altri testi della tradizione vedica. Parliamo di un genere di mantra che cerca di esprimere l’inesprimibile attraverso accostamenti paradossali ed identificazioni audaci. Nei loro testi sacri i rishi («veggenti») leggevano frasi del tipo: tat tvam asi, «tu sei quello» cioè lo Spirito immortale, oppure ayam atma brahma, «lo Spirito interiore è lo stesso Spirito assoluto», e ne rimanevano letteralmente estasiati. Sebbene abbiano arricchito i testi con lunghi commenti, come facevano i dottori della legge nel giudaismo e nel cristianesimo, i saggi dell’India andavano anche nel senso contrario, ossia, cercavano di distillare il testo sacro in frasi sempre più brevi, fino ad arrivare al solo monosillabo om, il suono che si identifica con l’essenza medesima dell’Assoluto. Quindi le «grandi parole», i mahavakya (magnae voces in latino), sono «grandi» perché sono brevi, di poche sillabe o di una sola. Anche la meditazione cristiana tende in quella direzione, verso l’intelligenza della «sola cosa necessaria», verso la conoscenza dell’unica parola, il Verbo divino incarnato in Cristo ed infuso nel cuore del credente per opera dello Spirito santo.
 
I mahavakya delle Upanishad suppongono l’esistenza di un Assoluto, che si chiama ora Brahman (vocabolo grammaticamente neutro, derivante dalla terminologia liturgica dei Veda), ora atman (spirito, nel senso più generale). Si può conoscere l’Assoluto sia nel cosmo, sia nell’anima. Si tratta sempre di un’esperienza dell’unità e dell’unione dell’anima con la Realtà trascendente ed immanente che ne è il fondo e la matrice. È necessario ricordare che questa dottrina filosofico–mistica non si può ridurre ad un panteismo banale, anche perché il panteismo è una malattia del pensiero occidentale, una neoplasia nel corpo del razionalismo e in quanto tale è al polo opposto rispetto all’esperienza dei sapienti dell’India.
L’equivalente cristiana della sapienza upanishadica si trova, più che nelle Scritture bibliche, nella testimonianza dei santi. Essi parlavano dal fondo della loro esperienza, anche se alcuni di loro hanno cercato una spiegazione filosofico–teologica della loro esperienza, ma la forza delle loro parole sta nell’autenticità di quanto hanno vissuto, al di là di ogni speculazione o discorso.  


 
 
San Francesco d’Assisi (1181–1226)  
«Deus meus et omnia: “Mio Dio e [mio] tutto”».
Nel mantra di san Francesco sentiamo una preghiera che l’anima rivolge a Dio. Se pronunziamo la frase alla maniera umbra, che elide le ultime due vocali di omnia, abbiamo di nuovo un mantra di sette sillabe. Lo scritto che attribuisce la frase a san Francesco non è opera di un suo contemporaneo bensí un testo del tredicesimo secolo dal nome Actus beati Francisci et sociorum eius, cui fece seguito in breve tempo una traduzione italiana che fu incorporata nella fonte agiografica francescana più famosa, i Fioretti.
L’espressione et omnia sarà di grande importanza nel francescanesimo susseguente. Omnia allarga il senso sia di Deus sia di meus: l’anima conosce Dio in e attraverso tutte le cose, e prendiamo coscienza del riflesso di Dio nelle cose. Il Dio di Francesco è l’Unico che fece buone tutte le cose. Siccome Dio è l’autore di tutto, al posto del nominativo di omnia si potrebbe mettere il genitivo epesegetico omnium. E poiché Dio e “di tutto le cose” egli è anche il mio Dio. Il dirlo “mio” non esclude le altre creature. Se spostiamo l’attenzione sul meus, potremmo leggere omnia come un tutto che è perfettamente sufficiente, come nel mantra di santa Teresa d’Avila, “Solo Dios basta”: Dio solo è sufficiente, tutto il resto è insufficiente. Allora possiamo intendere l’esclamazione di Francesco nel senso: “Se ho Dio ho tutto, poiché Dio è tutto quello di cui ho bisogno”. Ci fa ricordare il detto di Gesù, nel Discorso della Montagna, «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).
Forse il parallelo biblico più stretto del mantra del Poverello si trova in Siracide 43,27: «Potremmo dir molte cose e mai finiremmo; ma per concludere: “Egli è tutto!”». Il testo greco ha “to pan estin autos”, mentre la Volgata traduce: “ipse est in omnibus”. Facciamo attenzione alla sintassi del testo greco: il soggetto non è “to pan” bensì il pronome personale “autos”. Ciò che si afferma non è una semplice identità del cosmo, il “tutto” (pan) con Dio (autos). Una simile inversione sintatica si trova in Giovanni 1,1: «kai theos en o logos», che si traduce sempre: «il Verbo era Dio». La differenza necessaria si determina teologicamente: il Verbo possiede la natura divina ma non è lo stesso Dio, che in Giovanni significa quasi sempre il Padre. Però il parallelo fra Siracide e Giovanni è più linguistica che semantica: la frase in Siracide («egli è tutto») non affirma nulla rispetto alla natura del “tutto” (ciò non era d’interesse nel pensiero metafisico ebraico) ma dichiara invece la relazione che il tutto ha con il Creatore. Quindi la traduzione della Volgata rispetta il modo di pensare semitico sottostante al testo greco. Quindi Dio è “tutto” perché Dio è «in omnibus — in tutte le cose». Si potrebbe ugualmente dire: «in ipso sunt omnia — tutte le cose sono in lui», come del resto Paolo dice di Cristo. In altre parole, non si tratta di un’identità di natura ma di un’identità di relazione, quindi un’inabitazione reciproca. E questo ci riporta sempre al prologo di Giovanni: «…tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto. In lui era la vita…». (Potremmo paragonare l’esclamazione attribuita a Francesco anche alla confessione di Tommaso in Giovanni 20,28: “Mio Signore e mio Dio!”.  
 
Santa Caterina da Genova (1447–1510)
 
 «Il mio me, egli è Dio, né altro me conosco».
Nel mantra/mahavakya di Caterina, l’anima afferma qualcosa di se stessa; a parte il contesto, l'affermazione può essere intesa come un’esternazione pronunziata alla presenza di altri, ma invece dal contesto è chiaro che l’anima parla a se stessa. Non si tratta, però, in alcun modo di una specie di “autoaffermazione”; al contrario, lo scopo è di portare l’anima alla perfetta dimenticanza di sé, a infine al totale abbandono di sé a Dio.
Se pronunziamo la prima frase del mantra di Caterina come l’avrebbe pronunziata lei, abbiamo di nuovo un mantra di sette sillabe. Il testo si trova nella Vita della serafica S. Caterina da Genova, colla mirabile sua Dottrina contenuta nell’insigne Trattato del Purgatorio e nel Dialogo tra il Corpo, l’Anima, l’Umanità, lo Spirito, ed il Signor Iddio, composti dalla medesima santa:
«E se pur accade, e mi bisogna nominar questo me, per lo viver del mondo, che d’altro non sa parlare, quando io mi nomino, ovvero, da altri nominata sono, dico dentro di me: il mio me egli è Dio, né altro me conosco, salvo ch’esso Dio mio.
 Il simile quando parlo dell’essere, dico: ogni cosa, la quale ha l’essere, lo ha dalla somma essenza di Dio, per sua participazione: ma l’amor puro, e netto non può star a vedere, essere la detta participazione partita da Dio, e che la medesima sia in sé come creatura, in quel modo, che è nell’altre creature; le quali, qual più, qual meno, participano con Dio. Non può esso amore sopportare tal similitudine; anzi con [35] grand’empito d’amore dice, il mio essere è Dio; non per sola participazione, ma per vera trasformazione, ed annichilazione dell’esser proprio».
Forse in tutta la letteratura cristiana non troviamo un’affermazione più vicina al senso dei mahavakya upanishadici di quella della santa vedova di Genova. Se si ammette che anche i credente in Gesù Cristo possono fare l’esperienza della non–dualità, si deve certamente riconoscere in Caterina un esempio di advaita cristiano. L’anima, dimentica di sé, non percepisce più alcuna separazione fra sé e Dio; per essa l’unico “io” che ormai percepisce, è il grande “io sono” della visione di Mosè.
Questo monismo cristiano non è diverso dalla vera gnosi cristiana, che è sempre la presa di coscienza di essere conosciuti da Dio. Possiamo dire che Caterina da Genova non fa altro che esprimere nella prima persona singolare quello che la sua omonima di Siena udì direttamente dal Signore: «Io sono Colui–che–è; tu sei colei che non è».
Paolo è testimone di esperienze simili: Gal 2,20; Fip 1,21; Rom 8,10–11; Col 3,3–4; At 17,28.
 
Citiamo, infine, un brano dalla Prima Lettera di Paolo ai Tessalonicesi, che è il più antico testo neotestamentario.
«State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male. Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo! Fratelli, pregate anche per noi. Salutate tutti i fratelli con il bacio santo. Vi scongiuro, per il Signore, che si legga questa lettera a tutti i fratelli. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi».
Paolo è l’Avvocato dei suoi, e li istruisce a sostenere i deboli e soprattutto a non ricambiare il male con il male, ma solo con il bene (si tratta di una delle pochissime allusioni paoline alle parole di Gesù riportate nei Vangeli). Infine i cristiani di Tessalonica devono sempre stare lieti e pregare incessantemente. Notiamo questo accostamento — a noi può sembrare insolito, ma è del tutto connaturale alle mentalità dei primi cristiani. Esiste anche la preghiera nel dolore e nella sofferenza, ma il pregare mira sempre a riportare l’orante nella gioia della fede e della speranza. Possiamo dire che il detto giovanneo, «Dio è amore», può essere tradotto nel linguaggio paolino come «Dio è gioia». La preghiera è tramite d’unione con Dio: anzi, meglio dire, la preghiera è unione con Dio; e quindi riporta alla gioia chi è nel dolore. Ecco quale può essere indicato come elemento qualificante della meditazione fatta nel clima di san Paolo e della Bibbia: la gioia.  


 
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I GRANDI MISTICI E LE GRANDI VIE SPIRITUALI DEL MONDO

 Sii Ciò Che sei – L’indagine sul Sé
di Filippo Falzoni Gallerani
Ai principianti dell'autoindagine veniva consigliato da Sri Ramana di porre l'attenzione sul sentimento interiore di "io" e di trattenere quel sentimento il più a lungo possibile. Veniva detto loro che se l'attenzione veniva distratta da altri pensieri dovevano tornare alla consapevolezza del pensiero "io" ogni volta che diventavano consapevoli che la loro attenzione aveva divagato. Egli suggerì diversi metodi per favorire questo processo - ci si poteva chiedere: "Chi sono io?", oppure: "Da dove viene questo io?" - ma lo scopo ultimo era di essere continuamente consapevoli dell"'io" che presume di essere responsabile di tutte le attività del corpo e della mente.
Nei primi stadi della pratica, l'attenzione al sentimento "io" è un'attività mentale che prende la forma di un pensiero o una percezione. Man mano che la pratica si sviluppa il pensiero "io" lascia spazio ad un sentimento dell"'io" sperimentato soggettivamente e quando questo sentimento cessa di collegarsi e identificarsi con i pensieri e gli oggetti, svanisce completamente. Ciò che rimane è un'esperienza di essere in cui il senso dell'individualità ha temporaneamente cessato di funzionare. L'esperienza all'inizio può essere intermittente, ma con la pratica ripetuta diventa sempre più facile da raggiungere e mantenere. Quando l'autoindagine raggiunge questo livello c'è una consapevolezza senza sforzo di essere in cui lo sforzo individuale non è più possibile poiché l'"io" che compie lo sforzo ha temporaneamente cessato di esistere. Non è la realizzazione del Sé, perché il pensiero "io" periodicamente riafferma se stesso, ma è il più alto livello della pratica. La ripetuta esperienza di questo stato di essere indebolisce e distrugge le vasana (tendenze mentali) che fanno sorgere il pensiero "io", e quando la loro presa è stata sufficientemente indebolita, il potere del Sé distrugge le tendenze residue così completamente che il pensiero "io" non sorge mai più. Questo è il finale ed irreversibile stato della realizzazione del Sé.
Questa pratica di autoattenzione, o consapevolezza del pensiero "io", è una tecnica facile che supera gli usuali metodi repressivi per controllare la mente. Non è un esercizio di concentrazione, né mira a sopprimere i pensieri; fa semplicemente appello alla consapevolezza della sorgente da cui la mente ha origine. Il metodo e la mèta dell'autoindagine è di dimorare sulla sorgente della mente, di essere consapevoli di ciò che si è realmente ritirando l'attenzione e l'interesse da ciò che non si è. Negli stadi iniziali lo sforzo nel trasferire l'attenzione dai pensieri al pensatore è essenziale, ma una volta che la consapevolezza del sentimento dell"'io" è stata fermamente stabilita, ulteriore sforzo è controproducente. Da allora è più un processo di essere che di fare, di essere senza sforzo piuttosto che uno sforzo per essere.
Essere ciò che già si è, è privo di sforzi poiché l'esistenza è sempre presente e sempre sperimentata. D'altra parte, pretendere di essere ciò che non si è (il corpo e la mente) richiede uno sforzo mentale continuo, anche se lo sforzo è quasi sempre ad un livello inconscio. Ne segue perciò che nei più elevati stadi dell'autoindagine lo sforzo allontana l'attenzione dall'esperienza dell'essere mentre la cessazione dello sforzo mentale la rivela. Alla fine il Sé non viene scoperto come risultato del fare qualcosa, ma soltanto essendo. Come Sri Ramana stesso una volta osservò:
"Non meditare—sii ! "
"Non pensare di essere—sii!"
"Non pensare all'essere—tu sei!"
L'autoindagine non dovrebbe essere considerata una pratica di meditazione da eseguire a certe ore e in certe posizioni;dovrebbe continuare durante tutte le ore della veglia, indipendentemente da ciò che si sta facendo. Sri Ramana non vedeva conflitto tra il lavoro e l'autoindagine ed affermava che con un po' di pratica poteva essere eseguita in qualunque circostanza. Qualche volta disse che periodi regolari di pratica formale erano benefici per i principianti, ma non patrocinò mai lunghi periodi di meditazione in posizione seduta e mostrò sempre la sua disapprovazione se qualcuno dei suoi devoti esprimeva il desiderio di abbandonare le attività mondane in favore di una vita meditativa.
 Jallaluddin Rumi. La spiritualità Sufi: un cammino verso l'ignoto - "Vasti eravamo e di un'unica sostanza"
di Aurora Maggio Cooper
Ci si avvicina con meraviglia, alla saggezza del passato, quando è ricca di significati e valori che rafforzano la ricerca di unità in noi stessi, di fusione con la vita e di libertà interiore. I Sufi di tutti i tempi hanno lasciato straordinarie tracce di libertà interiore e di senso mistico della vita. Per i Sufi il significato nella lingua comune del termine "mistico", come misterioso, come qualcosa di confuso o difficile comprensione, è dovuto solamente all'ignoranza dell'esperienza del sacro, ad un inconscio analfabetismo che la società sviluppa verso la spiritualità (Idries Shah, Pensiero e azione Sufi, ed.Psiche). La religiosità sufi è sorta all'interno dell'Islam, quando la fiducia nel divino, dopo le prime generazioni, non era più difesa da uomini accettati per la loro esperienza del divino stesso, ma dai califfi -successori di Maometto - preoccupati soprattutto da questioni politiche e da uomini di legge interessati al potere. La via sufi si collocava oltre. Come esperienza viva di fiducia nella sacralità della vita, di cui si può fare esperienza, dopo aver "lucidato lo specchio" e "tolto la polvere", dopo essersi cioè distaccati dalle illusioni della mente, che oggi chiamiamo condizionamenti culturali, sociali e familiari. Il sufismo è conoscenza e scienza del cuore, capace di riconoscere e separarsi dalla religione formale e dalla vita ignorante, fatte di cose esteriori
Ibn el Arabi, un grande mistico sufi dice:
Il mio cuore è ora capace
di qualunque forma
Una radura per gazzelle;
un monastero per monaci;
un tempio per idoli;
la Moschea della Mecca
dei pellegrini;
le tavole della Torah e le
pagine del Corano.
lo seguo l'amore:
con qualunque forma si
presenti, là è la mia religione e la mia
fiducia.
Il sufismo non passa attraverso le forme esteriori, l'intelletto, la parola, la mente, ecc. tanto da non fare alcuna discriminazione fra diverse forme, cristiane, islamiche, pagane, ebraiche che la passione religiosa potrebbe aver assunto! L'anima è concepita come parte di un unico mare, un mare di pace, sulla cui superficie le increspature e le onde e le tempeste sono la vita quotidiana, l'attaccamento alle forme esteriori e la mente negativa. Parlando dell'unità primordiale Rumi si esprime così:

Vasti eravamo e di un'unica sostanza
senza testa né piedi eravamo
eravamo un'unica testa, un'unica sostanza come il
raggio di Sole.
Senza nodi eravamo e limpidi come l'acqua.
Uno degli aspetti sufi più sorprendenti è la discontinuità. I Sufi sanno che tutti gli esseri umani hanno una tendenza alla ripetizione, l'uso del ritmo e i suoi effetti possono spostare le fasi e consentire all'essere umano di vivere, agire e pensare al di fuori della ripetizione e del tempo quotidiano a lui più familiari.
Le tecniche di meditazione sufi esplorano, infatti, il passaggio tra continuità e discontinuità. Possono trarre beneficio da queste tecniche, coloro che sanno spostare l'attenzione e rendersi consapevoli della ripetizione del noto, per dirigersi con coraggio verso la discontinuità. In altre parole coloro che riconoscano la loro identità condizionata e se ne vogliamo discostare. Conoscere le tecniche nella loro meccanicità è insufficiente, dunque, occorre un'intenzione del cuore, un riconoscere e un volersi discostare dalla polvere depositata dal vivere corrente e ripetitivo. E' per questo motivo che i Sufi riconoscono nel maestro lo "specchio lucidato" riflettente, che suggerisce la via per uscire dalla continuità delle abitudini del noto e inoltrarsi verso la discontinuità dell'ignoto, del nuovo. Si possono sperimentare alcune tecniche sufi, prima fra tutte la tecnica derviscia del girare su se stessi per tempo lunghissimo... sino a che la superficie, la periferia non si sciolgano nella pace del nostro centro profondo, il "mare di pace" di Rumi. O la tecnica dei punti cardinali, le quattro direzioni, che coinvolge il corpo tutto e le braccia in movimenti ripetuti verso le quattro direzioni cardinali, concludendosi con la giravolta derviscia.



Il giardino di Kandahar
a cura di Italo Bertolasi e Ginevra Sanguigno da "Le culture della visione I"
Sono colui che parla, colui che cerca, colui che unisce.
Sono colui che cerca lo SPIRITO DEL GIORNO, cerco dove vi è paura e terrore; sono colui che ripara e guarisce; sono colui che risolve tutto.
Al centro del mondo tu mi hai condotto e mi hai mostrato la bontà e la bellezza e la diversità della verdeggiante terra... la Madre unica... e là le forme, spirito delle cose come dovrebbero essere, hai mostrato a me ed io ho visto! Al centro di questo cerchio sacro tu hai detto di aver fatto fiorire l'albero...
Ancora una volta... rievoco la grande visione che mi inviasti. Forse ancora vive una piccola radice dell'albero sacro. Nutrila... che possa fare foglie e fiorire e riempirsi di uccelli che cantano.
Ascoltami!... Non per me, ma per il mio popolo.
ABURRA popolazione della Colombia: ESTINTA
CANARI popolazione dell'Ecuador: ESTINTA
CHONO popolazione del Cile: ESTINTA
QUIMBAYA popolazione della Colombia: ESTINTA
TIMOTE popolazione della Terra del Fuoco: ESTINTA
YAHAGAN popolazione della Terra del Fuoco: ESTINTA
Viaggiatore che da Occidente vai verso Oriente, se attingi la perfezione nella nostra Assemblea - in questo giardino - tuo seggio sarà un trono, avrai ciò che vuoi in tutto!
...Esisteva da sempre, vicino alle mura di Kandahar, uno splendido e misterioso giardino: là di notte si radunavano i vecchi saggi e i Dervisci... Esploravano con le Arti ed alcune Erbe magiche le vie sconosciute del risveglio interiore.
Senza il potere dei saggi di questo giardino d'amore, non si potrebbe guardare la Luna, né farsi Amare...
Qualsiasi cosa tu dica, non è che il prolungamento della lampeggiante nube temporalesca dell'eternità! il Cavaliere del Cielo passa, s'alza nell'aria la sua polvere d'oro... Egli volò, ma la polvere che sparse resta tuttora sospesa.
Guarda fisso questa visione, non volgere lo sguardo a destra e a manca, la sua polvere d'oro è pur qui, ma lui è già nell'Infinito!

 Un chassid vive come un fiume
di Aurora di MaggioFiducia e spontaneità gioiosa nella sacralità della vita terrena
Il movimento chassidico più noto nasce in Europa orientale attorno al '700. Era costituito da ebrei non più interessati alle sacre scritture da interpretare o alle dottrine cabalistiche ma a un'esperienza di vita diretta, spontanea, viva.
Gli chassidim erano interessati alla religiosità della vita e non più alla religione, ai sacri testi, alle teorie di interpretazione talmudiche. Erano l'altra faccia della religione tradizionale. Chassid - plurale chassidim - è una parola ebraica che significa pio. Fu usata per indicare gruppi e movimenti ebraici molto lontani fra loro per caratteristiche ed epoche, con un comune denominatore generico, una forte connotazione mistica.
Una caratteristica del chassidismo fu il sorgere di differenti e svariate comunità attorno a un vero saggio, lo zaddik. I saggi chassidici e la gente attorno a loro vivevano in modo ordinario, lavoravano, avevano i piedi piantati per terra, ma portavano un po' di paradiso in ogni loro gesto.
Un detto chassidico dice: 'Se un uomo d'Israele si tiene in mano saldamente, sta solidamente sulla terra, allora la sua testa potrà raggiungere il cielo', e ancora: "Dio è da vedere in ogni cosa e da raggiungere in ogni semplice atto".
 Martin Buber
Il chassidismo europeo tradizionalmente fondato da Baal Shem Tov, 'Signore dal buon nome', emerge nei 'Racconti degli chassidim' (Garzanti) raccolti da Martin Buber. Martin Buber, filosofo, letterato e mistico moderno, si appassionò alla tradizione chassidica cui diede voce e parola nella cultura occidentale. Dice Buber: 
"L'insegnamento chassidico indirizza l'uomo a una vita di fervore, di fervida gioia. Ma questo insegnamento non è teoria che esista indipendentemente dal fatto che venga o non realizzata... Poiché le esperienze che l'uomo fa col mondo e con se stesso molto spesso non sono atte a suscitare fervore... le grandi religioni lo indirizzano verso un'altra esistenza, un mondo di perfezione in cui anche la propria anima è perfetta... di fronte a questa perfezione la vita terrena viene considerata solo un passaggio..., ma nell'ebraismo, senza pregiudizio della fede in una vita eterna, è sempre stata forte la tendenza a provvedere la perfezione di una dimora terrena e il chassidismo vide in tutti gli esseri e in tutte le cose irradiazioni divine".
 Sempre Buber:
"Ma in che modo l'uomo, e particolarmente l'uomo semplice a cui in primo luogo il movimento chassidico si rivolgeva, poteva arrivare a vivere la sua vita di gioia? Come riconoscere nei suoi incontri con esseri e cose, le scintille divine che in essi si celano? Certo, basta soltanto un'anima umana indivisa.. ma in questo labirinto della nostra esistenza ...come non perdere l'unità? E quando si è persa come ritrovarla? Ci vuole chi aiuti insieme il corpo e l'anima: questo soccorritore è lo zaddik, un guaritore sia del corpo che dell'anima, perché conosce come essi sono legati l'uno all'altra e questa conoscenza gli permette di agire su ambedue."
Lo zaddik facilita il rapporto dei chassidim con il divino ma non lo sostituisce. E' un uomo che vive come gli altri, in mezzo agli altri, che balla con gli altri, che fuma la pipa... con gli altri. Nel dubbio lo zaddik rafforza ma non suggerisce la verità, non permette mai che l'anima del chassid si lasci sostituire dalla sua. Uno dei grandi principi del chassidismo è che lo zaddik e il popolo siano uniti intimamente l'uno all'altro. Il loro rapporto reciproco viene paragonato a quello fra materia e forma, tra anima e corpo. Gioiosamente bevono insieme, cantano e danzano insieme, narrano storie consolanti di miracoli, si aiutano.
 La magia dei signori del nome
Il fondatore Israele ben Eliezer di Mesbiz, detto Baal-shem-tov sembra appartenere a un seguito di Baal - shem, di Signori del nome, di coloro che conoscono un nome di Dio, una virtù magica, e sanno servirsene per guarire e aiutare gli uomini. La base naturale della loro opera è la capacità di percepire le relazioni tra le cose al di là dei loro legami spazio temporali, e il loro potere ridare forza e solidità al centro spirituale del loro prossimo, per rigenerare corpo e anima. Il Baal-shem aveva imparato a comprendere quello che dicevano gli animali e gli alberi e lo insegnava ai chassidim. Un grande avversario del movimento chassidico, promotore di un bando contro il Baal - Shem Tov lo accusava di praticare arti magiche. In realtà ciò che appariva magia era l'unione di spirito e natura in una sola persona. Tutte le volte che questa unione compare in una figura umana, essa dà testimonianza di vita e di equilibrio.
 Il racconto
I racconti chassidici sono carichi di significati che toccano in profondità, un'alleanza appunto tra spirito e materia che rende possibili immagini narrative come simboli:

Una volta, quando tutti i chassidim erano seduti insieme, in armonia, con la pipa in mano, il rabbino Israel si unì a loro. Poiché era così disponibile gli chiesero:
"Caro rabbino, dicci, come possiamo servire Dio?" Questa domanda sorprese il rabbino che rispose: " Come posso saperlo?" E proseguì raccontando questa storia...
C'erano due amici del re, tutti e due colpevoli di certi crimini. Poiché il re li amava e voleva dimostrare loro la sua benevolenza, ma non poteva assolverli perché anche la parola del re non poteva prevaricare la legge, emise questa sentenza:
"Una fune dovrà essere tesa attraverso il profondo abisso e, uno dopo l'altro, i due dovranno camminarci sopra. A chi riuscirà a raggiungere l'altro lato verrà concessa la grazia della vita.
Fu eseguito l'ordine del re e il primo dei due amici attraversò l'abisso incolume. L'altro, fermo sull'orlo del baratro, gli urlò: "Dimmi, amico, come hai fatto ad attraversare? "
Il primo rispose: "Posso solo dirti che ogni volta che mi sentivo pendere da un lato mi spostavo sull'altro".
Un equilibrio spontaneo dunque, senza estremi, senza sbilanciamenti a destra e a sinistra, ma nel mezzo, come per la fune sul baratro. La vita di ogni giorno è sacra, compresa la pipa, danzare, godere la vita in modo sacro, gioioso. Ecco il messaggio chassidico per raggiungere l'equilibrio. Il chassidismo non è una scienza ma un'arte, non crede nelle tecniche ma nell'amore per la vita in quanto tale. Un'arte profonda di equilibrio, convinta della presenza dello spirito in ogni semplice accadimento quotidiano. Nessuno può insegnare al neonato come respirare, se il respiro dipendesse da un insegnamento non ci sarebbero esseri viventi. E' una capacità innata, naturale.
Lo chassidismo afferma che se un uomo vive la sua vita con spontaneità, un giorno nascerà l'amore per il divino, con la stessa naturalezza con cui nasce l'amore fra uomo e donna, con la stessa naturalezza con cui si respira, ma quel momento prezioso non può essere costruito, pianificato, è sufficiente vivere con spontaneità.
Fluire nella natura. il cielo è stupendo, è un mattino pieno di odori... il caffè è caldo... uno chassid vive come un fiume, con fiducia.

 Pigmei - mappe di spazi interiori del piccolo popolo
di Matteo Guarnaccia
Il mio cuore è in festa,
Il mio cuore prende il volo cantando,
sotto gli alberi della foresta;
foresta, nostra dimora e nostra madre;
nella mia rete ho preso un piccolo,
piccolissimo uccello;
Il mio cuore è preso nella rete,
nella rete insieme all'uccello.
Salutati da questo dolcissimo canto vengono al mondo i bambini di uno dei popoli più gentili del pianeta, i Pigmei. Un popolo che miracolosamente è arrivato in questo secolo, conservando una sensibilità ed una consapevolezza straordinarie. Agli amorevoli custodi di un ambiente naturale fantastico, la foresta pluviale, la "modernità" ha regalato le frontiere (attualmente i Pigmei sono divisi tra Repubblica Centroafricana, Zaire, Congo, Ruanda e Camerun), i bulldozers (che stanno piallando il loro territorio tribale ad un ritmo impressionante, per fornire tra l'altro ai nostri salotti il legno pregiato), il bracconaggio (gli elefanti ed altri animali sterminati per fornire le boutiques e le gioiellerie) e missionari di una religione paranoica ed intollerante ad uno dei popoli più spirituali del pianeta (già gli Egizi li chiamavano "danzatori degli Dei"). Come altri popoli "primitivi" del pianeta, i Pigmei sono diventati un ''fastidio sulla via dello sviluppo". Ultimi scampoli di una serie ininterrotta di orrori e di genocidi sulla via dello sviluppo del pianeta, dove ha cittadinanza solo quanto è in funzione dell'economia di mercato. Se la situazione non cambia i pigmei non saranno più il piccolo popolo della foresta ma, come è già successo ad altri gruppi etnici, confluiranno in quel magma alienato e disperato di cittadini di serie z, dipendente in tutto e per tutto dai capricci dell'occidente. E' con un sentimento fortemente ambiguo che ci si avvicina a questo tipo di mostre, come ambiguo è il nostro rapporto con queste culture. Da una parte il piacere della conoscenza, dall'altra il disagio per le difficoltà del loro destino. Stupende le pitture Mbuti su corteccia di albero battuta, provenienti dall'area dell'Ituri, nello Zaire. Ma non è certo attraverso la pittura che i pigmei danno il meglio della loro espressività, essi sono appassionati danzatori, grandi narratori di storie, ma soprattutto maestri incontestati del canto polifonico. E' anzi ancora oggetto di discussione se la "pittura" su corteccia sia una forma d'arte nativa o sia piuttosto mutuata dai Bantù coi quali hanno da sempre uno stretto rapporto di interdipendenza. E' comunque indubbio il fascino di questi segni geometrici, di questi simboli astratti che disegnano delle cartografie di spazi interiori, mappe precise dove ogni più piccolo sentiero della mente è segnato, territori segreti dove nessun missionario e nessun bulldozer riuscirà mai a penetrare, mappe che, spariti i pigmei, nessuno riuscirà più a leggere. Certo guardare queste opere dietro un vetro fa un po' l'impressione di vedere farfalle spillate in un ambiente sterilizzato... altro è vederle volare.
 La religione solare andina del popolo dei Q’echua - Il ponte di colibri'
di Bisi Mauro
La religione solare andina è sopravvissuta all'invasione spagnola protetta dalla adattabilità e dalla umiltà del popolo Q'ECHUA, che comprese subito l'impossibilità di opporsi o di dialogare con l'arroganza di chi può pretendere di possedere l'unica verità. L'apparente espansione della religione cattolica nel Perù fu causata dalla necessità di sopravvivere al genocidio, per cui, gli Andini, trasferirono i propri contenuti religiosi all'interno della liturgia cattolica. Questa è l'operazione che, a livello di massa, il popolo dell'incanto ha posto in pratica. Si continua in privato a rivolgersi alla Madre Terra, mentre in pubblico, alla Vergine Maria. Si continua interiormente a lavorare con lo spirito delle montagne che ora hanno preso il nome di un qualche santo, mentre ufficialmente è al santo che vengono dedicate feste e orazioni. Ma c'è anche chi non ha potuto sopportare questo tipo di compromesso, per questo si sente spinto a nascondersi tra le più alte montagne, dove la sete di oro, non poteva portare i conquistadores.
Una parte molto vitale del popolo, trovò protezione dall'indottrinamento o dal genocidio, in quei luoghi impervi e selvaggi. Trovò protezione rispetto ad un pensiero ritenuto delirante, perché molto distaccato dalla natura e dai profondi sentimenti umani. L'unico luogo, dove ancora rimangono intatte le antiche tradizioni del TAWANTINSUYU, purificate da più di 4coco anni di umiltà e invisibilità. Purificata rispetto agli inquinamenti che il potere produsse anche tra gli Inca è Q'ERO, la nazione degli Q'EROS, una serie di villaggi posti a 5700 metri sul livello del mare, a Nord di Cuzco, l'antica capitale.
Guidati da sacerdoti del popolo, una colonia di pastori nomadi, si stabilì con le famiglie e gli armenti, in quei luoghi inospitali. Là, dove il contatto con le montagne imponenti, con un cielo meraviglioso ma incombente, con una terra avara e sassosa, li costrinse ad una vita durissima, ma piena di contatto con l'interiorità, la percezione, la presenza continua della morte, dentro una vita, comunque straripante di energia.
E' questa comunità di Q'ERO che noi (?)abbiamo avuto la fortuna di visitare, grazie all'intervento delle uniche due persone, autorizzate dagli Q'EROS, a fungere da "porta" per il loro mondo. Sono due iniziati, gli unici non indios. Sono l'antropologo Juan Nunes Del Prado e lo scrittore Americo Yabar Z. Questi due miei amici sono a capo di un movimento culturale che collabora con una decina di antropologi dell'università di Cuzco che si è posto il problema di non interpretare, ma semplicemente di riportare e mantenere viva, l'antica, ma per me sempre attuale, cosmovisione del popolo andino, cercando di contrastare l'attacco di un altro nemico irriducibile della natura, cioè il consumismo armato di mass - media che sta conquistando anche il Perù.
E' la percezione dello spirito, che può nascere solo dalla possibilità di "essere nei propri sentimenti naturali", perché rispettosi del proprio corpo, sacra sede dell'anima, l'asse portante della religiosità andina. Per un Q'echua tutto è vivo, non esiste differenza tra "vivo" e "morto" ma solamente tra: vita organica, vita inorganica, vita spirituale. Una trinità che viene definita con i concetti di UKU PACHA: tutto ciò è inconscio, sotterraneo, nascosto ma esistente, interiore; KAY PACHA, cioè tutto ciò che è conscio, visibile, palese, organico, facilmente percepibile. HANAK PACHA cioè il soprasensibile, il superconscio, il mondo dello spirito, il mondo delle leggi che governano gli altri due mondi e se stesse.
Queste tre categorie, sono da intendersi, sia descrittive del macrocosmo sia del microcosmo.
L'UKU PACHA è una dimensione all'interno del pianeta e all'interno di ogni essere. E' la materia vivente, che reagisce all'azione dello spirito agendo alchemicamente. Da questo incontro "sensuale" in quanto mosso dal sentimento dello spirito e da quello della materia, si producono figli inorganici che vivono una vita inconscia per l'uomo normale. Il KAY PACHA è il mondo visibile, animato dagli essere animali, vegetali minerali. Nel Kay Pacha è situata "La percezione della madre terra" (Pacha Marna), della parte più femminile del pianeta: l'acqua (Marna Cocha). Troviamo Tayta Inti, il padre sole, Wayra il vento, e la pioggia (Para), il fulmine (Kaya), il tuono (Qaqa), il fuoco (Nina), la luce (Illa), la luna CKJlla), le stelle (Coyllor), gli altri pianeti e l'arcobaleno che tutto santifica e rende bello. Attraverso un contatto emotivo sentimentale con lo spirito degli elementi, l'uomo cerca e trova il contatto con il regno di HANAK PACHA dove l'energia spirituale delle montagne, così forte a causa del potere che le punte hanno di attirare a sé l'energia circostante, aumentata dalla volontà degli uomini che indirizzano amore alle montagne stesse, diventa un tramite tra Kay Pacha (mondo cosciente) e Hanak Pacha (mondo supercosciente). Questa energia spirituale delle montagne, depositaria dell'energia collettiva si chiama "APU". Possiamo considerare l'Apu una banca di energia a cui attingere con il contatto meditativo, come la parte più raffinata dell'energia della terra, Pacha Mama, raffinata in quanto più sottile, più psichica, rispetto all'energia più fisica, che la nostra madre cosmica elabora. All'Apu e alla Pacha Mama ci si rivolge con sentimento (Munay).
Quando incominciammo la nostra avventura, che ci avrebbe portato in quel monastero informale che ha nome Q'Ero, noi italiani avevamo seri dubbi sulle nostre capacità di resistere a quelle condizioni così dure. Nessuno di noi aveva esperienza in altura, nessuno era alpinista. Ma Americo continuava a dire, che se gli Apu lo desideravano, saremmo arrivati a destinazione e, se non fossimo arrivati, non sarebbe stato solo per le nostre scarse qualità atletiche.
Ci insegnò una meditazione particolare, per entrare in contatto con le montagne, e ci suggerì di mangiare solo il cibo che mangiano gli Q'Eros.
Quattro di loro ci accolsero dopo 16 ore di camion, in un posto sperduto a 45coco m. chiamato Chaotacucho. Unonera un capo villaggio e sacerdote, uno era suo figlio e due erano apprendisti del capo. Questo uomo sulla cinquantina era un ALTOMESAYOQ, sacerdote di 5° grado della scala gerarchica religiosa andina. Il primo grado è coca Wairschin, o colui che legge le foglie di coca lanciate con mano esperta su un panno di alpaca chiamato UNKUI. Attraverso una relazione con lo spirito delle foglie e il proprio intuito, devono essere in grado di conoscere il passato, decifrare il presente e prevedere il futuro: 11 secondo grado è il Watoo o voggonto. Voggonto è colui che attraverso il continuo lavoro con le foglie e l'intuizione, ha raggiunto un grado di sensibilità tale da poter leggere senza strumenti accessori l'energia degli esseri umani e decifrarla in maniera esatta. Il terzo grado è quello di Hampeq o Curandero. Egli è un uomo cosi immerso nel rapporto con l'energia e le sue leggi, da non poter instaurare un rapporto con lo spirito delle piante dal quale si fa suggerire i metodi di cura per i singoli casi. Quando un uomo è sufficientemente avanti in questo tipo di conoscenza può tentare di lavorare con lo spirito del pianeta, PACHA MAMA con la sua capacità di mangiare ogni tipo di inquinamento energetico fisico e, quindi, di curare le malattie, ma anche di stroncare gli attacchi psichici di Brujos o malintenzionati, cosa che il curandero non può fare. Questo 4° grado è il grado di PAMPAMESAYOQ. IL 5° grado o ALTOMESAYOQ è la capacità attraverso un continuo servizio alla Pacha Mama, di avere accesso all'energia dell'Apu, tramite la conoscenza del ROAL, ossia l'energia cosmica agente nel pianeta. Energia che tende verso le vette. La Pacha Mama è femmina e il PAMPAMESAYOQ è ancora come un bambino. Amando la madre cresce ed entra nel mondo del padre, il cacciatore, il viaggiatore, il Roal. Seguendo il padre si arriverà all'Apu, eretto sopra la pianura, teso verso HANAK PACHA
Un Altomesayoq lavora con l'energia collettiva di tutta la popolazione.
Il QURAQ AKULIAQ è il quinto grado. Un uomo che attraverso il servizio amorevole all'Apu e alla collettività, ha sviluppato una capacità di immedesimazione tale da poter trasferirsi là dove la sua presenza è richiesta continuando a restare nella propria casa. Si parla di gerarchia, ma bisogna intendere con ciò diversi livelli di consapevolezza e di disponibilità all'amore disinteressato.
Continuo a raccontare della salita a Q'ERO perché per noi fu stupefacente salire da 4500 ai 5700 metri passando attraverso una tempesta di neve di un'ora abbondante a quota 5000. La cosa ci feceva pensare alla nostra morte, mentre i Q'Eros ridevano divertiti. Americo continuava a sostenerci ma sul suo volto io potevo leggere la preoccupazione per un'altra cosa molto importante. Era la prima volta che occidentali salivano a Q'Ero per conoscere i rituali dell'Alta Sierra, e lui si sentiva responsabile per noi tutti. Ne sarebbe andata della sua reputazione se avessimo fallito.
Lungo il cammino incontrammo sulla neve orme di puma e questo animale divenne il nostro lasciapassare. Arrivati a Q'Ero dopo mille peripezie, con le lacrime agli occhi, ci  fu assegnata una CHOSA, casa di pietra senza riscaldamento dove avremmo dovuto vivere, a quell'altura, per una settimana.
Americo fu chiamato dal Capo, molto preoccupato perché era sparito uno dei suoi alpaca. Gli venne chiesto di scoprire, lanciando le foglie, se l'alpaca si era solo perso, se era stato rubato da ladri se era stato ucciso dal puma. Non vi erano tracce di puma nei pressi del villaggio ma per Americo le foglie dicevano che: "EI puma ha matado a l'alpaca". Il giorno dopo fu ritrovato l'alpaca sbranato dalla fiera. Questo era il segno dell'impeccabilità della nostra guida, i nostri sforzi per giungere fino a lì, erano quasi una prova per la nostra. Arrivarono altri personaggi, noi ci sedemmo in circolo con una dozzina di Q'Eros che ci guardarono a lungo con aria piuttosto dura. Dopo qualche tempo uno di loro cominciò a sorridere e gli altri lo seguirono. Fu il segnale di una accettazione definitiva, molto sospirata. Loro ci avevano osservato in una maniera molto particolare, ci avevano visto e con noi le nostre sincere intenzioni. Ci venne spiegato che la strada della conoscenza può essere iniziata in modi diversi. 
Un modo è quello di venire colpiti da un fulmine e non essere uccisi. In questo modo l'energia dell'HANAUH PACHA irrompe nella vita del soggetto cambiando la sua percezione per sempre. Questo candidato viene riconosciuto perché "visto" da altri iniziati e viene assistito nel sistematizzare la valanga di sensazioni all'interno di un codice molto antico. Un altro modo è la ricerca personale che porta il candidato, attraverso errori e contraddizioni, a cercare un maestro, che interrogherà le foglie o la propria seconda vista per decidere se accoglierlo o no.
Il terzo modo è quello di essere scelti da un maestro, che si incaricherà di accompagnare l'iniziando verso i gradini dell'apprendimento. Noi fummo portati nella chosa del Capo dove furono officiati due rituali propiziatori, uno per gli Apu, uno per la Pacha Mama. Nei giorni successivi ci furono insegnate tecniche meditative per entrare in contatto con gli elementi della natura. Dopo questo trabajo furono nuovamente lanciate le foglie per noi e quindi decisero di legarci simbolicamente con un filo bianco all'energia dell'Apu Waman-Lipa o Palco di pietra. Da quel momento eravamo iniziati all'interno della più antica forma di religiosità andina e cominciò per noi lo studio dell'Alto Despacho di Q'Ero, ovvero l'arte più pura ed antica di rendere omaggio agli Apu e alla Pacha Mama. Ci sentimmo tutti più che onorati, felici. Felici di questa opportunità anche se ancora oggi io mi chiedo quanto merito tutto questo.

 La terza rivelazione di Kandinsky
di Vasillay Kandinski 
Da sguardo al passato
"Oggi è il momento di una delle grandi rivelazioni del mondo. Comincia qui la grande epoca dello spirituale, della rivelazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. L'arte è, per molti aspetti, analoga alla religione. Il suo sviluppo non consiste nell'avvento di nuove scoperte che cancellino le vecchie verità... Il suo sviluppo consiste di nuove verità che fondamentalmente altro non sono che lo sviluppo, la crescita organica di una precedente saggezza, la quale non è violata dalla saggezza ulteriore, bensì come saggezza e verità continua a vivere e a produrre.
Il tronco dell'albero non diviene superfluo per lo spuntare di un nuovo ramo: il tronco rende possibile il ramo. Sarebbe stato possibile il Nuovo Testamento senza il Vecchio? Sarebbe forse possibile la nostra epoca alla soglia della "terza" rivelazione, senza la seconda? E quali sono gli elementi necessari alla ricezione della "terza" rivelazione, la rivelazione dello Spirito Santo? Una sola richiesta: la richiesta della vita eterna!
 Il cerchio sacro di Alce Nero
di J.Neidhardt
da "Alce Nero parla" ed. Adelphi
Avete osservato che tutto ciò che un indiano fa è in un circolo, e questo perché il Potere del Mondo sempre lavora in circoli, e tutto cerca di essere rotondo. Nei tempi andati, quando eravamo un popolo forte e felice, tutto il nostro potere ci veniva dal cerchio sacro della nazione, e finché quel cerchio non fu spezzato, il popolo fiorì. L'albero fiorente era il centro vivente del cerchio, e il circolo dei quattro quadranti lo nutriva. L'est dava pace e luce, il sud dava calore, l'ovest dava la pioggia, e il nord, col suo vento freddo e potente, dava forza e resistenza. Questo saper ci veniva dal mondo dell'aldilà, con la nostra religione. Tutto ciò che il Potere del Mondo fa, lo fa in un circolo. Il cielo è rotondo, e ho sentito dire che la terra è rotonda come una palla, e che così sono e stelle. Il vento, quando è più potente, gira in turbini. Gli uccelli fanno i loro nidi circolari, perché la loro religione è la stessa nostra. Il sole sorge e tramonta sempre in un circolo. La luna fa lo stesso, e tutti e due sono rotonde. Persino le stagioni formano un grande circolo nel loro mutamento, e sempre ritornano al punto di prima. La vita dell'uomo è un circolo, dall'infanzia, e lo stesso accade con ogni cosa dove un potere si muove. Le nostre tende erano rotonde come i nidi degli uccelli e inoltre erano sempre disposte in circolo, il cerchio della nazione, un nido di molti nidi, dove il Grande Spirito voleva che noi covassimo i nostri piccoli.

 Lo splendore della chioma
di Paul Klee
 Da una lezione agli studenti della Bauhaus
Per effetto del più lieve impeto, il punto è pronto ad emergere da uno stato in cui la sua mobilità è nascosta e a muoversi, a procedere in una o più direzioni. Sta per divenire linea. In termini pittorici concreti; il seme mette una radice. Inizialmente la linea è diretta verso la terra, non per dimorarvi, ma solo per trarne energia per protendersi nell'aria. Il punto originario fra suolo e aria si distende e l'immagine vegetale generalizzata diviene albero, radice, tronco, chioma.
Il tronco è il canale che rende possibile la salita della linfa dal terreno all'alta chioma. Le forze lineari si radunano al suo interno, formando una potente corrente, e si irraggiano in fuori a riempire lo spazio aereo a una libera altezza. Perciò l'articolazione in avanti diviene naturalmente vieppiù ramificata e aperta, per trarre il massimo beneficio dall'aria e dalla luce. Le foglie si appiattiscono, l'intero organismo viene ad assomigliare ad un polmone, o alle branchie di un pesce, poroso, suddiviso, al servizio di un unico fine.
Traiamone esempio: una struttura che funziona dall'interno all'esterno o viceversa. Impariamo: l'intera forma ha una sola base, la base della necessità interna. Nessuno si aspetta che un albero riproduca nella sua chioma esattamente le radici. L'artista si limita al suo posto nel tronco dell'albero, a raccogliere ciò che emerge dal profondo e a trasmetterlo oltre... La sua posizione è umile: non è lui stesso lo splendore delle chiome, quello splendore semplicemente lo attraversa.
 Tre corpi del mandala
di K. Dowman
Da "La danzatrice del ciel" Ubaldini Ed.L'importanza del Lama
Nella metafora della barca che attraversa l'oceano del samsara, il Lama è il capitano della barca chiamata "Trasmissione Orale", è lui che fornisce le grandi vele dei precetti segreti. I consigli del Lama sono una guida per giungere all'altra sponda, il Lama concede la maturità e la liberazione attraverso l'iniziazione e le istruzioni sul post-meditazione. Con il gran numero di tecniche fornite dai Tantra, mediante un'accurata prescrizione, il Lama può effettuare l'immediata liberazione del samsara. Il solo fattore indispensabile è l'introduzione dell'iniziato da parte del Lama, alla naturale purezza originaria della sua stessa mente.
Il Lama è il Buddha e possiede i tre aspetti dell'essere del Buddha: l'indivisibile trikàya (i tre corpi). Questi tre aspetti sono l'essere vuoto fondamentale (dharmakàya), l'essere visionario (sambhogakàya) e l'essere di apparizione (nirmanakàya). C'è una formula semplice che definisce i tre aspetti: l'assenza è vuota, la natura è luminosa, la manifestazione compassionevole è onnipervadente. Questi tre aspetti possono essere concepiti come tre sfere dell'essere che si compenetrano, allo stesso modo in cui ghiaccio, acqua e vapore sono aspetti o modalità dell'acqua. Sebbene "l'essere vuoto, fondamentale" sia la totalità, è anche Vacuità di ogni individuo, il vuoto spazio primordiale che è alla base di tutti gli esseri senzienti è consapevolezza non duale, priva di oggetto, in quanto non c'è né un soggetto che ne faccia esperienza, è puro piacere, perché se ne acquista coscienza attraverso l'unione statica, in termini di mandala, è il centro che tutto pervade.
L'"essere visionario" è la natura luminosa del Buddha che risplende di variegati colori di arcobaleno che trasmettono gioia e conoscenza: dà piacere estetico perché è totalmente privo delle contaminazioni emotive; è perfetto godimento in quanto infinito e senza impedimenti; in termini di mandala, è lo spazio compreso fra il centro e la circonferenza. L'"essere di apparizione", è l'universale sensibilità dell'essere compassionevole che, in risposta alle esigenze di tutti gli esseri senzienti, si manifesta attraverso apparizioni illusorie; è "l'essere incarnato" perché la principale forma di emanazione è quella umana. In termini di mandala è la circonferenza.
Le tre radici sono strettamente connesse ai tre aspetti dell'essere: possono essere infatti concepite come personificazioni divine dei tre aspetti della natura del Buddha: del suo Corpo, della sua Voce e della sua Mente.
 Il mandala buddhista
di Gianni De Martino
Il termine sanscrito mandala significa "ciò che contiene lo schema essenziale dell'esperienza". Manda significa "essenza"; "la" è un suffisso che indica un supporto, letteralmente "ciò che tiene insieme".
L'equivalente tibetano Dkyil Khor significa "centro circonferenza".
Attraverso la pratica rituale del mandala ci si attiene al nostro rapporto con la realtà, e gradualmente si giunge a prendere consapevolezza della grande beatitudine che è l'essenza dell'esperienza. Vi sono mandala che rappresentano la coscienza illuminata e la relazione pura; luminosa e gloriosa che il Buddha ha con la realtà. In tal caso, dkyil è l'essenza, la parte migliore, il centro, il cuore; e khor il circostante. Nella simbologia tantrica buddhista la coscienza illuminata viene raffigurata come il dio e Khor come il suo palazzo.
Il mandala viene generalmente costruito con polveri colorate, che vengono disperse dopo il rituale. Altri mandala si trovano raffigurati sulle tangka tibetane. Anche un certo modo di congiungere le mani può rappresentate il mandala della propria esperienza, da offrire al Lama. Nulla in se stesso, l'intero universo della nostra esperienza viene offerto al Maestro che rappresenta la spiritualità trasmessa, da bocca o orecchio, dalla catena iniziatica risalente allo stesso Buddha e al campo dell'illuminazione primordiale.
Secondo la tradizione tantrica buddhista il mandala esterno indica il nostro rapporto con il mondo delle percezioni, il mandala interno il nostro rapporto con il mondo del corpo; il mandala segreto il nostro rapporto con il mondo delle emozioni. Questi modelli generali, piacevoli o spiacevoli, risultano integrati in alcuni mandala in cui la parte esterna rappresenta il cosiddetto "mondo di fuori", la parte interna l'autoconsapevolezza, la parte centrale la sacralità dell'esperienza. La completa interrelazione delle varie "parti" della nostra esperienza è la nozione stessa di mandala. Le emozioni centrali, quelle presenti nella mente, contengono sia il seme della liberazione che quello della prigionia. Quest'ultimo caso è quello raffigurato nel mandala conosciuto come bhavacakra o "Ruota del venire all'esistenza condizionata".
Il nostro contatto con la realtà avviene attraverso il mandala delle percezioni, del corpo e delle emozioni. Il mandala esprime il modo in cui entriamo in relazione con la realtà. Il mandala esprime situazioni molto personali e nessun mandala è uguale a un altro. In qualche modo il mandala è la realtà, ed è sempre presente.
A proposito del simbolismo della "Ruota della Vita", riportiamo un estratto di un testo ormai introvabile, pubblicato in "Lotta Continua" il 30 dicembre 1980, ai tempi in cui la cosiddetta nuova sinistra incominciava ad aprirsi all'Oriente e molti studiosi particolarmente interessati allo studio e alla conoscenza dei fenomeni mentali, in particolare nel campo della "coscienza", trovavano nella tradizione buddhista del Tibet un campo di studi molto vasto, "suscettibile secondo le parole del Dalai Lama di essere indagato ed esplorato in molte situazioni, in molte direzioni". Potremmo dire che questo testo fa parte del mandala di un'esperienza generazionale, che sta a noi riprendere e non sciupare.
 La ruota della vita
La "ruota dell'esistenza" è uno strumento di contemplazione stabilito dalla tradizione buddhista. Nei dipinti dell'arte tibetana, Yama, il Re dei Morti, la regge tra gli artigli a mo' di specchio, perché ciascuno vi veda riflesso il proprio io con tutti i suoi circoli viziosi che si svolgono attraverso le varie zone di esistenza.
I sei mondi
In basso alla "ruota dell'esistenza" si trovano lande ghiacciate. Più in là, nella stessa zona, un fuoco ardente. E' l'inferno della collera, dell'ira coltivata freddamente oppure con rabbia esplosiva, incandescente. Vi compare anche un Buddha color fumo, tra le sue mani le fiamme infernali si trasformano in fiamme di purificazione. Ciò indica la possibilità permanente di apertura insita perfino nei baratri dell'esistenza, nelle situazioni umane percepite soltanto come "assolutamente" chiuse, assolutamente infernali. Più su vediamo il mondo degli Spettri detti Preta. E' la zona dell'esistenza sfortunata. Gli scacchi vi si ripetono continuamente. Vi regna la tortura del desiderio insaziabile. Vi appare anche un Buddha recante il cibo celeste che solo sarebbe in grado di soddisfare i desideri degli Spettri affamati.
Dal lato opposto al Mondo dei Preta, vediamo il Mondo degli Animali. Vi regna la stupidità e la paura. Gli esseri vivono nelle tenebre di un cieco destino di necessità naturali. Vi appare un Buddha con un libro, giacché agli animali manca la facoltà di articolare la parola e il pensiero riflessivo.
Sopra il Mondo Animale, vediamo il Mondo Umano E' la zona dell'orgoglio, ed è li che appare anche un Buddha con la ciotola delle elemosine.
In cima alla "ruota dell'esistenza", vi sono splendidi palazzi e, poco lontano, nel cielo nuvole abitate da esseri raggianti di gioia o Deva. E' un alto stato di esistenza, ma che alla lunga si rivela con grande sorpresa una condizione transitoria e mortale. Accanto al Mondo Divino, si vedono guerrieri ambiziosi che vogliono penetrare nella zona degli dei. Sono gli Asura, una specie di razza tipica, sempre in guerra fra di loro e con gli dei.

Uno scherzo cosmico
I sei mondi sono stati di coscienza egotici e modelli di zone reali dell'esperienza. "In una giornata - scrive, ad esempio, L. Wittgenstein - si possono vivere i terrori dell'inferno: il tempo è più che sufficiente."
Sulla base degli stati di coscienza caratterizzati dalla nescienza, sorge un vivo attaccamento per sé stessi e i propri interessi, e una repulsione per gli interessi degli altri. Ignoranza, Attaccamento e Odio sono rappresentati rispettivamente da: a) un maiale nero; h) un gallo rossiccio; c) un serpente verde. Girano in tondo, al centro della "ruota dell'esistenza", mordendosi la coda.
Lo stato di coscienza caratterizzato dalla nescienza o cecità spirituale, conosciuta in termine tecnico come avidya metterebbe in moto secondo il buddhismo, una specie di routine senza fine né inizio: un perpetuo errare creando un quadro illusorio di se stessi e del mondo.

I dodici anelli
Cosi, nel margine esterno della "ruota dell'esistenza" sono raffigurati (dall'alto in basso e in senso orario) dodici anelli, dodici tipi di reazioni a catena che hanno luogo ad ogni istante per portare in azione quello che chiamiamo "esperienza quotidiana".
1. All'Ignoranza (donna cieca) s'incatenano i seguenti nodi:
2. "Formazioni volitive" (tornio da vasaio); 3. "Coscienza" (scimmia che salta tra i rami); 4. Aggregato psicofisico" (Due uomini in barca); 5. "Sensi" (Casa con sei aperture); 6. "Coppia di amanti"; 7. "Sensazione" (Freccia in un occhio); 8. "Sete di vivere" (Un bevitore); 9. "Attaccamento alle forme di vita" (Raccoglitore di frutta da un albero); 10. "Divenire" (Coppia di sposi); 11. "Nascita" (Donna partoriente); 12. "Morte" (Uomo che trasporta un cadavere).
Le cose avvengono da un momento all'altro, lasciando impronte sul "flusso di coscienza". E' ciò che chiamato karma, che letteralmente significa: "azione", e che qui indica piuttosto il risultato delle azioni impregnate del "flusso di coscienza". Tale "flusso" è concepito dal buddhismo come un continnum mentale, non limitato solo alla vita presente, bensì radicato in esperienze passate e proiettato in esistenze future. Ciò che rinasce, ad ogni istante, in questa o quella zona della "ruota dell'esistenza" sarebbe quindi la continuità del flusso di coscienza di prima, e di cui l'io cosi vividamente apparente non è che un lampeggiamento effimero.

Chi è quel mostro?
Il buddhismo forse è l'unica religione ad essersi costruita una psicologia profonda, operando, tra l'altro, una relativizzazione del pensiero logico/lineare. Ciò che chiamiamo "io", "sé", "personalità ", "coscienza", "individuo", "anima" magari credendo, empiricamente, che si tratti di qualcosa di autonomamente esistente, sono nomi per coprire una moltitudine di fatti interconnessi.
Il Mostro che regge a mo' di specchio 1a "ruota dell'esistenza" è la mente illuminata stessa, cioè Buddha nella forma terrifica di Yama, il Signore della Morte. I teschi che gli fanno corona stanno ad indicare che egli ha realizzato la natura "vuota" delle particelle che, secondo il buddhismo costituiscono la personalità umana.
La "vacuità" (shunyata) è oggetto di una consapevolezza di tipo intuitivo e, comunque, non è mai concepita in termini nichilistici, né, d'altra parte, in termini eternalistici: o come qualcosa di sacro. La vacuità" ultima dei fenomeni (siano essi esterni oppure interni e permeati di consapevolezza) è piuttosto la realizzazione di un'alta meditazione - di un varco, per cosi dire, che s'apre all'improvviso in uno dei punti dell’organizzazione dell'esperienza.

Trasformatori di energia
Una volta compresa la connessione di tutti gli stati di condizionati e il loro reciproco rinforzo, una volta che si è vista in un solo istante, sincronicamente, tutta 1’interreláta struttura samsarica così come si riflette nello specchio di Yama, se ne è autenticamente fuori, spaziando in un campo più vasto, che quella comprende e  trascende al tempo stesso.

Entrare nella consapevolezza di tutto il movimento di un'emozione, significa effettivamente non fare completamente corpo con essa, non identificarvicisi assolutamente, bensì lasciare uno spazio libero per il gioco, la ripresa, la comunicazione e, in fondo, anche un certo silenzio. Questo spazio prefigura, in un certo senso, il punto-istante all'origine della coscienza, alle radici dell'esperienza meditativa.
 Gli Yamabushi - Il monte erotico dello sciamanismo giapponese
di Italo Bertolasi
Il viaggio in montagna rappresenta per gli yamabushi (asceti e monaci dell'ordine Shugendo ritirati tra i monti sacri del Giappone) l'esplorazione dei misteri della vita. Nel pellegrinaggio si raggiungono gli "iwakura", troni di pietra, dove ci si potrà riunire ai "kami", le energie sacre della creazione.
Si sale lungo sentieri che anticamente si credeva portassero alle Isole degli Immortali e al monte Kunlun, risplendente al centro dell'universo.
Nel "Sangaku Shinko", il culto per le montagne, non si scalano vette, ma, dopo purificazioni ed esercizi rinforzanti, si penetrerà come amanti nel ventre caldo e misterioso delle rocce. Ogni monte sacro nasconde il suo utero di pietra; negli "utsubo", ventri della roccia e caverne iniziatiche, ci si isolerà in meditazione e in silenzio.
Ogni monte sacro nasconde tre gioielli, invisibili al curioso, ma che il pellegrino "risvegliato" saprà riconoscere in pietre dalle forme strane. Troverà la spada, "katana", simbolo dell'energia Kundalini; lo specchio, "kagami", che rifletterà l'immagine del Vuoto, e il "magatama", a forma di embrione, che è il segno della Vita e della Passione. Ma entrare nel ventre della montagna non è poi così facile e gli yamabushi dedicano anni agli esercizi preparatori; esercizi inutili - ci dicono - se non saranno attivati da "kamigakari", l'estasi, che premierà i più sinceri.
"Gyo" sono chiamate tutte quelle tecniche che permetteranno di estraniarsi dai condizionamenti del corpo e della mente; discipline che comprendono diete, pellegrinaggi in montagna ed altri esercizi ascetici come le docce sotto le cascata, l'attraversamento delle braci ardenti, la recitazione di "mantra", parole di potere.
Tra le diete consigliate vi è l'astensione dalle carni, "nikudachi", l'astensione dai cibi salati, "shiodachi", e l'astensione dai 5 cereali, "kokudachi", che deriva dalla teoria taoista dei "tre vermi". In essa si sostiene che il corpo umano è fin dalla nascita preda di te energie distruttive, i tre vermi, il cui cibo prediletto sono i 5 cereali: riso, frumento, miglio, orzo e avena. "Mokujiki" è invece chiamata la dieta delle tre essenze. Nei periodi di isolamento in montagna ci si nutrirà di nocciole, di tenere cortecce e di pinoli.
Agli asceti veniva poi attribuito il titolo di "mokujiki Shonin" o "Santi dei tre elisir".
"Shokushimbutsu" o "Buddha mummificati" venivano chiamati quei monaci che prolungavano la dieta fino al digiuno totale e poi alla morte. Questa particolare forma di digiuno, simile a un suicidio rituale, è chiamata "Daniki" e ai praticanti verrà riconosciuto, dopo la morte, uno stato particolare chiamato nyugio, stato di sospensione della vita in attesa del Buddha Maitreya.
Tra i riti più spettacolari e più efficaci per chiarire la propria mente - "sishin-itto" - e per ottenere i poteri sacri - "reiroku" - c'è quello della doccia gelata sotto le cascate. La pratica è chiamata "mizugori" ed è ritenuta particolarmente efficace se fatta nelle prime ore delle giornate più fredde dell'inverno.
"Nachigomori" è invece chiamata la reclusione in particolari capanne vicino alla cascata di Nachi a Kumano.
"Kangyo" sono chiamate le pratiche ascetiche intraprese nei mesi più freddi che temprano il corpo al gelo invernale.
I praticanti del "Gyo" vivono in dimore non riscaldate, mangiano cibi freddi e si arrampicano in montagna dove praticano nudi la meditazione tra i venti e le tempeste.
In montagna si celebra anche l'"Hiwatari", l'attraversamento delle braci ardenti, ad opera di congreghe di yamabushi.
Questi monaci si proclamano "maestri del fuoco" ed hanno uno specialissimo rapporto con le fiamme, con la luce e il calore. Lo yamabushi che per primo attraversa il letto di braci ne riduce la forza e sarà seguito poi da tutti gli officianti.
"Yudate" è la cerimonia di purificazione con l'acqua bollente; il calderone dove bolle l'acqua è al centro di uno spazio sacro recintato da "gohei", spirali di carta appese a cordoni sacri. L'officiante asperge sé stesso e gli astanti con quest'acqua calda e poi iniziano le "kagura", danze sacre. "Katanawatari" è invece la scalata delle lame di spada, fissate sulla scala iniziatica, e "namban ibushi" è una specialissima purificazione con incensi urticanti e asfissianti che saturano la sala di meditazione.
Ma la prova più terribile è l'essere sospesi sopra un precipizio "taniko" con il rischio di venir gettati nel burrone se non si confessano le male azioni.
Ma per fortuna ci sono i custodi ed i protettori degli esercizi ascetici: Fudo e Zao sono attivatori delle pratiche ascetiche e guardiani della montagna.
Vengono rappresentati con i simboli della spada eretta, attorno alla quale si attorciglia il dragone "Kurikara". Il drago è simbolo dell'energia risvegliata che sale attraverso la spina dorsale, e la spada è immagine della retta consapevolezza e della determinazione del praticante.
Nel linguaggio esoterico giapponese salire in montagna e penetrare nel ventre caldo delle rocce ha anche il senso di morire. "Obasuteyama" vuol dire lasciarsi morire in montagna ed ancora sparire tra le rocce e nel bel film "La ballata di Narayama" si racconta l'odissea dei vecchi che in inverno raggiungevano "camere di pietra", segrete e lontane, dove in preghiera si preparavano a morire.
In montagna vanno però anche i giovani amanti per benedire i primi baci e quelle carezze preambolo dell'amore. Buon presagio sarà allora scorgere volpi e corvi od amarsi all'ombra magica e rivitalizzante dell'albero di "cryptomerià" ed avere con sé gioielli d'agata e di lapislazzulo, potenti talismani.
Nei deserti ghiacciati si potranno incontrare esseri straordinari: i "tengu", metà uomini e metà uccelli, e gli "yamatoko", una specie di yeti del Giappone, che difenderanno gelosamente i gioielli spirituali e i misteri nascosti tra le rocce.
E ancor oggi c'è chi crede a strani rapimenti chiamati "kamigakushi"; si è rapiti da questi mostri che sono anche maestri di "Dharma" la legge buddista per venir più tardi restituiti alla comunità risplendenti di luce ed in qualche caso sciamani.
Nel mio ultimo viaggio tra i monti del Giappone avevo letto l'intervista concessa da una donna ad una celebre giornalista del serissimo magazine "Asahi Shimbun".
La donna raccontava di essere stata trascinata in montagna da un "Tengu"; era inverno, pioveva e nevicava da giorni, e dopo una settimana di prigionia era stata restituita in perfetta salute.
Raccontava di essere stata nutrita con strane erbe, che l'avevano irrobustita e che le avevano restituito bellezza ed avvenenza. Poi era ritornata da sola nella foresta per ritrovare il mostro amico ma attorno a lei c'era solo vuoto e silenzio.
 Spiritualità Sherpa - miti, montagne e mandala: il dramma danzato del "Mani Rimdu"
di Italo Bertolasi
Konchok Chumbi è conosciuto tra gli Sherpa per la sua straordinaria memoria; lo incontro nel suo villaggio natale di Kumjung, ai piedi del monte sacro Kumbhila che nessun essere umano ha mai scalato.
Mi racconta del suo viaggio con sir Edmund Hillary, e con lo scalpo dello yeti nei laboratori scientifici d'Europa, mi racconta antiche leggende Sherpa e di come le valli di Kumbhu, simili ad un immenso fiore di loto d'oro, fossero dagli dei benevolenti consegnate agli Sherpa.
Le valli, "illuminate da arcobaleni" e circondate dai monti più alti della terra - l'Everest, il Lhotse, il Cho Oyu - erano un luogo segreto e misterioso dove santi e anacoreti si rifugiavano in contemplazione.
Thimi Yangho è il primo Sherpa (Sher = est, Pa = popolo) che esplora Kumbhu seguendo le istruzioni del dio Zurra e di Guru Rimpoche. Gli Sherpa emigrarono dal Tibet 300 anni fa - 27 generazioni fa - seguendo le indicazioni di Yangho.
Per raggiungere queste valli devono però attraversare deserti d'alta montagna e ghiacciai, devono superare passi altissimi - il Tashi Lepcha, il Nangpa La. Devono ancora girare attorno a montagne altissime che sbarrano la marcia e che gli Sherpa eleggeranno a "guardiani della valle".
Fenomeni atmosferici straordinari, l'alta quota, l'uso di erbe potenti ed inebrianti e la poliformia psichedelica delle pietre, degli alberi, delle cascate di ghiaccio accenderanno presto visioni e sogni. Ogni angolo di questo mondo così strano ben presto si animerà di misteriose ed inquietanti creature: magie e magnetismi, folletti e demoni, luci e dei gloriosi. L'alta quota e la natura desolata potranno anche farci sentire in balia di invisibili magie, che solo una più potente magia potrà contrastare.
Gli Sherpa adottano così l'alta magia col buddhismo tantrico tibetano; oggi gli Sherpa appartengono all'ordine "Nying Mapa" ed alla setta "Gsang - Sngags" delle formule segrete.
La maggior parte dell'attività spirituale è condotta da un lama capace di concentrare un particolare tipo di energia in grado di distruggere i demoni, nemici del "dharma" e della negatività umana.
Tra i rituali più potenti vi è certamente il dramma danzato "Mani Rimdu", che contiene elementi delle feste popolari, "Cham" e delle danze esorcistiche anti demoni dei rituali "Bon".
"Mant rtl sgrub" o "Om mani Rimdu" è anche una consacrazione della vita, ed una "prayer coromonty", che servirà a conquistare la benevolenza degli dei, simile alle rappresentazioni dei misteri del nostro Medioevo, il Mani Rimdu ricrea gli elementi leggendari riguardanti le intuizioni del buddhismo in Tibet, ad opera del mago e santo Guru Rimpoche.
Attori monaci impersonano demoni, maghi vinti e convertiti, energie della natura domate dagli dei guardiani; il Mani Rimdu è anche un rito di esorcismo e di incantamento che allontana malesseri e debolezze.
Le prime danze si inventano tra le mura del monastero di Rongphu, in Tibet, e si esportano per la prima volta a Tengpochè - Nepal nel 1930. Da allora i monaci di Tengpochè celebreranno Mani Rimdu durante la luna piena del nono mese del calendario tibetano (fine ottobre - primi di novembre), a Thamo si celebrerà nel terzo mese tibetano (maggio - giugno) ed a Chiwong durante la luna piena del decimo mese (dicembre).
L'intero ciclo del Mani Rimdu inizia con la lettura di un libro speciale: "De - Shek Kun - Dhu" che ne prescrive il rituale, poi si dovranno purificare il gompa, il cortile delle danze e lo spazio protetto dove verrà disegnato il mandala che è un cosmogramma ed ancora uno psicogramma.
Gyal - Tsen, le bandiere simbolo dei quattro re guardiani, vengono issate agli angoli del monastero, ed i purbas, i pugnali mistici dello sciamano, vengono conficcati attorno al mandala. Il mandala è una pittura di sabbie colorate, che rappresenta l'idea dell'ordine universale buddista. Al centro è raffigurato il monte Meru, centro del mondo, illuminato da sole e luna e circondato da anelli di montagne ed oceani.
La lettura mistica del mandala - in meditazione - trasferirà per magia imitativa l'ordine "dipinto" e l'equilibrio cosmico nell'officiante.
Per dipingere il mandala si userà un cono metallico, Chak pur, che viene sollecitato da un piccolo "Dorje"; la sabbia uscirà come un filo d'inchiostro da un piccolo foro del cono. Il mandala verrà poi protetto dall'invisibile confine delimitato da 10 Purba - i pugnali mistici - conficcati ai punti cardinali, in posizioni intermedie ed ancora allo Zenit ed al Nadir.
Al centro del mandala - in cima alla sacra cima del monte Meru - verrà poi deposta la tazza liturgica ricavata da un cranio umano che conterrà le preziose pillole "Rilbu". Le Rilbu sono pillole taumaturgiche, viatico spirituale che i saggi "Hamchi" - i medici tibetani confezionano da secoli riunendo erbe e minerali d'alta montagna a "puja" preghiere - ed a soffi che trasferiscono energie vitali.
Nelle notti di vigilia i monaci si attaccheranno a questo cranio - crogiuolo con 5 fili colorati - gli "Zunta" - simbolo dei 5 "chakra" - i centri energetici dell'uomo. Le pillole si potenzieranno così con 1'energia della preghiera. Il mandala diventa così una specie di antenna che riceve e dispensa l'energia della vita.
Chi assisterà poi alle danze con cuore puro potrà acquisire "Sonam" - un accrescimento vistoso di buon karma.
A Tengpochè nel 15 giorno dell'Om Mani Rimdu - il giorno fausto della luna piena, i pellegrini raggiungono la gompa che contiene il mandala per ricevere le pillole taumaturgiche. Lo si riceve come potente viatico nel viaggio del trapasso ma anche come panacea contro difficoltà ed i vari malanni della vita di ogni giorno. Il Rimpoche prima benedice poi purifica aspergendo con acqua benedetta - TRUH - e con CHANG - un alcool di riso. Finalmente iniziano le danze con una prova generale a porte chiuse chiamata "TSAM-KI-BULU"; senza costumi e senza maschere ci si sincronizzerà con la musica. Poi annunciati dal suono solenne dei lunghi corni monastici - DUNG CHEN - entrano in scena i danzatori NGAK-PA per la danza del nettare d'oro - SER KYEN.
Al suono di cimbali e gong danzeranno nello spazio sacro - CHAM RA - con un calice d'argento che il maestro del rito CHORPEN - riempirà di elisir, simbolo del nettare di lunga vita.
Alla fine della danza di Ngak-Pa verseranno l'alcool elisir sugli spettatori e lo getteranno verso il cielo come offerta ai "Gyalwa Rig Nga" - i Buddha e le altre divinità. Nella seconda e molto energica danza quattro "KING PA" - messaggeri di Guru Rimpoche - mimeranno la riunione degli opposti "Yab-Yum". Due di loro con maschere rosso e bianco sono il principio maschile, gli altri due con maschere verdi e blu sono invece simbolo del principio femminile.
Poi entra trionfalmente in scena GURU RIMPOCHE sotto le apparenze di Dorje Throlo, che è la sua manifestazione di demone combattente.
Dorje Throlo dopo aver circumambulato tre volte attorno al centro del rnandala della danza - e cosi facendo sconfiggerà avidità, ignoranza ed odio - riceve le offerte propiziatorie.
Dorje Throlo ha in mano il doje - il tuono primordiale - ed il purba - il pugnale rituale -, e la sua danza vuol essere di stimolo al miglioramento spirituale d'ognuno.
Nella quarta danza NGA CHAN - la danza dei tamburi, si celebra la vittoria della disciplina spirituale contro le tentazioni di vie spirituali "personalizzate"; i danzatori incarneranno con dolorose metamorfosi la trasformazione di alcuni demoni in Choh Kyong o Dharmapala - i protettori della fede. RU TANG è la danza dei cimiteri: annunciati dal suono lugubre dei Kanling - i femori umani usati come trombette - compaiono i due "scheletri" messaggeri di THUR DAG il signore della morte e dei cimiteri. Mentre due danzatori Ngak Pa con i purbas - i pugnali rituali - colpiranno una statuina di 'Tsampa" dalla forma umana, uccidendo così la negatività dell'essere umano, i due "scheletri" trascineranno un bambolotto di pezza, simbolo dell'impermanenza e della caducità.
La danza della bambola appesa a dei fili è il viaggio dello spirito umano nel "Bardo", viaggio alla ricerca della Luce divina. Dopo questa drammatica performance entra ora in scena Ml TSERING, un comico mascherato da vecchio asceta: i suoi cerimoniali goffi e pretenziosi vogliono educare alla semplicità liturgica ed alla serietà nella pratica religiosa. Poi inizia la danza degli otto guardiani del Dharma: i "Dharmapala" - specialissimi protettori delle vallate di Kumbhu; la loro danza porterà pace e prosperità all'umanità intera. La loro danza è di preambolo all'entrata in scena dell'elaboratissima maschera di Zurra. Preceduto da due MINAK "black men" - ecco finalmente comparire Zurra, dio delle montagne e guardiano di Kumbhu; Zurra è anche una manifestazione di Dorje Chang ed è il messaggero prediletto di Guru Rimpoche. Poi tra la baldoria generale escono da parti diverse i cinque danzatori Khan-Dro che appartengono rispettivamente alle cinque famiglie spirituali: Ratna, Vajira, Padma, Karma, Buddha. Impersonano una specie d'angeli celesti con il corpo di pura luce. La loro danza irradia arcobaleni e luci e nelle mani hanno il "Damaru" un piccolo tamburello e il "Tilbu" una campana d'argento. Poi tra l'attesa dei bimbi c'è il lungo interludio comico dove uno stralunato "yogi" tenta di ammaestrare un novizio picchiatello. Il novizio cattura tra il pubblico un turista occidentale con macchina fotografica che diventerà il vero protagonista della scenetta. Lo yogi tenterà invano d'educare il novizio attore che distratto e scocciato si ubriaca, inciampa e scatta foto. Il novizio turista verrà trascinato a carponi tra la folla divertita, infradiciato di birra, fotografato in ogni modo. L'intento di questa danza è allora di chiamare attenzione sulla pratica del Dharma e di dare giocosamente semplici insegnamenti sulle cause della sofferenza e sull' impermanenza e goffaggine dell'uomo "re dell'universo". Le danze proseguono con alcune offerte consegnate ai Lakma - dei minori - mentre nella splendida Tl CHAM o danza delle spade i Dharmapala faranno a pezzi le solite statuine di "Tsampa" simbolo questa volta dei demoni. La danza delle spade è potente esorcismo che rimuove gli ostacoli alla pratica religiosa.
Nella danza seguente ZOR CHAM due Ngak-pa riprendono dal centro del mandala delle danze, le "Zor tormas" che rappresentano il corpo delle divinità; gettano le torme in aria trasformandole così in armi delle divinità con le quali si potrà distruggere ignoranza, odio e bramosia.
La danza conclusiva dell'Om Mani Rimdu è il "Yhen Cham"; questa volta ricompaiono in scena tutte le maschere del dramma danzato e distribuiscono piccoli pezzi di torma al pubblico, poi portano in processione il vessillo del Dharma che viene conficcato al centro. Con questo gesto si vogliono imprigionare i demoni, le energie oscure e negative, dentro il monte sacro al centro del mandala. Ora le valli di Kumbhu sono nuovamente benedette e gli Sherpa ancora una volta purificati.
Poi verrà distrutto il mandala: le sabbie colorate si mischiano, si estraggono i pugnali magici a guardia del mandala. Le reliquie del disegno magico, 1e sabbie e le torme vengano portate in processione verso il fiume. Qui dopo aver richiesto la benevolenza dei "LU" - gli spiriti delle acque e dei ghiacci - i monaci riuniscono le sabbie colorate alle acque dei ghiacciai.
Così tutto si riordinerà, così tutto ritroverà armonia.
 Chuang Tzu - Folle per i confuciani contemporanei, vive ancor oggi come grande maestro del tao
di Aurora Maggio Cooper
Al contrario di Lao Tzu, Chuang Tzu è incontestabilmente esistito. Chuang Tzu visse all'epoca del principe Houei di Leang, che regnò dal 370 al 318 a C. e del principe Siuan di T'si (319-301 a.C.). Il suo vero nome era Chuang Chou, originario della città di Mong, nel piccolo stato feudale di Sung, dove la dinastia imperiale dei Chou aveva confinato i discendenti della precedente dinastia Shang, affinché potessero continuare i loro riti ancestrali. Nella letteratura cinese precedente all'era volgare, gli abitanti di Sung sono spesso ridicolizzati e presi in giro, quasi fossero autentici cretini. Tipico l'aneddoto del contadino di Sung che, per far crescere alcune piante più in fretta, ne sollevava da terra i germogli con le mani. Questo atteggiamento della cultura dominante in Cina non è che il riflesso della condanna di una cultura diversa da quella confuciana, una cultura sicuramente più antica, di probabile origine sciamanica, non accettata dal razionalismo confuciano. Chuang Tzu nacque quindi in un ambiente culturale particolare, che fece germogliare l'essenza della sua vita e della sua opera. Ma non bastò a non farlo apparire un folle agli occhi e al giudizio dei confuciani.
 Vita semplice
Era sposato e molto povero, "vestito con un abito di ruvida tela tutto rappezzato e con scarpe di stracci", porta il testo storico. In gioventù era stato funzionario in una manifattura di gomma. Come che sia, vi rinunciò assai presto per scrivere e vivere in armonia con il Tao. Occupare un posto da funzionario era contrario al suo pensiero e alla naturale libertà che amava. "Povertà non vuol dire infelicità. Quando l'uomo di lettere non può mettere in pratica la propria dottrina, questa è infelicità. Con un abito rappezzato e le scarpe bucate egli è povero, non infelice. Significa soltanto che non ha incontrato un'epoca felice."
 Rifiuto del potere
Ecco come racconta lui stesso un episodio che rivela l'intima natura del grande maestro spirituale: 
"Mentre Chuang Tzu pescava con la lenza sulla riva del P'ou, il re di Chou gli inviò due alti funzionari per fargli delle offerte. "Il nostro principe", gli dissero "desidererebbe affidarvi la responsabilità del suo territorio". Senza sollevare la lenza, senza neanche volgere la testa, Chuang Tzu disse loro: "Ho sentito dire che c'è a Chou una tartaruga morta da più di tremila anni. Il vostro re ne conserva il carapace in un paniere avvolto in un panno nella parte alta del tempio dei suoi avi. Ditemi se quella tartaruga non avrebbe preferito vivere trascinandosi la coda nel fango". "Avrebbe preferito vivere trascinandosi la coda nel fango", dissero i funzionari. "Andatevene dunque", disse Chuang Tzu, "anch'io preferisco trascinare la coda nel fango".
 Tao mistico
Il Tao Te Ching - che Lao Tzu avrebbe scritto sollecitato da un discepolo, poco prima di ritirarsi sulle montagne a morire, espone i principi della via e della virtù, ma le parole di Chuang Tzu li spiegano, li riprendono, con uno spirito mistico particolare, denso di aneddoti, dialoghi, allusioni mitiche. E' lui che dà al taoismo il profondo senso mistico del Tao, della via; con Chuang Tzu si penetra nell'infinito del Tao: "... i saggi non discutono di ciò che oltrepassa la sfera terrestre, neppure per negarne l'esistenza. Parlano invece delle cose di questo mondo, ma senza giudicarle". Per Chuang Tzu il saggio è un uomo libero dal pensiero, libero da qualsiasi filosofia - Confucio e il pragmatico confucianesimo sono il suo bersaglio. Nel vero saggio il Tao agisce spontaneamente e senza ostacoli.
 Wu wei, lascia scorrere la vita
La naturalezza del wu wei, del lasciar correre, del lasciar scorrere, distingue Chuang Tzu da altri grandi spiriti. Per lui, la naturalezza, la semplicità danno quella serenità che apre all'immensità del Tao. La semplicità sarà difesa come il bene supremo da Chuang Tzu, per tutta la vita: ad essa sono legati la felicità spirituale ed il raggiungimento del distacco dall'illusione dei sensi e dall'identità mondana. L'idea che nel mondo tutto è relativo, che nessuno è completamente bianco né completamente nero, che il bene non è tutto bene né il male veramente male non vuol dire per il saggio taoista seguire "la giusta misura", avere un comportamento ragionevole come indica Confucio. All'uomo della giusta misura il saggio taoista contrappone l'uomo naturale. Quello che conta è il movimento, la trasformazione infinita della vita. Il bene e il male, la fortuna e la sfortuna, la sorte e la malasorte non sono definitivi ma parte del movimento della vita. Ecco la ragione del wu wei, del lasciar scorrere gli eventi così come vengono, senza interferire mai. Chuang Tzu dice: "Colui che professa il vero senza vedere il falso, l'ordine senza vedere il disordine, non comprende nulla dell'universo e della natura reale degli esseri. Egli è simile a colui che professa il Cielo senza vedere la Terra, l'oscurità senza vedere la luce. La sua azione è necessariamente votata alla sconfitta".
 La danza di YU
di Carlo Moiraghi
Intorno alla figura di Yu il grande, mitico imperatore cinese, gravitano molteplicità di leggende. Meglio, è la figura di Yu che gravita ovunque nella leggenda e si fa viva qua e là, frammentaria e frequente. Nel mito taoista il nome di Yu ritorna, come una nota, un richiamo alla regola. E' intreccio di storie diverse. Uomini, dei, geni, animali, astri, catastrofi.
La nascita della società umana. Storie di intimità familiari, salvamenti, sequele dinastiche, congiure divine. Scontri ed incontri rari e indicibili, casuali ed umani. E' epopea di uomo che dà ordine e pace alla terra e diviene sovrano. Dove un mito finisce od inizia, da lì un altro si snoda verso il passato o il futuro. E le differenze sottolineano la fondamentale unità e verità del racconto. E' occasione per noi di esperienze di cosmi, deità, società, individui, convergenti nella figura di Yu. Susseguirsi di primi piani e ampi lunghi dissolti, evidenze di contraddizioni che danno forma a sillogismi e complementarietà emozionali. E ovunque viviamo quell'impressione di già visto, di già vissuto, che è soglia di affiorare di coscienza.
La partecipazione, l'intenzione di noi che ascoltiamo è quella dei nostri ricordi.
L'immediatezza delle immagini è quella dei nostri sogni.
Le immagini scorrono, perimetri diversi di impreviste isole di verità. L'orizzonte della coscienza delinea cosi varietà di profili, antichi luoghi di consapevolezza solo in metafora espressi.
Il rotondo della volta celeste poggia sulle quattro montagne. Sono le colonne agli angoli del quadrato di Terra.
Kung-Kung, Genio del Vento, mostro serpente dal volto umano, semina terrore. Il messo imperiale, armato di luce, lo ferisce a morte. Ma quello si avvinghia in spire alla Montagna di Nord Ovest. E' colonna del Cielo. La spezza. Il Cielo scricchiola, in parte va in pezzi. Sono cascate di massi e diluvi. Cede di lato, poi si assesta. Da allora il cielo è così, un poco inclinato sul tavolato terrestre.
Nuwa, la figlia del Dio delle Acque, cattura la Grande Tartaruga. Le taglia le zampe. Ne fa nuove colonne del Cielo. Poi ripara la volta azzurra crepata, con pietre dei cinque colori. Ancora oggi di notte le vediamo risplendere. Le stelle. Riporta ordine in terra. Sposa il fratello Fuhsì. Noi umani proveniamo da loro.
Kun, trasformato in tartaruga mostro a tre gambe contende all'imperatore il potere. Se vincesse sarebbe il disordine. Ma è il sovrano che vince nella gara di danza. Kun è esiliato ai confini dell'impero.
Uno dei figli del Sole, Kun, scatena le Grandi Acque a sconvolgere Cielo e Terra. E Yu è suo figlio. Figlio di chi ha tentato il diluvio.
Comunque sia, nel diluvio la storia di Yu prende avvio. E' diluvio durante l'impero di Yao. Ed ecco Kun. Ancora lui. Ma qui Kun è figura dell'uomo forte, l'eroe, colui che nell'immagine procedente era il malvagio ed il reo. Il consiglio dei capi gli affida il compito di fare discendere le acque.
Nove anni di sforzi. Kun tenta di opporsi alle acque. Argini e dighe. Fallisce. Condannato. Yao lascia l'impero a Shun. L'inondazione continua e chiamano Yu, il figlio di Kun, al compito fallito dal padre. Tredici anni di fatiche indicibili. Scava i letti dei ruscelli, draga i fiumi e li sprofonda fino al mare. Ridisegna canali di scolo, valli, montagne, spartiacque. Li fa conformi all'Ordine, di cui ha ed è immagine.
Non si oppone ma asseconda l'inondazione. Il suo impegno è premiato. Le acque discendono. E' imperatore. Dà inizio alla dinastia Hsia.
Yu ha potenti alleati.
Dal Fiume Lo viene la Grande Tartaruga, e porta sul carapace il Lo Shu, Lo Scritto del Fiume. Immagine dell'ordine celeste.
Dal Fiume Giallo viene il Cavallo Drago e sul manto reca l'Ho Thu. Il Disegno del Fiume. Immagine dell'ordine terrestre.
Figure e disposizioni di numeri evidenziano rapporti e leggi naturali. I Quadrati Magici, ove numeri e astri, divinazione matematica geometria logica coincidono. Segni precisi dei codici cosmici. Le Nove Sale. E' a questi parametri che Yu impronta il lavoro.
Con questi metri misura le Nove Montagne, i Nove Fiumi, le Nove Paludi e li rende così luoghi sicuri. Fonde il metallo dono dei Nove Pastori, e forgia i Nove Calderoni, ove incide forme ed immagini di tutti gli esseri sotto il cielo. Gli emblemi del mondo. Seppellisce i Nove Calderoni nelle Nove Regioni della Terra, e assicura così ordine e pace all'impero.
In verità è Yu stesso, l'uomo, la voce, la statura, il passo, è lui il metro degli equilibri fra Cielo e Terra. E gli Dei che lo riconoscono gli forniscono i diagrammi divini. Ma è Yu è l'unità di misura.
Così la strada, il cammino che Yu segue durante l'impresa, correndo qua e là per tutta la terra a prestare soccorso, diviene modello dell'ordine di cui è espressione. Le impronte di Yu sono segni rituali. Non cammino ma danza ed archetipo. La danza di Yu, che ancora oggi vive. Ove il percorso e l'impronta calca l'ideogramma Wang, il Pontefice, il Re, il mandato divino. E' questo il rituale terrestre. E' la verticale che riunisce i tre segni orizzontali, il Cielo, I'Uomo, la Terra. E' il Cielo fatto Uomo in Terra. E nei tratti puoi riconoscere le nove regioni.
In altra grafia, la danza di Yu dà figura al mondo, è spirale di vita, e al centro dà forma al Grande Maggiore, l'Orsa Maggiore, che è porta celeste fra l'Uomo e il Cielo. E' questo il cammino celeste della danza di Yu. I due fondamentali percorsi di questa danza rituale, reciproci e complementari, evidenziano il quadrato ed il retto da un lato, dall'altro la spirale e il cerchio. Sono la Terra ed il Cielo dell'uomo, ed è Yu, lo zoppo, il diverso, che con il suo passo strascicato li attua. E' l'ordine dell'asimmetrico, la nota legge del Li. E in entrambi i momenti, le impronte spaiate dei cammini di Yu segnano e insegnano in Terra e in Cielo i Numeri e nel numero chiamano equilibri di unità e di totalità.
Yu è tutto preso nel compito. Mani e piedi coperti di calli e ferite si trascina al lavoro. Yu è zoppo.
A Nord ha consolidato la Montagna delle Pietre Accatastate che produce il ferro delle spade luminose che fendono la giada. E' il monte Kunwu che il serpente maligno aveva spaccato. E senza posa si aggira ad ispezionare l'universo, lui che è l'incontro dell'universo esteriore e dell'universo interiore. Proprio lui che è zoppo. E' la danza siderale. La danza dell'unità e della diversità. Le impronte segnano nel cielo la ruota cosmica, e al centro è la porta sul precedente e sull'indifferenziato. E' l'uscita dal tempo e dallo spazio, l'entrata nella matrice.
Il metro di accesso è la diversità del camminare di Yu lo zoppo. Il suo passo claudicante è la chiave dell'ordine non ripetitivo, la regola cosmica. La danza diviene così cosmica. Bei-dou, l'Orsa Maggiore è il palco e la porta della rappresentazione.
Gli spiriti siderali, i Governatori del Cielo ci sono compagni nel rito. Alla Luna lo sciamano chiede perdono, al Sole chiede vita, all'Orsa chiede di cancellare la propria morte, ai Pianeti di segnare la propria immortalità. La danza immette così nella vita oltre la terra. Dall'Orsa Maggiore, l'Occhio del Cielo, non vi è limite per lo sguardo celeste. Si intravedono le Stelle Nere, che formano nel cielo un'altra Orsa, Scura, che segna la prima proprio come l'ambra segna nella terra l'immagine del corpo.
Con l'Orsa a piombo sul capo, lo sciamano dispiega il manto di seta con le stelle dipinte e, rivestito di stelle, con la dritta dell'Orsa davanti a sé, danza. Attento a non calpestare Zhen-ren, la terza stella, e nessuno racconta di averlo fatto. E danza in un senso e nell'altro, poiché Bei-dou, I'Orsa, è l'Origine e il Ritorno.
Segnate le stelle dell'Orsa sulla stuoia, lo sciamano vi è disteso sopra. Il piede sinistro è sulla stella Fu, il destro sulla stella Bi, le braccia sono incrociate sul torace, la mano destra è sulla quarta stella, la sinistra sulla seconda. Nella meditazione prende forma la Divinità che risiede nell'Orsa, lo sciamano ne assorbe l'essenza. Il suo corpo è ora luminoso. Le stelle dell'Orsa sono ora sette ragazzi che alimentano lo sciamano della Luce dei Sette Tesori. E' così che dalle stelle dell'Orsa viene nutrimento per gli organi e il corpo dell'adepto.
Poi lo sciamano si alza. Il passo claudicante di Yu è ora il fremito del medium in trance.
Con la mano sul cuore e l'altra che segna il passo successivo, lo sciamano calpesta la stella. Con gli occhi chiusi trattiene il respiro ed ingoia la saliva. Il piede destro in avanti, il sinistro indietro. Allora porta più avanti il piede destro e solo quando lo appoggia rilascia il respiro. Poi richiama il piede sinistro. Questo è il passo. Invocata, appare allora la divinità.
Il rituale recita: "Marciare sulla rete celeste è l'essenza del volo nei cieli. Lo spirito della marcia sulla terra, la verità del movimento dell'uomo".
Ora è il matrimonio di Yu. Ma il diluvio ed il compito chiamano. Yu abbandona la giovane sposa e la casa. Per tredici anni non vede né lei né il bambino. Trascura la famiglia e se stesso. Infangato e stravolto, tre volte davanti alla soglia di casa di passaggio, non entra. Deve andare. Non ha tempo per sé. La pioggia lo lava, il vento lo pettina. Ogni istante è prezioso per arginare il diluvio.
Si è spinto fino alla Terra del Nord, fino all'Oceano del Nord.
Ha raggiunto la Montagna Anfora a forma di Vaso, da cui sgorga la Sorgente Divina. Ha conosciuto 1'Acqua Miracolosa.
Si è recato nel Paese delle Genti Nude, e per entrarvi si è levato le proprie vesti e le ha riindossate solo al ritorno.
Yu è stra abbruttito. Ha forma e movenze di orso. Yu è orso. Orso è deità di stabilità e di potenza. E di rapporto con il caotico, il trascendente, il demoniaco. Yu è deità ambivalente. E' uomo, salvatore, portatore di ordine. E' entità sovrumana, in rapporto con spiriti e dei. In rapporto con caos e disordine. Da lì trae potere, vigore. Per il compito immane. Yu dunque ora è orso. La moglie lo vede. E' orso, lei fugge, lui la sta per raggiungere e vergogna e paura la trasformano in pietra. Roccia dura. Yu sopraggiunge. Era gravida. La roccia si spezza.
Nasce Chsu. Il figlio di Yu. E' la dinastia che continua, è il passato che ritorna. La tradizione ci informa che anche l'imperatore Chou, il figlio di Yu, vide il terremoto e l'inondazione. I Tre Fiumi della provincia del Nord ruppero gli argini e strariparono e Chou, come suo padre, dovette porre rimedio.
Il tempo corre come la nuvola in cielo. Dinastie come giornate.
I potenti al mattino sono dimenticati la sera. Il nuovo riflette 1'antico. La storia giunge là dove era iniziata. Secoli dopo Yu il Grande, inaspettati due draghi fanno visita ad un re Hsia. Sono buone anime di antenati. Donano al re la loro bava schiumosa. Avvolta in una stoffa, riposta in uno scrigno prezioso, la bava del drago è nascosta. Alla dinastia Hsia succede la dinastia Shang. Poi vengono i Chou. Il decimo sovrano dei Chou ordina di aprire lo scrigno. Il suo nome è Li e suona come quell'altro Li, l'Ordine Asimmetrico della Natura, la Regola Cosmica. Ed egli ordina, secondo il proprio nome, ciò che è nelle cose.
Aprono dunque lo scrigno. Stupore. La schiuma inonda il palazzo. Spavento. Le regine inviate nude di fronte alla bava dilagante suscitano incantesimi. La schiuma si trasforma in lucertola nera e corre agli appartamenti muliebri. Una vergine la nasconde. Sette anni dopo, fatta donna, ingravida e partorisce una bimba che va sposa al Re di quel tempo di nome Yu. E nel nome di questo, secoli e secoli, generazioni e generazioni più tardi, ritorna quell'altro Yu, il Grande, lo Zoppo, l'Antico. Lo stesso. Come nel fondo del pozzo riflesso.
Il cerchio si è chiuso a nodo su tempi, storie, esperienze, emozioni elemento di coscienza. E noi leggendo sciogliamo quel nodo e l'evento ci riconosce. La danza ci invade.

 Tai Ji Quan
Tai: massimo, supremo.
Ji: Livello, limite, aspetto.
Quan: combattimento, pugno, confronto, azione.
Tentando una traduzione: Supremo aspetto del movimento a mani nude.

Origini
Bisogna considerare due tradizioni e due luoghi: la Scuola esterna Waijia, ed il tempio di Shaolin. La provincia dello Henan verso il 500 d.C. vide l'arrivo dell'India di Ta Mo, Bodhidarma, 28° patriarca del Buddhismo indiano Dhyana, tradizione che in Cina è conosciuta come Ch'an, e più tardi in Giappone come Zen. Ta Mo, persona fisica, gruppo di monaci o personaggio mitologico che fosse, portò la grande influenza indiana su tutta la tradizione cinese e, ciò che ora ci interessa, diresse una scuola di Tai Ji Quan, basata sulla forza esterna, fisica e sul lavoro muscolare.  
La Scuola interna, Neijia, ed i monti Wudang
Nella provincia di Hubei, Zheng Wu, divinità guerriera che risiede nella Stella Polare, insegnò in sogno a Zhan San Fen nel 1200 d.C. la forma neijia che predilige la forza interna e il lavoro energetico.
In altra tradizione Zhan San Fen fu illuminato osservando un combattimento tra un serpente ed un uccello. Il serpente si muoveva rotondo, continuo, flessuoso, l'uccello aveva affondi bruschi e repentini. Il serpente ebbe la meglio ed il maestro taoista improntò la forma alla fluidità e al movimento rotondo e a spirale.
Nel tempo si svilupparono cinque scuole: la scuola Chen, la vecchia struttura, la scuola Yang, ora la più popolare, la grande struttura; la scuola Wu, la media struttura; la scuola Hao, la piccola struttura; la scuola Su, la struttura del passo vivace.
 Significati energetici. Brevi cenni
Il Tai Ji esprime l'armonia della trasformazione dell'universo. La ciclica evoluzione di ogni forma esistente; di ogni organismo vivente. Raffigura l'equilibrio dinamico esistente tra lo yin e lo yang, i due aspetti materico e sottile, sempre presenti in ogni manifestazione. Il Tai Ji rappresenta la nascita di un aspetto dall'altro, la prevalenza, il declino, sempre nel segno della continua trasformazione Il Tai Ji Quan interpreta a livello umano questo movimento universale, in una successione armonica di movimenti nei quali l'uomo concretizza l'alterno prevalere dello yin e dello yang, l'eterno loro reciproco succedersi. Durante l'esecuzione della forma, il Maestro di Tai Ji Quan diventa, per così dire, un Tai Ji, un centro vitale ed energetico; un "perno" del movimento dell'universo.
L'individuo rientra nell'unità, gli aspetti mentale e corporeo si identificano. L'individuo si identifica con l'altro da sé. L'esterno e l'interno si riuniscono. L'unità del "vivente" prende forma.
Questo è evidentemente un punto di arrivo, per noi lontano e forse non possibile. Ma in questa direzione è il lavoro. Lavoro che ha sempre come presupposto l'assoluta unità del nostro organismo funzione vivente, e che si deve quindi fin dall'inizio svolgere nel nostro campo, esteriore, cioè nel movimento fisico, corporeo, muscolare, come nel nostro campo interiore, intimo, mentale, per promuovere la riunione dell'esteriore e dell'interiore nella totalità del movimento energetico.
Riunione favorita dal libero fluire vitale che il Tai Ji Quan sviluppa. Da sottolineare ancora come nel Tai Ji Quan ritornano i concetti energetici propri della Medicina Tradizionale Cinese.
Yin e Yang, vuoto e pieno, piccola e grande circolazione, cinque elementi, Qi, Jing, Shen, ne sono infatti fondamenti energetici.
 Insegnamento tradizionale, moderno, corsi brevi
L'insegnamento tradizionale vede l'istruttore compiere l'esercizio e gli allievi cercare di imitare. Metodo certo lungo e faticoso per l'allievo, ma che permette di fare reale esperienza corporea del movimento considerato, imparando insieme, per cosi dire, nel corpo e nella mente, ciò che è nel senso di questa arte.
Il bisogno tipicamente occidentale di sveltire i tempi di apprendimento ha introdotto metodiche di insegnamento più finalizzate. Il risparmio di tempo è comunque compensato da un apprendimento che è prima mentale e, solo in un secondo tempo, fisico.
L'istruttore cioè analizza e spiega il singolo movimento, scomponendone le successive fasi, e osserva l'esecuzione dell'allievo evidenziandone gli errori.
Sta poi all'allievo, fra una lezione e l'altra, ripetere l'esercizio fino a viverlo nel corpo. Supportato in questo da sintetiche dispense illustrative.
I corsi che propongo sono in questa ottica, e intendono considerare il Tai Ji all'interno degli insegnamenti propri della Medicina Tradizionale Cinese. Sono corsi teorici pratici stringati, che vogliono essere insieme informativi e formativi. Ove il Tai Ji sia valutato come traduzione ed esperienza sul proprio corpo dei concetti energetici ben noti a chi pratica Medicina Tradizionale Cinese. Corsi introduttivi ma che già permettono un fattivo apprendimento della prima delle tre parti della forma a solo, secondo lo stile Yang.

 Tai Ji Quan nel bosco
di Carlo Moiraghi
Né suono né forma. Tutto il corpo è trasparente. La reazione alle cose è spontanea. La montagna ad ovest è simile ad una pietra musicale sospesa. La tigre ruggisce. La scimmia urla. La sorgente è pura. Il fiume è tranquillo. Capovolgere il fiume e rovesciare il mare. Sviluppare completamente la propria natura ed essere padrone del proprio destino.  Canto della Vera Significazione di Song Shu Ming.
L'uomo è nel bosco. Il bosco è nell'uomo. Il bosco si muove. L'uomo si muove.
O è il movimento stesso che li muove entrambi?
Il movimento del bosco è sonoro verde casuale. Il movimento dell'uomo è silenzioso e fluente.
Tai Ji Quan è un percorso. La vita pure. Il bosco e l'uomo pure.
Tai Ji Quan è una chiave. Apro la porta, entro.
Il corridoio interiore sinuoso nel rotondo fluire del corpo permane ben retto nell'intenzione.
Il corridoio esteriore è un sentiero fra querce.
Dentro e fuori e dentro e fuori e dentro e fuori così da sempre. Tai Ji Quan fluisce attraverso me. Tai Ji Quan fluisce attraverso il bosco.
Il mio corpo è vivo vitale stanco pronto. Il bosco anche. Apro e chiudo e apro e chiudo e apro e chiudo. Vuoto e pieno e vuoto e pieno e vuoto e pieno. Alternanza e continuità.
Tai Ji Quan è connessione tra estremi. Connessione che ora struttura il mio io.
Carico e scarico e carico e scarico e carico e scarico. Tai Ji Quan è strada che si percorre da sé. Io ne sono il percorso, il soggetto, l'oggetto. Anche il bosco lo è. Nel bosco che tace l'uomo pratica Tai Ji e riscopre nel dentro e nel fuori il coincidere naturale. Il bosco gli sorride.
Poi d'improvviso una gru bianca apre le ali vicino allo stagno.
E quell'io faticoso, memore di tradizioni lontane, gru bianca diventa.
Il mio io distende e sbatte lieve le ali. Finalmente alato.
E' attimo di speranza. Forse sto per volare. Il bosco mi osserva.
La gru bianca che sono forse ora volerà via, via dalla stereotipata impossibile ricerca di una naturalezza che esiste comunque, non è questo il problema. L'uomo moderno, per quanto inconsapevole, è pur sempre naturale.
Non si preoccupi più di tanto. E' l'attimo. Le ali palpano l'aria.
Ma la gru bianca non vola. Richiude le ali e in un respiro smette di esistere. Si ritrasforma in me stesso e spazzo il ginocchio a sinistra.
La forma procede. Il percorso continua incessante. Anche il bosco continua. Riporterò la tigre sulla montagna, respingerò la scimmia, sarò nuvola, dividerò precisa la criniera del cavallo selvaggio, sarò dama di giada che tesse al telaio, sarò bianco serpente che saetta la lingua, striscerò immobile su una zampa, sarò fagiano dorato, cavalcherò la tigre, attento la mirerò con l'arco e scoccherò la freccia, andrò incontro alle sette stelle, lievemente saprò sfiorare il fiore del loto. Centootto movimenti in una forma, centootto forme in un movimento. Quante forme e figure sarò e sono, prima di accorgermi, che io già sono, comunque? Che ricercarmi è illusione. Che ritrovarmi è illusione.
Mai ci siamo perduti. Mai ci siamo scordati chi siamo.
O non saremmo qui a scrivere e leggere. Invece siamo qui e siamo noi.
L'uomo del bosco si muove secondo antico copione.
E respira. Anche questo secondo le regole. Antiche millenarie leggi.
Il suo corpo diventa rituale. E vive, i momenti troppo belli per essere suoi, troppo perfetti per essere veri, dai nomi troppo altisonanti per essere la sua semplice vita.
In un bosco troppo bosco, la testa di cielo, i piedi di terra, lo sguardo e l'intenzione vuoti fluisce. Centrato e vuoto respira e danza la danza non danza, la danza interiore del vivere, del trasformare.
Ecco là nel fondo la sua ombra chiara si muove. Che sta facendo quell'uomo? Si domanda il bosco. Davvero, che sta facendo? E' questo l'unico modo che quest'uomo conosce per viversi? E' così. Da tempo la semplicità è lontana.
L'uomo l'ha allontanata. Da migliaia di anni, da tanto l'uomo si è emarginato a sé stesso, esistono sistemi per ritrovarla. Sentieri nel bosco. Sentieri nel cuore. Sentieri tutt'altro che semplici in cui attraverso l'impegno un'infinità di uomini si è riconosciuta.
Uno di questi sentieri, antico sentiero cinese, da molti uomini anche oggi praticato, si chiama Tai Ji Quan. Sdraiato nell'erba, sprofondato nella terra verde, qualcosa sta pulsando: io. Sarebbe così semplice se fosse sempre così. Ma solo alle volte avviene questo pulsare che non è del respiro, che non è del cuore. Altre volte una scorza trasparente si frappone costante e resti separato vigile alieno.
Non fosse così, forse non mescolerei ogni giorno l'aria di cerchi e spirali, dei calci leggeri, dei lenti pugni, delle giravolte del Tai Ji. Oggi Tai Ji Quan per me è maestro, compagno, chiave per aprire una porta che tende a richiudersi dentro o davanti a me.
Forse un giorno vedrò chiaro come questa porta, chiusa o aperta che sia, semplicemente non c'è, non esiste.
Forse allora sarà inutile incamminarsi in sentieri antichi o nuovi, tesi a raggiungere ritrovare ricordare ritornare.
Forse vedrò chiaro allora come non vi siano sentieri, né luoghi né mete. Come non vi sia dove andare né da dove venire.
Come non vi sia neppure io, neppure tu. E come allo stesso tempo tutto, tu ed io compresi, esista. Forse vedrò chiaro allora come essere e non essere già coincidano. Già qui ed ora.
Pure anche allora senza alcun fine, semplicemente sarà bello e spontaneo e naturale sciogliere anelli di piume nei movimenti del sogno. O forse sarà inutile dare forma alla trasformazione. La trasformazione già è, è noi, è tutto ciò che esiste. La sua forma è la nostra. Basterà respirare, banalmente respirare. Basterà camminare, banalmente camminare. Basterà fare tutto ciò che si vorrà. Il bosco già lo fa.
 Ritmi dei tamburi e onde cerebrali nelle esperienze sciamaniche
di Piergiorgio Pietrobon
Oltre alle guarigioni individuali e "sociali", per lo sciamano, svolgono un ruolo importante le ascensioni in mondi non accessibili alle persone comuni.
Per fare ciò egli utilizza degli oggetti e dei simboli di potere che fungono da agganci, ponti o intermediari, con il mondo dell'aldilà. Nel tempo lo sciamano si costruisce o si procura un materiale di potere, come per un medico lo sono i suoi strumenti e questo materiale sarà strettamente personale, procurato o fabbricato da lui, ricevuto dalle mani di un sant'uomo, o da un altro sciamano.
Oggetti come il tamburo, il costume, la pipa, sono conosciuti unanimemente in tutto il mondo sciamanico, come oggetti di potere che stimolano a penetrare nel mondo sovrannaturale. Simboli invece come l'albero, la scala, il ponte, anch'essi universalmente riconosciuti, molto spesso, ma non sempre, presenti, rappresentano nell'inconscio archetipico degli sciamani rispettivamente l'asse del mondo, l'oggetto di ascensione e il passaggio che permette di comunicare con ognuna delle tre zone cosmiche. Essi determinano in sé lo spazio sacro e centrale, a partire dal quale l'uomo apre una finestra sull'infinito.
L'ascensione o la discesa sciamanica per eccellenza, consiste nel passaggio da una regione cosmica all'altra: dalla Terra al Cielo e dalla Terra agli Inferni. Lo sciamano conosce il mistero delle rotture di livello perché esse sono collegate da un asse centrale che passa per una "apertura" o per un "foro".
 Simboli del passaggio
L'Albero: simbolo di vita in continua evoluzione, l'albero esprime l'ascensione e la crescita; è la vita. L'albero mette in comunicazione i tre livelli del cosmo: quello sotterraneo con le radici che scavano le profondità, la superficie della terra con il tronco e i primi rami, e i cieli, con i rami superiori e la cima attirata dalla luce del sole. Esso in questo senso ha un carattere centrale, al punto che l'albero del mondo è sinonimo dell'asse del mondo.
La Scala: anch'essa si ricollega alla simbologia della verticalità; tuttavia essa indica un'ascensione graduale, per gradi, in cui lo spirito dello sciamano deve riequilibrarsi per poi procedere verso nuove "salite". La scala appare nell'arte come il supporto immaginario dell'ascensione spirituale. Lo stesso Dante nel "Paradiso" (XXI, 28-34), scrive:
"...di color d'oro in che raggio traluce
vid'io uno scaleo eretto in suso
tanto che nol seguiva la mia luce
Vidi anche per li gradi scender giuso
tali splendor, ch'io pensai ch'ogni lume
che par nel ciel quindi fosse diffuso".
Il Ponte: anch'esso viene vissuto simbolicamente come mezzo che unisce il mondo ai Piani Infernali e Celesti. Al pari della morte, l'estasi implica un passaggio, un "mutamento" dato figurativamente dal mito, nella forma di un attraversamento pericoloso.
Mircea Eliade spiega: "Si tratta di un complesso mitologico, i principali elementi costitutivi del quale sarebbero i seguenti:
a) in illo tempore, nell'era paradisiaca dell'umanità, un ponte collegava la Terra e il Cielo e si posava dall'una all'altra regione senza ostacoli perché non esisteva la morte
b) una volta interrottisi le comunicazioni facili tra Cielo e Terra, il ponte lo si attraversa solo "in ispirito", cioè come morti o in estasi. Da un certo punto di vista, tutti i riti iniziatici tendono alla ricostruzione di un passaggio verso l'aldilà e, pertanto, all'abolizione della rottura di livello che caratterizza la condizione umana dopo la caduta. Nei miti questo passaggio "paradossale" va appunto a sottolineare il fatto che chi riesce a realizzarlo ha superato la condizione umana: è uno sciamano, un mistico o un eroe".
 Il potere del tamburo
Al pari dei simboli precedenti, gli oggetti di potere figurano nella realtà sciamanica come agganci energetici a trance ascensionali. Il tamburo, per esempio, oltre a possedere un potere generazionale se trasmesso ereditariamente, emette delle onde vibratorie che influiscono a livello cerebro - corporeo, stimolando particolari aree del sistema nervoso centrale.
Infatti sembra che le basse frequenze emesse dal rullio del tamburo trasmettano al cervello un'energia massima, perché possono essere sopportate per lungo tempo e a grande amplitudine. Non è così per le alte frequenze che "saziano" rapidamente.
Inoltre si ritiene che la zona di frequenza d'onda su cui vibra il tamburo sia particolarmente efficace per far scattare una modificazione dello stato di coscienza. Stessa "suggestione di frequenza" assumono i canti sacri per gli Orientali e il mantra "OM" dei Tibetani, il quale deve vibrare a livello addominale.
Con un semplice parallelismo, si configura nel quadro vibrazionale una tendenza delle basse frequenze a stimolare campi fisico - emotivi, che si avvicinano sempre a esperienze meditative, di trance o di estasi.
E' come se le onde emoto-somatiche dello sciamano o del mistico vibrassero, per raggiungere un livello di conoscenza profondo, a frequenze più basse del normale. Tutto ciò accade similmente nel cervello umano, in cui si é riscontrato che, negli stati meditativi, le onde cerebrali scendono da 45-13 cicli/sec. delle onde beta, ai 12-8 cicli/sec. delle onde alfa, toccando la soglia delle onde theta 8-4 cicli/sec. ed a volte anche a livelli inferiori delle onde delta 4-0,5 cicli/sec. Sconcertante allora è pensare che il livello theta, posseduto da un soggetto dormiente, viene raggiunto consciamente dal meditativo in esercizio. Si potrebbe affermare cioè: "Sta sognando con coscienza!".
Esistono infatti numerosi casi di persone che, durante il sogno, si rendono consapevoli di essere stesi sul proprio letto, e vivono la "favola onirica" percettivamente con tutti cinque i sensi: essi odono, toccano, annusano, vedono il sogno e sanno nello stesso tempo, di essere sdraiati nel letto.
 L'Io integrato e fluido
Si può chiamare effettivamente allucinazione, ma la differenza sostanziale di queste persone dagli psicotici o schizofrenici è che i primi possiedono degli Io integri, i secondi no.
Per quanto perplessi possano risvegliarsi e, successivamente, approfondire o accantonare l'esperienza casuale, essi continueranno a vivere una propria vita normale.
Gli psicotici invece, possiedono purtroppo un Io diviso, meglio definirlo disintegrato e, rappresentandolo come un cerchio spezzettato, non possono impedire al contenuto (cioè l'inconscio), di fuoriuscire.
Il concetto fondamentale a cui sono giunto nel mio studio è che il lavoro degli sciamani dei monaci, su sé stessi agisca assottigliando la struttura psichica dell'Io, e rendendola fluida. La volontà, ossia la "presenza energetica", cardine e caratteristica primaria per l'applicazione e la continuazione di queste tecniche, si sovrapporrà come una patina o alone trasparente, a quelle solidificazioni egoiche che mantenevano in vita inutili difese dell'Io, strutturate in seguito a shock infantili o ad esperienze sociali negative.
Con la prima legge di termodinamica la scienza giunse alla conclusione che "Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma"; effettivamente l'apprendistato sciamanico consiste in una trasformazione personale in cui le difese e gli inutili desideri vengono sostituiti da qualità potenziali, poche volte sviluppate.
"Un guerriero" disse una volta Don Juan a Castaneda, "deve usare la volontà e la sua pazienza per dimenticare. Di fatto un guerriero ha solo la sua volontà e la sua pazienza e con esse costruisce tutto quello che vuole. La volontà è qualcosa di molto speciale, che capita misteriosamente.
Non c'è un vero modo per dire come la si usa, tranne che i risultati della volontà sono stupefacenti. Forse per prima cosa si dovrebbe sapere che si può sviluppare la volontà; il guerriero lo sa e aspetta. La volontà è qualcosa che l'uomo usa, per esempio, per vincere una battaglia che, secondo ogni calcolo, dovrebbe perdere. Quella che tu chiami volontà è carattere e temperamento forte, quello che uno stregone chiama volontà è una forza che viene dall'interno e che si attacca al mondo esterno. La volontà è come una forza, il vero legame tra gli uomini e il mondo".

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