Queste due componenti, lacrimazione ed emozione, possono anche non essere compresenti. Nei neonati, per esempio, data l'immaturità del dotto lacrimale, si può verificare un pianto senza lacrime. Altre situazioni, invece, determinano spremitura della ghiandola lacrimale in assenza di un'emozione correlata, come il contatto dell'occhio con sostanze irritanti (solfuri organici contenuti nella cipolla) o l'innervazione della ghiandola lacrimale da parte di neuroni secretagoghi diretti primitivamente alle ghiandole salivari (definita "pianto del coccodrillo").
Infine, il cosiddetto "piangere dal ridere" descrive una situazione dove non è tanto l'emozione gioiosa a determinare lacrimazione, quanto il complesso delle attivazioni muscolari determinato dal riso.
Il piangere è stato definito come "un complesso fenomeno secretomotore caratterizzato dall'effusione di lacrime da parte dell'apparato lacrimale, senza alcuna irritazione per le strutture oculari", in cui un collegamento neuronale tra la ghiandola lacrimale e le aree del cervello è coinvolto in un'emozione dapprima controllata. Si ritiene che nessun altro essere vivente oltre l'uomo possa produrre lacrime come risposta ai diversi stati emozionali, benché ciò non sia del tutto corretto per diversi scienziati.
Le lacrime prodotte durante pianti emozionali presentano una composizione chimica diversa dagli altri tipi di lacrime: contengono infatti un quantitativo significativamente più alto di ormoni prolattina, ormoni adrenocorticotropo, leu-encefalina, potassio e manganese.
Stando ad uno studio su oltre 300 individui adulti, in media gli uomini piangono una volta ogni mese, mentre le donne piangono almeno cinque volte al mese, prima e durante il ciclo mestruale, quando il pianto può incrementare anche di cinque volte, spesso senza evidenti ragioni. In molte culture è più socialmente accettabile per donne e bambini piangere che per gli uomini. È noto che le donne, soprattutto nel periodo premestruale, piangono molto più frequentemente degli uomini, e che gli adulti piangono meno dei bambini. Tuttavia le cause del pianto non sono molto differenti. Come i bambini anche noi adulti piangiamo quando siamo sferzati da un dolore fisico o psicologico; piangiamo, per un'importante perdita o per una grave frustrazione; piangiamo quando l'ansia, la stanchezza o lo stress sono eccessivi e insopportabili; piangiamo per liberare il nostro animo dalle preoccupazioni e dagli affanni. Sono dolci e ben accette le lacrime di commozione quando assistiamo a uno spettacolo televisivo o teatrale commovente e struggente. Allo stesso modo è sicuramente piacevole il pianto quando la nostra emotività è sollecitata da un'intensa gioia provata.
Sulla funzione ed origine delle lacrime emozionali non si è ancora trovata una risposta definitiva: le diverse teorie proposte spaziano dalle ipotesi più semplici, come una risposta al dolore provato, a quelle più complesse, compresa la comunicazione non verbale atta a "farsi comprendere" dagli altri.
Per Ippocrate e la medicina medievale, l'origine delle lacrime era da attribuirsi allo stato umorale del corpo, mentre il pianto era percepito come una purificazione del cervello dagli eccessi umorali. William James interpreta le emozioni come riflessi a priori del pensiero razionale, argomentando che lo stato fisiologico, come è lo stress, sia una precondizione necessaria per raggiungere la piena conoscenza delle emozioni come l'ira.
William H. Frey II, biochimico all'Università del Minnesota, ha dichiarato che le persone si sentono "meglio" dopo aver pianto, a causa dell'eliminazione di ormoni associati allo stress, e più specificamente degli ormoni adrenocorticotropo. Questo, unito all'incremento delle secrezioni delle mucose mentre si piange, potrebbe condurre alla teoria che il pianto sia un meccanismo sviluppato nell'uomo per disporre di questo "ormone antistress" come valvola di sfogo quando il livello di stress accumulato è troppo elevato.
Recenti teorie psicologiche evidenziano la relazione tra il pianto e la percezione della debolezza. Da questa prospettiva, la marcata esperienza di debolezza può spiegare in generale perché la gente piange.
Alcuni esempi di pianto tratti dall’esperienza clinica
Pianto di resistenza
E’ quello che impedisce l’accesso alle associazioni libere, occupa gran parte della seduta e strozza letteralmente la voce. Porterò ad esempio una giovane verosimilmente sottoposta ad agiti incestuosi fino alla fine dell’infanzia, tanto che già nei primi incontri aveva potuto far riferimento indiretto a tale materiale.
In questo caso di grave inibizione e tendenza alla difesa ossessiva, con disturbo dell’identità psicosessuale, mantenere il controllo è sintoma , ma anche difesa estrema da un ‘impulsività sentita come incontenibile e pericolosa; il pianto è una vergogna, di fatto l’unica espressione del comportamento che sfugga al controllo della ragazza. Quando meno lo vorrebbe, quando il desiderio di aggredire la soverchia, scoppia a piangere e, pur riconoscendo che i motivi sono insufficienti per giustificare una reazione tanto vistosa, non riesce a controllare la copiosa fuoriuscita di lacrime. Durante le prime sedute controlla i singulti con grande sforzo muscolare e inspirazioni forzate, ma le lacrime non possono essere trattenute e sgorgano in silenzio dagli occhi, inondando il cuscino. Un pianto coartato, di svasamento della tensione .
Se riuscisse a mollare la morsa del controllo ne sarebbe sollevata e, infatti, quell’unico cedimento è già un balsamo.
In questo caso di grave inibizione e tendenza alla difesa ossessiva, con disturbo dell’identità psicosessuale, mantenere il controllo è sintoma , ma anche difesa estrema da un ‘impulsività sentita come incontenibile e pericolosa; il pianto è una vergogna, di fatto l’unica espressione del comportamento che sfugga al controllo della ragazza. Quando meno lo vorrebbe, quando il desiderio di aggredire la soverchia, scoppia a piangere e, pur riconoscendo che i motivi sono insufficienti per giustificare una reazione tanto vistosa, non riesce a controllare la copiosa fuoriuscita di lacrime. Durante le prime sedute controlla i singulti con grande sforzo muscolare e inspirazioni forzate, ma le lacrime non possono essere trattenute e sgorgano in silenzio dagli occhi, inondando il cuscino. Un pianto coartato, di svasamento della tensione .
Se riuscisse a mollare la morsa del controllo ne sarebbe sollevata e, infatti, quell’unico cedimento è già un balsamo.
Pianto di fine analisi o di perdita del sintoma
Alle ultime sedute della sua analisi personale una giovane constata che passa le giornate a piangere. Lacrime copiose sgorgano anche senza singhiozzi: non si sente triste, ha davanti diverse prospettive che la interessano, è adeguatamente appagata da una relazione sentimentale e la monotonia del lavoro non le è più pesante, anzi riesce a trovare adattamenti gradevoli. Però pensa a sua sorella, che è maggiore, sta bene, ha raggiunto un discreto adattamento sociale e piange: pensa che il rapporto simbiotico che intratteneva prima è definitivamente sciolto; ripercorre e riconosce la coazione a scelte di sacrificio e di iperresponsabilizzazione che tale legame le imponeva inconsciamente; è consapevole delle condotte mortifere alle quali era ricorsa come unica via d’uscita dal giogo…ma piange!! L’emancipazione da una relazione che, seppure nevrotica, l’ha accompagnata per tutta la vita, la lascia in uno stato di smarrimento angoscioso e userà le ultime sedute per elaborare questa perdita.
Ricordando un incubo in infantile riportato all’inizio del lavoro, Atlante che lasciava cadere la terra, commenta: “Ho buttato via il pianeta e ora che faccio?”
Il pianto alla fine dell’analisi addolcisce il confronto con la solitudine certa e irreversibile determinata dalla perdita del pacchetto sintomatico che, pur avendoci fatto soffrire per tutto quel pezzo di vita precedente, ci ha anche permesso di sopravvivere… averlo smantellato e perduto è anche un dolore, da metabolizzare.
Ricordando un incubo in infantile riportato all’inizio del lavoro, Atlante che lasciava cadere la terra, commenta: “Ho buttato via il pianeta e ora che faccio?”
Il pianto alla fine dell’analisi addolcisce il confronto con la solitudine certa e irreversibile determinata dalla perdita del pacchetto sintomatico che, pur avendoci fatto soffrire per tutto quel pezzo di vita precedente, ci ha anche permesso di sopravvivere… averlo smantellato e perduto è anche un dolore, da metabolizzare.
Angoscia senza pianto
Un analizzato che aveva attraversato diverse fasi autodistruttive fra le quali l’anoressia e la tossicodipendenza da eroina, si era trovato a misurarsi con un’altra polarità mortifera: il fantasma del gemello psichico. L’elaborazione di questo punto dell’analisi che era, in termini di sovradeterminazioni, il più recente attualizzarsi della fissazione fusionale, era accompagnata da intensa angoscia e si esprimeva nel transfert con la produzione di materiale onirico a contenuto omosessuale quale espressione del desiderio di ricostruzione dell’unità simbiotica.
L’angoscia era intensa e caratterizzava il quadro clinico riconducibile, in quel momento del lavoro, a una forma depressiva nella quale i pensieri di catastrofe erano espressi attraverso immagini cruente, di ferite aperte sanguinanti, o di timore di un agito violento autolesionistico. Il distacco dalla fissazione è doloroso: la fissazione è una difesa, abbandonarla fa sanguinare. La fissazione fusionale non conosce il pianto, attività che comporta la presenza di aria (quindi del post-natale), conosce però il sanguinamento che accompagna il travaglio di parto, il lento distaccarsi dei villi coriali e, probabilmente, anche i momenti finali della gravidanza durante i quali la placenta va involvendosi e coopera con questo fenomeno all’induzione del travaglio stesso. Involversi vuol dire che non è irrorata bene, e che si formano lacune emorragiche che andranno, poi, in necrosi.
Il rivissuto sull’analista permise infine l’accesso al pianto che emerse copioso, svincolato da contenuti specifici: potremmo dire un pianto endogeno che portò con sé l’abbassamento dell’angoscia, l’identificazione a immagini più salubri e in definitiva un discreto benessere.
L’angoscia era intensa e caratterizzava il quadro clinico riconducibile, in quel momento del lavoro, a una forma depressiva nella quale i pensieri di catastrofe erano espressi attraverso immagini cruente, di ferite aperte sanguinanti, o di timore di un agito violento autolesionistico. Il distacco dalla fissazione è doloroso: la fissazione è una difesa, abbandonarla fa sanguinare. La fissazione fusionale non conosce il pianto, attività che comporta la presenza di aria (quindi del post-natale), conosce però il sanguinamento che accompagna il travaglio di parto, il lento distaccarsi dei villi coriali e, probabilmente, anche i momenti finali della gravidanza durante i quali la placenta va involvendosi e coopera con questo fenomeno all’induzione del travaglio stesso. Involversi vuol dire che non è irrorata bene, e che si formano lacune emorragiche che andranno, poi, in necrosi.
Il rivissuto sull’analista permise infine l’accesso al pianto che emerse copioso, svincolato da contenuti specifici: potremmo dire un pianto endogeno che portò con sé l’abbassamento dell’angoscia, l’identificazione a immagini più salubri e in definitiva un discreto benessere.
Pianto endemico
Ancora oggi nelle culture che discendono dai Greci (Italia meridionale, penisola Balcanica meridionale e isole del Mediterraneo sud-orientale), il rituale funerario è accompagnato dalle “Piangenti”, coro di donne che si riunisce spontaneamente al triste evento e piange d’ufficio, ripetendo frasi di compianto che non mancano di ricordare la persona del defunto. Il cosiddetto “pianto greco” è la traccia di numerose sovradeterminazioni: del coro della tragedia greca classica, che aveva la funzione di esprimere i sentimenti suscitati dalle vicende del dramma; del coro, più antico, che accompagnava i riti funebri di personaggi eroici, cantandone le gesta; infine, del coro dei riti dionisiaci che le Menadi intonavano durante il baccanale culminante nel sacrificio del capro (animale totemico rappresentante Dioniso stesso).
Il “pianto greco” ha istituito da millenni una specie di regolamentazione delle espressioni di dolore come sostiene Ismail Kadarè 1 , teso a formulare in maniera ordinata il dolore scomposto e spontaneo dei congiunti e proteggere il rito funebre. A tal proposito, per fare un esempio, si vedano in India i suicidi delle vedove sulle pire del compagno.
In altri termini il pianto greco rinforzerebbe il Super-Io a scopi catartico-salvifici nel fronteggiare tensioni potenzialmente distruttive.
Queste considerazioni sulla funzione normalizzatrice del pianto attraverso l’inserimento nei riti catartici delle cerimonie funebri ci riporta alla sua funzione, precedentemente definita, tendente all’eliminazione dell’eccesso di tensione e delle sensazioni di dispiacere: dunque, il pianto come regolamentatore del dolore, nel lutto come in ogni altra variazione omeostatica.
Il “pianto greco” ha istituito da millenni una specie di regolamentazione delle espressioni di dolore come sostiene Ismail Kadarè 1 , teso a formulare in maniera ordinata il dolore scomposto e spontaneo dei congiunti e proteggere il rito funebre. A tal proposito, per fare un esempio, si vedano in India i suicidi delle vedove sulle pire del compagno.
In altri termini il pianto greco rinforzerebbe il Super-Io a scopi catartico-salvifici nel fronteggiare tensioni potenzialmente distruttive.
Queste considerazioni sulla funzione normalizzatrice del pianto attraverso l’inserimento nei riti catartici delle cerimonie funebri ci riporta alla sua funzione, precedentemente definita, tendente all’eliminazione dell’eccesso di tensione e delle sensazioni di dispiacere: dunque, il pianto come regolamentatore del dolore, nel lutto come in ogni altra variazione omeostatica.
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