domenica 28 maggio 2017

FILOSOFI

Giordano Bruno ebbe la nascita a Nola, presso Napoli, nel 1548, da una famiglia di modeste condizioni. Il padre Giovanni era un  militare di professione e la madre Fraulissa Savolino apparteneva ad una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Gli fu imposto il nome di battesimo di Filippo. Compì i primi studi nella città natale, da lui molto amata e spesso ricordata anche nei lavori più tardi, ma nel 1562 si trasferì a Napoli dove frequentò gli studi superiori e seguì lezioni private e pubbliche di dialettica, logica e mnemotecnica presso l’ Università.

Il suo torto fu di aver aderito alla visione copernicana, contrapponendo ad un universo chiuso e finito, infiniti universi. Il 1584 è l’anno in cui scrive "De l’infinito universo et mondi",
nel quale tratta il problema dell’essere dal punto di vista COSMOLOGICO: "l’essere è lo spazio infinito con i mondi innumerevoli" e dal punto di vista sotto l’aspetto METAFISICO: "l’essere č l’infinito stesso".
ASPETTO COSMOLOGICO
Aveva ragione Giordano Bruno? Il nostro potrebbe essere solo uno degli infiniti universi? Ebbene dopo 400 anni gli astronomi cominciano a chiedersi cosa c’era prima del Big Bang. Il nostro universo potrebbe essere emerso da un punto di un altro universo, dove la gravità è così intensa da piegare lo spazio attorno a sé e dove l’universo nascente appare come un buco nero, al cui interno però si sviluppa un altro spazio.
La scienza sta cercando di capire che cosa ci fosse prima di quell’esplosione, prima cioè della nascita stessa dell’universo. Tutto lascia intravedere la possibilità che, prima del nostro, ci siano stati molti altri Big Bang, e molti altri universi. Secondo alcuni studiosi di meccanica quantistica, la nostra stessa realtà si sdoppia ogniqualvolta una particella ha la possibilità di comportarsi in modi diversi e di conseguenza di dare vita a due universi paralleli.
Sembra insomma che dopo esserci abituati all’idea che, né la Terra, né il Sole, né la nostra galassia sono al centro del creato, dovremo presto accettare anche quella di non appartenere all’unico universo esistente.
Le costanti naturali fissate all’epoca del Big Bang, come la carica dell’elettrone o la velocità della luce, sembrano straordinariamente calibrate per favorire la nascita di un universo in cui possa emergere la coscienza.
Se la gravità fosse stata leggermente più forte, le stelle avrebbero bruciato il loro combustibile nucleare in meno di un anno. Se invece la forza che tiene insieme i nuclei degli atomi fosse stata appena più debole, gli astri non si sarebbero mai formati.
Insomma la vita sulla Terra è il risultato di circostanze così specifiche e restrittive da essere un evento di per sé altamente improbabile.
Ciò porta a pensare ed ammettere, quasi per esigenza logica, che si formino di continuo interi universi, ognuno con caratteristiche diverse. Alla fine, il nostro firmamento sarebbe uno tra i tanti "universi innumerevoli", ipotesi che tanto successo sta riscuotendo tra i cosmologi.
ASPETTO METAFISICO
Giordano Bruno va oltre la fisica e afferma l’ unità infinita dell’essere superiore ed inferiore. L’anima, le forme, la materia, sono - "prope nihil" - quasi nulla poiché non sono qualificazioni che hanno senso nella dimensione dell’ unità infinita. L’universo č il modo di manifestarsi dell’uno che non può  non manifestarsi, così che dal punto di vista metafisico abbiamo la sparizione della differenza. Il destino celeste non č quello dell’assoluta permanenza, della felicità e del premio, dell’esistenza liberata dal dolore, ma č un modo di parlare, una consolazione dell’esistenza, una "species phantastica". L’eguaglianza metafisica del cielo e della terra abolisce il sentimento della speranza cristiana, come sentimento sensato. La concezione dell’infinito corrisponde al problema esistenziale di vivere in una dimensione senza centro e senza sponde e, al limite, senza significato.
ANNIVERSARIO
Nel 2000, anno del Giubileo e 400° anniversario della morte del grande scienziato, gli astronomi si preparano a recarsi a Roma nella piazza Campo dei Fiori, non con l’intento di riabilitare Giordano Bruno ma semmai di riabilitare la Chiesa, se deciderà di chiedere perdono al mondo intero per aver condannato e bruciato vivo il filosofo e l’astronomo. Agli scienziati il compito primario di ricordare ed esaltare la grandezza di un uomo vissuto troppo presto per essere compreso dai suoi contemporanei.
Immanuel Kant, quarto di dieci figli, di cui sei morti in giovane età, nacque il 22 aprile 1724 a Konigsberg, capoluogo della Prussia orientale nonché fiorente centro portuale.
Le condizioni economiche della famiglia, che poggiavano essenzialmente sul lavoro paterno (il padre era sellaio), permisero solo al figlio più promettente di continuare gli studi, ed è per questo che Immanuel fu il solo di tutti i suoi fratelli a poter andare all’ università, scatenando non poche invidie tra i membri della sua stessa famiglia .Filosofia, matematica e fisica, furono i corsi prescelti da Kant per la sua formazione universitaria. Dopo gli studi Kant si mantenne inizialmente facendo il precettore.
Nel 1755 ottenne il primo incarico accademico, insegnando filosofia, matematica, fisica e geografia, e nel 1770 ottenne  la cattedra di professore ordinario di logica e di metafisica all' università di Konigsberg. Immanuel Kant morì  nella stessa città natale di Konigsberg il 27 febbraio 1804. 
PENSIERO
Il pensiero filosofico di Kant č incentrato attorno all’indagine della conoscenza pura, secondo lui raggiungibile attraverso l’adozione del giudizio sintetico a priori, che a differenza del giudizio analitico a priori del razionalismo e di quello sintetico a posteriori dell’empirismo, si costituiva dalla sintesi di un contenuto a posteriori, ossia le impressioni sensibili che formano la materia, e da un elemento a priori, cioè la forma propriamente detta non ricavabile dall’esperienza. Questo giudizio che aveva caratteristiche di universalità e necessità (poiché operato secondo le leggi proprie dello spirito umano), rappresentò per il mondo filosofico una vera “rivoluzione copernicana”.
Come Copernico, che nel campo astronomico capovolse la concezione dei Tolomeo ponendo non più la Terra (geocentrismo) al centro del nostro sistema, ma il Sole (eliocentrismo), allo stesso modo Immanuel Kant compì una rivoluzione nel modo di intendere la filosofia: il soggetto (paragonabile al sole copernicano), non gravitava più passivamente intorno all’oggetto (la terra), e non dipendeva più  da un mondo giù costituito secondo propri principi e leggi, ma con la sua attività a priori illuminava l’oggetto ordinando i dati sensibili.
Una volta definito questo concetto, la riflessione di Kant si concentrò sull’analisi critica di tutta l’ attività dell’uomo, elaborando quella trilogia unitaria che costituisce il cuore della filosofia kantiana: La Critica della ragion Pura, la critica della ragion Pratica e la Critica del Giudizio, 3 passaggi fondamentali che indagavano rispettivamente il modi di apprendere dell’uomo (conoscenza® critica della ragion pura), il suo modo di volere( azione® critica della ragion pratica), ed infine il suo modo di sentire (sentimento® critica del giudizio).
CRITICA DELLA RAGION PURA ® comprende tre gradi di conoscenza:
estetica trascendentale ® riguarda l’”intuizione” sensibile; Si cerca attraverso il giudizio sintetico a priori, di ridare oggettività a spazio e tempo, nell’incontro/scontro tra le forme pure dell’”Io” con la realtà sensibile. Ribadendo le definizioni essenziali che determinavano il giudizio sintetico a priori, Kant spiega la distinzione tra senso interno e senso esterno in cui l’uomo si imbatte quando vuole conoscere un oggetto nella realtà sensibile. “Io” -affermava Kant- “conosco un oggetto nelle sue dimensioni spaziali (altezza, lunghezza), come sensi esterni perché oggettivi nella conoscenza generale; ne conosco poi il senso interno cioè il tempo come parametro soggettivo, perché sono io medesimo a decidere cosa viene prima e cosa dopo”.
Analitica trascendentale ® Studia le attività dell’intelletto e le sue categorie. In questa parte Kant si propone di risolvere l’ attività dell’intelletto attraverso le 12 categorie o forme pure che lo costituiscono. Queste 12 categorie, detti anche “concetti puri” quando l’ “io” si scontra con il fascio caotico di sensazioni della realtà  esterna, entrano in gioco, ordinando la realtà stessa secondo gli schemi dell’ “Io” che deve necessariamente rimanere sempre uguale a se stesso. (a percezione trascendentale).
Dialettica trascendentale ®  Studia la ragione propriamente detta e le idee che si costruisce. Kant in questa fase risponde ad una domanda: “E’ possibile avere una metafisica come scienza?” Kant dice di no, perché mancano le condizioni necessarie. Egli asserisce che l’io dopo essere entrato in contatto con il mondo finito, con la sua ragione propriamente detta tenta di andare al di là, e di scoprire quindi l’infinito, e per farlo si crea delle idee regolatrici a cui aggrapparsi, e sono Dio, l’Anima, Il Mondo. Idee che sono solo esigenze della ragione e non realtà costitutive in quanto non sono FORME PURE DELL’IO  e anche se lo fossero mancherebbero del dato sensibile. Non possono pertanto realizzare la “sintesi a priori”. “Sintesi” perché il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto ad esso e a “a priori” perché essendo universali e necessari non possono derivare dall’esperienza. La seconda critica è  la CRITICA DELLA RAGION PRATICA che affronta il problema morale, ossia l’ “Io” che cerca una morale universale. Per trovarla l’ “io” ha due possibilità, o seguire gli istinti pulsionali garantendo una propria gratificazione personale, oppure seguire “l’imperativo categorico o super io”  che detta i criteri con cui agire in base ad una morale universale. Questo imperativo è solo un ordine che esclude qualsiasi gratificazione personale, perché l’ “io” agendo secondo morale agisce per il bene collettivo; è un “dovere per dovere”. L’Imperativo categorico ha tre leggi:
agisci in modo che la massima delle tue azioni sia una legge universale.
Agisci per te e per il tuo prossimo come fosse un fine e non un mezzo (non sottomettere nessuno).
Esiste poi un altro imperativo, quello ipotetico, che ha per presupposto un fine pratico: ” Se voglio la promozione devo studiare”.
Infine vi č la CRITICA DEL GIUDIZIO dove si affronta il problema estetico nel rapporto tra l’ “io” e la realtà che lo circonda, che si deve fondare a questo livello essenzialmente sulla fruizione della bellezza. Si media in pratica la libertà  dell’io con un fine estetico, con un giudizio estetico che esprime il sentimento di piacere per il bello che l’uomo prova quando contempla un oggetto senza scopo conoscitivo. In questa fruizione occorre distinguere tra il “bello” che si riferisce ad un oggetto di forma limitata che produce un senso di esaltazione della vita, e il “sublime”, si riferisce ad oggetto di forma illimitata per grandezza ( sublime matematico: esempio distesa del mare) o per potenza (sublime dinamico: esempio mare in tempesta). Il giudizio si distingue poi tra giudizio determinate, giudizio riflettente, e giudizio teleologico.
Giudizio determinante: proprio dell’ attività teoretica, č quello che l’uomo determina partendo dal concetto puro e universale fornito dall’intelletto, e applicando questo universale ai dati sensibili dell’intuizione.
Giudizio riflettente: è quello che si formula su un oggetto giù conosciuto, ossia giù  determinato con il giudizio determinante, per accordarlo con l’universale del sentimento che esige finalità e armonia.
Giudizio teleologico: Si guarda all’oggetto come frutto di una visione finalistica della natura, suggerita dal sentimento di armonia e finalità che è forma a priori.
LA PEDAGOGIA
L'educazione č considerata come un'esigenza primaria dell’uomo. L'uomo infatti è quello che è proprio grazie all'educazione. Questo cammino verso la realizzazione piena dell' umanità  prosegue di generazione in generazione. Attraverso l'educazione si può arrivare a sviluppare le potenzialità umane e le conoscenze. Secondo Kant nella natura dell’uomo risiede un’ animalità istintuale che deve essere disciplinata dall’esterno per poi essere sottomessa alla ragione. Gli istinti devono essere sottomessi dalla disciplina, che ha così un compito negativo; mentre l’istruzione deve servire per insegnare a pensare e raggiungere i propri scopi ed in quest'ottica assume un compito positivo. Accortezza e moralità si possono sviluppare grazie alla formazione pratica.

Autorità e libertà

Il processo educativo si fonda sulla libertà, che però non può essere lasciata a se stessa nella dimensione istintuale. Per questo è indispensabile che alla dimensione naturale subentri la guida esterna dell’educatore. Quest'ultimo potrà insegnare al giovane la disciplina, in modo che pian piano il giovane possa arrivare a sviluppare una disciplina morale interiore autonoma. L’influsso del pensiero di Rousseau spinge Kant a voler lasciare il massimo della libertà possibile per il giovane, essendo consapevole che l'autonomia futura del giovane dipenderà dall'imposizione dell'obbedienza. Questo rapporto tra libertà da un lato ed obbedienza dall'altro può portare a due diversi tipi di sottomissione, positiva o negativa. Il diverso grado di sottomissione dipende infatti dal fatto se deriva da una obbedienza meccanica di un individuo incapace di giudizio o dall’inibizione della riflessione e della libertà di giudizio da parte di chi ne è capace.

Educazione e società

Kant ritiene che un nuovo piano educativo potrebbe essere ostacolato da un lato da chi detiene il potere e considera i sudditi come strumenti per i propri fini, dall'altro dai genitori che si preoccupano solo che i loro figli abbiano successo. Quindi l'educazione dovrebbe essere un compito affidato soltanto ad esperti che siano in grado di dar luogo a progressi educativi corretti. L'azione educativa deve quindi provenire dagli sforzi congiunti di persone illuminate e competenti, che siano interessate al bene universale e al miglioramento dello stato futuro dell’ umanità. Il cambiamento del sistema educativo può determinare una rivoluzione di impostazione, rivolta in primo luogo a formare maestri in grado di operare in modo libero e creativo.

I luoghi dell'educazione: tra pubblico e privato

Per Kant la scuola pubblica detiene il compito principale dell’istruzione, mentre la disciplina e la formazione morale devono essere affrontati in ambito privato e domestico. L'educazione domestica però ha un limite: spesso è  svolta da persone che a loro volta non sono state bene educate e tendono a contrastare il compito affidato al precettore. Per questo Kant ritiene che l'ideale sarebbe poter contare su una scuola pubblica in grado di assolvere anche i compiti educativi di formazione morale.

L’educazione fisica o naturale: il corpo libero e allenato

La seconda sezione della Pedagogia di Kant č dedicata all’educazione fisica: una educazione naturale che trascende la dimensione corporea. Seguendo il pensiero di Locke e Rousseau, Kant riprende anche il tema dell’educazione corporea in senso stretto. Lo sviluppo intellettuale infatti prevede anche uno sviluppo delle disposizioni naturali. Viene quindi data importanza anche alla libertà di movimento e ad un moderato indurimento fisico. Kant approva il rifiuto dell’abitudine, però sottolinea l’importanza dell’esercizio fisico tramite giochi e attività finalizzate a criteri di utilità. All'inizio quindi l’educazione corporea risulterà negativa, ma poi potrà diventare positiva, cioè  non togliere impedimenti, ma aggiungere attività.

L’educazione naturale dell'anima: dal gioco al lavoro

L’educazione naturale non riguarda solo la cura del corpo, ma anche quella dell'anima. L’educazione naturale dell’anima si distingue dall’educazione morale perché forma la natura interna dell’uomo, che riguarda le facoltà  intellettuali e la ragione. Questa educazione può svolgersi in forma libera, attraverso il gioco, oppure in forma scolastica, attraverso l'obbligo. L’educazione che viene svolta soltanto attraverso il gioco produce effetti negativi, perché sviluppa l’ozio. Per questo l'educazione scolastica è  indispensabile, in quanto deve insegnare ad alternare ore di attività  obbligatoria ad ore di attività ricreativa e formare la disposizione al lavoro adulto.
Schopenhauer
La sua famiglia era di origine olandese, il padre ricco commerciante di Danzica (ove Arthur nacque il 22 febbraio 1788).
Morto il padre per suicidio  ereditò una fortuna cospicua, che gli permise di vivere di rendita, studiando: prima al ginnasio (di Gotha, e poi di Weimar), poi all' università di Gottinga (1809/11), dove conobbe G.E.Schulze, che lo introdusse a Kante a Platone, e Berlino (1811/13), dove seguì Schleiermacher, Fichte e il filologo F.A.Wolf.
Per la guerra, raggiunse a Weimar la madre, che (romanziera) vi teneva un salotto letterario, cui veniva anche Goethe, e si laureò a Jena nello stesso 1813.
Ruppe ben presto con la madre, Johanna Henriette, che aveva accolto in casa un amante, nel 1814.
Si trasferì così a Dresda e qui pubblicò Die Welt als Wille und Vorstellung, suo capolavoro, scritto nel 1818 e pubblicato nel 1819.
Poi si trasferì a Francoforte, dove rimase fino alla morte, sopraggiunta nel 1860. Di tale periodo sono La volontà della natura (1836), I due problemi fondamentali dell’etica (1841) e il brillante e popolare Parerga et paralipomena (1851). Tali opere gli guadagnarono riconoscimenti pubblici e maggior successo delle opere precedenti.

La critica all'idealismo
Schopenhauer critica in generale "i tre grandi ciarlatani" idealisti, e in particolare Hegel, "sicario della verità", la cui filosofia č mercenaria, al servizio dello Stato:
"Hegel, insediato dall'alto, dalle forze al potere, fu un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato, che raggiunse il colmo dell'audacia scodellando i più pazzi e mistificanti non sensi"
il suo pensiero è "una buffonata filosofica".
i riferimenti del suo pensiero
Furono Kant, da cui prese la distinzione tra fenomeno e noumeno, interpretandola però in modo difforme dallo stesso Kant, attribuendo al fenomeno una valenza di illusorietà a quello sconosciuta (dato che al contrario per il filosofo di Koenigsberg proprio del fenomeno e anzi solo del fenomeno si può dare conoscenza rigorosamente scientifica e valida), Platone (da cui trasse la concezione delle idee, anche qui però intese in modo originale, "forme eterne sottratte alla caducità dolorosa del nostro mondo" (Abbagnano) come strato ontologico intermedio tra il centro della realtà, che č cieca Volontà e l'apparenza fenomenica più superficiale), e la filosofia indiana, da cui appunto trae la decisiva convinzione del carattere ingannevole del mondo sensibile, che altri filosofi occidentali avevano sì in precedenza definito imperfetto, e al limite prossimo al nulla (Parmenide, Platone, Plotino), ma mai giudicato deformante inganno.

1a) il mondo come rappresentazione
Noi non conosciamo le cose in sé stesse ("vediamo non il sole né la terra"), ma in quanto sono rapportate al soggetto, dipendenti dal soggetto, "interne" ad esso (conosciamo "l'occhio che vede il sole, la mano che sente il contatto con la terra"), e il soggetto filtra la realtà con le tre categorie (una sorta di a-priori, che il soggetto pone mediante l'intelletto, analogamente a Kant, con la differenza che per Sch. le categorie hanno una matrice fisiologica, piuttosto che trascendentale)

(spazio e tempo (che rendono molteplice l'oggetto)
la causalità (che lo rende un "cosmo conoscitivo"), poste come per Kant, dall'intelletto la causalità a sua volta, in quanto principio di ragion sufficiente, assume quattro forme, ossia
 causa fiendi (cioè del divenire; regola i rapporti causali);
causa cognoscendi (regola i rapporti tra i giudizi);
causa essendi (regola i rapporti tra le parti del tempo e dello spazio);
causa agendi (regola i rapporti tra le azioni); 

Essa č perciò fenomeno, nel senso di apparenza, in parentela stretta col sogno, analogamente a Pindaro , Sofocle, Shakespeare , Calderon, o, con espressione di derivazione indiana, "velo di Maya".

" è Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi ne che esista, ne che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente ma c'è il modo per giungere alla realtà in sé stessa:

1b) e come volontà
esistenza della Volontà
Ne posso essere certo in quanto
a)ho accesso diretto alla mia volontà, che sperimento essere la mia più intima essenza, facente tutt'uno con il moto del mio corpo .

b)Per analogia estendo questo a tutto il reale:

osservando nei fenomeni naturali "l'impeto violento e irresistibile con cui le acque si precipitano negli abissi, ... l'ansia con cui il ferro vola verso la calamita, la violenza con cui i poli elettrici tendono a riunirsi ...riconosciamo quell'identica essenza che in noi persegue i suoi fini al lume della conoscenza, ma che qui non ha che impulsi ciechi, sordi, unilaterali e invariabili" .

La Volontà è inconscia.
 "Essendo al di là del fenomeno, la Volontà presenta caratteri contrapposti a quelli del mondo della rappresentazione, in quanto si sottrae alle forme proprie di quest'ultimo: lo spazio, il tempo e la causalità. Innanzitutto la Volontà primordiale č inconscia, poiché la consapevolezza e l'intelletto costituiscono soltanto delle sue possibili manifestazioni secondarie. Di conseguenza, il termine Volontà, preso in senso metafisico-schopenhaueriano, non si identifica con quello di volontŕ cosciente, ma con il concetto più generale di energia o di impulso (e in questo senso si comprende perché Schopenhauer attribuisca la volontà anche alla materia inorganica e ai vegetali)."
...unica...
In secondo luogo, la Volontà risulta unica, poiché  .esistendo al di fuori dello spazio e del tempo, che dividono gli enti, si sottrae costituzionalmente a ciò che egli chiama "principio di individuazione". Infatti la Volontà non č qui più di quanto non sia la, più oggi di quanto non sia stata ieri o sarà domani. Essa, dice Schopenhauer, "è in una quercia come in un milione di querce".
...eterna...
Essendo oltre la forma del tempo, la Volontŕ č anche eterna e indistruttibile, ossia un Principio senza inizio ne fine. Per questo, Schopenhauer scrive che "alla Volontà è assicurata la vita" e paragona il perdurare dell'universo nel tempo ad un "meriggio eterno senza tramonto refrigerante", oppure all'"arcobaleno sulla cascata", non toccato dal fluire delle acque .
...assurda e cieca.
Essendo al di la della categoria di causa, e quindi di ciò  che Schopenhauer denomina "principio di ragione", la Volontà si configura anche come una Forza libera e cieca, ossia come un'Energia in causata, senza un perché  e senza uno scopo. Infatti noi possiamo cercare la "ragione" di questa o quella manifestazione fenomenica della Volontà, ma non della Volontà in se stessa, esattamente come possiamo chiedere ad un uomo perché voglia questo o quello, ma non perché voglia in generale. Tant'è che a quest'ultima domanda l'individuo non potrebbe rispondere che "voglio perché voglio", ossia, traducendo la frase in termini filosofici, " perché c'è in me una volontà irresistibile che mi spinge a volere". Infatti, la Volontà primordiale non ha una meta oltre se stessa: la vita vuole la vita, la volontà vuole la volontà, ed ogni motivazione o scopo cade entro l'orizzonte del vivere e del volere .
consegnenze etiche
Vi è in Schopenhauer un rifiuto di ogni ottimismo:
cosmico (quello delle religioni, con la loro idea di Provvidenza)
"Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non ancora conosciuto. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole... bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento" .
La realtà è una '"arena di esseri tormentati e angosciati, i quali esistono solo a patto di divorarsi l'un l altro, dove perciò ogni animale carnivoro è il sepolcro vivente di mille altri e la propria autoconservazione č una catena di morti strazianti"
"Se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, i campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, dove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch'egli con l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles. Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà  insuperabile: appunto perchę il nostro mondo non offre materiale per un'impresa siffatta" .

Schopenhauer rifiuta il suicidio come via alla liberazione per questo motivo :
 1) perché "il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà, è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa" in quanto il suicida "vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate" , per cui anziché negare veramente la volontà egli nega piuttosto la vita.

Essa ha come momenti principali
a)l'arte: "mentre la conoscenza, e quindi la scienza, è  continuamente irretita nelle forme dello spazio e del tempo, ed asservita ai bisogni della volontà, l'arte, secondo Schopenhauer, è conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee, ossia alle forme pure o ai modelli eterni delle cose."
"Mentre per l'uomo comune, il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina la strada, per l'uomo geniale è il sole che rivela il mondo".
b) la compassione, che rompe la catena di egoismi che mette ogni individuo contro l'altro, causando inutile e assurda sofferenza.
“L’amore autentico è sempre compassione; e ogni amore che non sia compassione è egoismo”
c) l'ascesi
essa nasce dall'"orrore" dell'uomo "per l'essere di cui č manifestazione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore", è l'esperienza per la quale l'individuo, cessando di volere la vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere: "Con la parola ascesi s’intende il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà". Comporta la perfetta castità, la rinuncia ai piaceri, l' umiltà, il digiuno, la povertà, il sacrificio e l' auto macerazione

Fino ad arrivare alla noluntas

"il deliberato infrangimento della volontà,... per la continuata mortificazione della volontà"
"Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà - dice Schopenhauer - è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà. Ma per gli altri, in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla" .
 Nietzsche ha la nascita a Roecken, un paese nelle vicinanze di Lipsia. Presto rimasto orfano di padre, si trasferisce con la famiglia a Naumburg dove comincia gli studi.
Opere principali: La nascita della tragedia in Grecia (1872); Umano, troppo umano (1878); Così parlò Zarathustra (1883); Aldilà del bene e del male (1886); Sulla genealogia della morale (1887); Il crepuscolo degli idoli (1888); L'Anticristo (1888); Ecce homo (1888).
Nietzsche considera tutto la filosofia occidentale come un sistema per trovare il rimedio alle paure degli uomini, alla paura della morte, del vuoto, del nulla, del caos. Ma la vita, per Nietzsche, è caos, è paura, č morte, č vuoto, ma non solo, č anche pienezza di sé e della propria volontà, volontà di potenza.
Ciò che la filosofia occidentale vuole negare, a partire da Socrate, è proprio questo caos, questa indeterminatezza vitale, e così facendo va contro la natura dell'uomo, lo irrigidisce entro schemi artificiosi privandolo della possibilità  di essere realmente ciò che è, ovvero slancio vitale e irrazionale.

In sostanza per Nietzsche, ogni forma di verità definitiva risente di una rigidità  e di una incompletezza tale che non potrà mai coincidere con la realtà di una esistenza costantemente mutevole. La realtà è caos e contraddizione, e in ciò  è talmente complessa che ogni tentativo di imporle un ordine fallisce, diventa menzogna consolatoria.
Ecco allora che tutta la filosofia occidentale, ogni menzogna religiosa e filosofica, ogni sistema morale e metafisico, non sono altro che rimedi, apparati di pensiero che vogliono rendere la vita più sopportabile ma che non rispecchiano la complessità della realtà.
Il rimedio proposto dai vari edifici filosofici e religiosi finiscono per illudere l'uomo che non esiste caos e indeterminatezza: in realtà il rimedio al male č peggiore del male stesso in quanto illude e confina gli uomini in un mondo che risulta artificiale e illusorio, contro natura.
Il senso del divenire
Nietzsche fa suo l'assunto per cui il divenire è la verità del mondo: le cose hanno un carattere diveniente, mutabile, storico, temporale, contingente, ovvero ogni cosa non può e non potrà mai essere eterna e immutabile.
L'uomo nuovo, l'oltre-uomo, è colui che accetta il divenire nella sua assurdità, nel suo paradosso di irrazionalità e di imprevedibilità, senza ricorrere all'apporto comodo e rassicurante delle certezze e dei rimedi approntati dalla cultura occidentale (cristianesimo e metafisiche consolatorie, morali e falsi ideali).
Nietzsche afferma che l'oltre-uomo deve vivere il ritorno allo spirito della tragedia greca presocratica: nella tragedia greca l'uomo accettava fino in fondo il divenire e l'irrazionale, senza pessimismo e aldilà di ogni rimedio razionale.

L'uomo greco presocratico non era stato ancora corrotto dall'idea socratica che il bene va raggiunto per mezzo della ragione: questa idea apollinea, questo artificio della morale (
il bene come disciplina dello spirito) non permette all'uomo di manifestare la sua natura, la sua volontà di potenza (l'uomo greco presocratico trovava dignità nella tragedia, sentiva la vita e non né provava paura).

Lo spirito della tragedia greca era in sostanza lo spirito dionisiaco, l'impulso vitale, l'irrazionale, la volontà di guardare in faccia l'imprevedibile e non fuggire di fronte ad esso.

La morale è dominio dei deboli sui forti

Ogni morale che pretende di essere vera e assoluta in realtà nasconde una falsità: i sentimenti morali nascono in forza di una dimenticanza, l'uomo ha scordato che originariamente la morale era l'insieme delle norme fondate sulla sola utilità comune. La morale si è poi affinata nei secoli trovando il proprio fondamento su altri motivi (sulla paura, per ossequio, per debolezza), dimenticando le sue origini strettamente utilitaristiche.

Ecco allora che "
Non esistono fenomeni morali, esiste solo un'interpretazione morale dei fenomeni." La morale non proviene da verità assolute al di sopra degli uomini, non proviene da Dio, la morale è opera dell'uomo, che di volta in volta, all'interno delle singole società, decide a quale verità sacrificarsi.

La morale rappresenta una scissione dell'uomo: egli finisce per credere e all' occorrenza morire in nome di idee che non gli appartengono e sono fuori di sé, egli contempla le diverse qualità morali dall'esterno, come entità  indipendenti, e finisce per vivere assoggettandosi a dei fantasmi.

La morale entra quindi in conflitto con la piena realizzazione di sé propria dell'oltre-uomo, ne impedisce la libera volontà di potenza, lo spirito creatore. Ogni morale è una forma di risentimento dei deboli verso i più forti, dove i deboli sono coloro che semplificano e costringono la realtà in gabbie ideologiche, coloro che si abbandonano al rimedio religioso del mondo oltre la vita, spegnendo in sé ogni pulsione vitale in nome della paura stessa di vivere.

Debole č quindi ogni individuo che si abbandona al rimedio, forte ogni individuo che ha il coraggio di dire no al rimedio e sì all'accettazione dell'imprevisto, dell'irrazionale, del divenire stesso.
Deboli sono coloro che si nascondono dietro una morale o dietro un idolo (ideale), forti coloro che agiscono in nome della propria forza, del proprio coraggio di fronte al divenire.

L'eterno ritorno

Questo frammento postumo di Nietzsche chiarifica l'essenza dell'eterno ritorno.
Mentre la filosofia razionale e la scienza vogliono ingabbiare tutti i diversi aspetti della realtà caotica in un progetto di leggi, Nietzsche afferma che l'oltre-uomo, liberato dalle gabbie del rimedio razionale, deve accostarsi alla vita come se ogni attimo, ogni secondo, ogni minuto, dovesse ritornare e ritornare, in eterno, in modo da godere dell'infinita gioia di ogni istante imprevedibile.

In sostanza la vita non ha alcun fine, non vi è alcuno scopo o alcun senso, non esiste Dio, il rimedio filosofico e religioso ha fallito: l'oltre-uomo accetta questa mancanza di senso, questa irrazionalità senza alcuna logica, vive e vuole vivere come se tutto dovesse ritornare e ripetersi per ciò che è, un flusso di realtà incontrollabile.
Ma come può Nietzsche affermare l'eterno ritorno dell'uguale se si professa nemico di ogni immutabile? Il tempo non soggiace al volere del divenire: se il divenire può specchiarsi nel presente e nel futuro, il passato, ciò che è stato, appare come eterno e immutabile, non modificabile. Ecco che l'oltre-uomo deve volere l'eterno ritorno, ovvero deve fare in modo che il passato ritorni nella sua vita per rientrare nel flusso del divenire. L'oltre-uomo, munito della sua arma più potente, la volontà di potenza, deve creare da sé l'eterno ritorno delle cose.

La volontà di potenza, il pensiero aristocratico

L'oltre-uomo ha il compito e il dovere di liberarsi dalle gabbie dei vecchi valori e fondare un nuova morale: è la volontà di potenza, ovvero la volontà di creare e rinnovare in continuazione i valori da seguire concedendosi ad una pulsione creatrice infinita, secondo la logica dell'eterno ritorno (vedi capitolo precedente).
L'uomo nuovo, intellettualmente elitario per necessità, si erge al di sopra del gregge delle menti mediocri e desidera nient'altro che il pieno manifestarsi delle proprie qualità superiori. L'oltre-uomo non può essere democratico, l'oltre-uomo è aristocratico, appartiene ad una élite, non è certo il comune aristocratico del diritto nobiliare; nobile e aristocratico, per Nietzsche sono da intendere come nobiltà di spirito e di intelletto.
L'uomo deve poi vivere per la terra. Come già si è detto, l'uomo debole si assoggetta ad una morale fuori di sé, una morale ultraterrena, non umana; l'oltre-uomo, colui che è forte, sa che deve legare il suo destino alla terra perché nulla che non sia umano, nulla che non parta dall'uomo e sia fatto per l'uomo, è vero.
La volontà di potenza è vincere le resistenze della morale comune, il rifiuto conseguente di assoggettarsi agli idoli, un'affermazione di sé e della propria superiorità.

La critica al Cristianesimo
Il superuomo, come si scrive in Zarathustra, può ben annunciare la morte di Dio: Dio è morto perché in lui venivano rappresentati i valori che andavano contro la vita degli uomini e non per la vita degli uomini.
Per Nietzsche non è tanto Cristo a proporre una religione nefasta, anzi, Cristo fu in qualche modo un oltre-uomo, un fondatore di nuove leggi, un creatore; è la degenerazione del pensiero di Cristo ad opera di Paolo di Tarso, il suo strutturarsi in sistema, che rendono il cristianesimo la menzogna delle menzogne (In sostanza ciò Nietzsche vede di buono in Cristo è la sua volontà di potenza, ovvero la forza di interrompere una tradizione in nome di una novità che si preannuncia vitale, deplora invece l'irrigidimento in dogma del suo insegnamento).
Il Cristianesimo rende l'uomo schiavo di una verità ultraterrena inesistente o quantomeno inutile a fini pratici, il Cristianesimo sminuisce l'uomo, gli toglie dignità, lo deresponsabilizza. Solo l'uomo è il centro di tutto (non per nulla Nietzsche predilige tra tutte le epoche il Rinascimento italiano, e, tra i classici, il laico Epicuro), il Cristianesimo propugna un'inutile compassione nei confronti dell'uomo: "ma perché provare compassione per l'uomo, l'uomo non è forse degno della sua importanza? Non riescono forse gli uomini a rendersi felici da sé e a vivere pienamente la propria esistenza?".

Nella religione l'uomo debole trova più che altro un insano sfogo alle proprie pulsioni, pulsioni che si indirizzano così verso l'autopunizione e il sacrificio, verso la compassione immotivata, pulsioni trattenute dentro di sé e non lasciate libere di fluire.

Il Cristianesimo è una derivazione della metafisica platonica del mondo oltre il mondo, un altro rimedio, uno sminuirsi della vita di fronte ad altri mondi illusori ma ritenuti perfettissimi.
Nel Cristianesimo vi è tutto ciò che va contro la vita in quanto teorizzazione dell'appiattimento delle menti funzionale al controllo delle masse, nel Cristianesimo vi è la teorizzazione di uno stato di paura in modo da impedire all'uomo l'esercizio della conoscenza (
si veda l'episodio biblico di Adamo ed Eva, la mela e l'albero della conoscenza).


Lucio Anneo Seneca, nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C., visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre - celebre retore - e in seguito abbracciando lo stoicismo, da cui mai si separò. Si dedicò dapprima con successo alla vita forense, ma nel 41 d.C. fu esiliato in Corsica dall'imperatore Claudio per un sospetto adulterio. Vi rimase otto anni, dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori, nonché alcuni dialoghi. Rientrato a Roma nel 49 d.C., diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilezione per le arti che per la filosofia. In seguito all'ascesa al potere del suo discepolo, nel 54 d.C., Seneca scrive il De clementia, nel quale egli si candida come consigliere del principe; vi sostiene la tesi che la clemenza é tanto più ammirevole , quanto maggiore é il potere di chi la manifesta. L’intera produzione di tragedie di Seneca è del resto – secondo Alfonso Traina – direzionata a impartire consigli a Nerone. La clemenza é agli antipodi dell'ira - la malattia del tiranno - , di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto (in tre libri), il De ira : se vogliamo avere la meglio sull'ira, non deve essere lei ad avere la meglio su di noi. Cominceremo a vincere solo quando la nasconderemo e le impediremo di prorompere all'esterno ; infatti - dice Seneca - se le consentiamo di fuoriuscire, essa ci domina: dobbiamo dunque nasconderla nel più profondo remoto del nostro petto, essa va trascinata perché non ci trascini.
 Seneca non condanna il suicidio: quando non si può più applicare la virtù, quando l’uomo non é più libero esso é concesso come extrema ratio: "non sempre bisogna cercare di tenere la vita, perché vivere non é un bene, ma é un bene vivere bene. Così il saggio vivrà quanto deve, non quanto può; esaminerà  dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali condizioni, con quali occupazioni. Una teoria sul suicidio, evidentemente, presuppone una teoria sul valore della vita, perché quello é negazione o almeno rinuncia di questa. Che cosa é la vita per un uomo saggio? Vive colui che é di utilità a molti , vive colui che può usare se stesso : per essere di utilità a qualcuno in modo consapevole, bisogna poter disporre di se, della parte migliore di se, cioè  della propria ragione.
Per Seneca  la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso. Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte é impossibile lottare e che l'errore fondamentale é di attribuire valore a ciò che dipende da essa. Se – stoicamente – il destino č signore delle cose, allora non ha senso opporvisi: siamo come cani legati ad un carro, e la cosa più saggia che possiamo fare č accettare liberamente di farci tirare da esso; proprio degli stolti è invece opporsi, con la conseguenza che si è ugualmente trascinati ma ci si fa male.
 Secondo il filosofo il dominio dei valori si trova  spostato dall'esterno all'interno, nella ragione, da cui dipende la valutazione delle cose. L' interiorità, a cui fa appello Seneca, é il luogo in cui si combatte contro gli assalti di tutto ciò che é esterno per la salvaguardia della propria libertà: ed é per questo che il pensatore spagnolo ci invita  alla sera, quando la nostra giornata volge al termine, a fare  una ricognizione fra i sentieri del proprio animo per sincerarsi che quella trascorsa sia stata una giornata bene impiegata. La virtù  non é preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini, ma Seneca non ne trae la conclusione che uno schiavo virtuoso dovrebbe anche essere liberato dalla schiavitù sul piano giuridico, poiché questa condizione giuridica riguarda solo il corpo dello schiavo, che, consegnato dalla sorte a un padrone, non può mutare il suo stato perché con la sorte non si interferisce: anche il padrone è schiavo del fato. La vera schiavitù per Seneca é quella volontaria, l'assoggettamento al vizio. Sulla tematica della schiavitù  Seneca si sofferma diffusamente nell’epistola 47 a Lucilio: pur non arrivando a propugnare l’abbattimento della schiavitù, egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente, in un’epoca in cui non di rado i rapporti con gli schiavi vengono irrigiditi e inaspriti, più volte rammenta che lo schiavo ha piena dignità umana e che a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via del bene.
 Chiunque, indipendentemente dalla propria condizione sociale, può raggiungere la virtù: Se  è vero che la via della virtù non è preclusa a nessuno, è altrettanto vero che solo il saggio stoico può percorrere realmente tale via fino in fondo: è questa a tesi che affiora nel De costantia sapientis; ma il vero saggio stoico è più un ideale a cui mirare che non un uomo esistente: è talmente raro – dice Seneca– da essere paragonabile alla fenice, che nasce una volta ogni cinquecento anni. Discorso analogo a quello sulla schiavitù può valere per quelli che gli stoici avevano chiamato "indifferenti": per esempio, nei confronti delle ricchezze, Seneca sottolinea la netta differenza nel disprezzare le ricchezze avendole o non avendole. Il modello militare di virtù e l'etica agonistica dello sforzo contro gli ostacoli, proprie dello stoicismo con una più forte impronta cinica, si confermano particolarmente consoni al ceto aristocratico di Roma . "Senza un avversario la virtù marcisce", dice Seneca. Paradossalmente proprio la tirannide diventa occasione per ritrovare la vera libertà, che ha il suo modello nell'autosufficienza del sapiente. La costruzione e l'affermazione di sé, attraverso il combattimento, é dunque una vicenda interna all'anima. Il ritiro in se stessi , nel seno protettivo della filosofia, é anche fuga dalla folla e da forme ostentate e volgari di filosofia, come quella dei cinici, stravaganti anche nell'aspetto e nel comportamento esteriori. Seneca non esita invece ad avvicinarsi al precetto epicureo del vivere nascostamente: questo recupero positivo di Epicuro da parte di un filosofo non epicureo é abbastanza eccezionale nell'antichità: Cicerone si era così rivelato un eclettico aperto ad ogni filosofia, ma nei riguardi dell’epicureismo aveva palesato un atteggiamento di netta chiusura. Seneca invece nota con occhio critico come epicurei e stoici non siano così diversi, tant’è che l’obiettivo ultimo che si propongono è di ordine etio. La stessa forma epistolare a cui Seneca ricorre é un richiamo al modo di filosofare epicureo (nonché platonico). Le prime 30 lettere indirizzate a Lucilio si concludono tutte con una massima tratta dagli scritti di Epicuro e offerta alla meditazione: una massima utile, infatti, anche se enunciata da Epicuro, é proprietà comune. Seneca, che pure si professa stoico, rivendica quindi la libertà di filosofare in nome proprio di fronte a una presunta ortodossia di scuola. I filosofi del passato, egli sostiene, "non sono i nostri padroni , ma le nostre guide", giacché "chi accetta passivamente il pensiero di un altro non trova, anzi non cerca neppure qualcosa di nuovo". La metafora a cui ricorre Seneca per tratteggiare il proprio eclettismo, contrario ad ogni dogmatismo, č quella dell’ape, la quale, errando qua e la, sceglie i fiori adatti al miele, evitando quelli inadatti; dobbiamo ingerire il pensiero altrui come il cibo che, una volta assunto, viene digerito, rielaborato e fatto nostro: "e se anche nella tua opera trasparirŕ l’autore che ammiri, e che è impresso profondamente nel tuo animo, vorrei che la somiglianza fosse quella di un figlio, non quella di un ritratto: il ritratto č una cosa morta". Per questo motivo č di fondamentale importanza dedicarsi attivamente alla lettura dei libri – spiega Seneca nell’Epistola 2 -, scegliendone pochi ma buoni: sbaglia infatti chi passa in continuazione da un libro all’altro, senza fermarsi mai, poiché "nusquam est qui ubique est" ("non è da nessuna parte chi č dappertutto"): come chi viaggia di continuo ha ospiti ma non veri amici e come chi ingerisci troppi cibi non si nutre ma si intossica, così  chi salta continuamente da un libro all’altro nuoce a se stesso: "nihil tam utile est, ut in transitu prosit". L’uomo è per Seneca – sulla scia di Aristotele – un animale congenitamente socievole ("hominem sociale animal communi bono genitum videri volumus", De clementia, I, 3, 2): siamo tutti membra di uno stesso corpo, tutti per natura vincolati da un rapporto di reciproco sostegno, così come le pietre che costituiscono una volta (Epistole a Lucilio, 95), pronta a cadere se esse non si sorreggessero a vicenda. Buona parte dell’opera di Seneca č poi dedicata alla fugacitŕ del tempo: così si aprono l’epistolario a Lucilio e il De brevitate vitae; l’idea centrale di Seneca è che "non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo" (De brevitate vitae, 1). La vita ci sfugge di continuo, ma il tempo di cui disponiamo è sufficiente per compiere le più grandi imprese, per conseguire la virtù (vero obiettivo della vita umana): come ricchezze immense, se finite nelle mani di un incapace, vengono rapidamente dilapidate, cos'è un piccolo gruzzoletto, se capita nelle mani giuste, viene investito e aumenta; così per la vita, che è breve ma può essere ben sfruttata; questo punto è da Seneca compendiato nella scintillante sententia "vita longa est, si uti scias" ("la vita č lunga, se sai farne uso") Il guaio č che molti uomini si perdono in futili attività, sprecando in tal modo il loro tempo; ed è a tal proposito che Seneca fa  un affresco di quelli che lui chiama gli "occupati", e che noi potremmo definire "i perdigiorno", coloro cioè che, immersi in attività del tutto inutili, non si accorgono che la loro vita sta scorrendo via. "La vita non è breve, ma tale la rendiamo noi", sprecando il nostro tempo in futili attività, senza accorgerci che "mentre si attende di vivere, la vita passa", ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. E il miglior modo per impiegare la propria vita è per Seneca la filosofia, pur senza distaccarsi dalla politica, secondo gli insegnamenti stoici: così, nel De tranquillitate animi il filosofo spagnolo polemizza con lo stoico Attenodoro, il quale sosteneva che per esercitare la filosofia fosse necessario allontanarsi dalla politica. Nel De otio, tuttavia, Seneca ritorna sui propri passi, esaltando a gran voce la vita contemplativa, invitando chi si è accorto che nella politica č impossibile esercitare la virtù e la filosofia a distaccarsene (dando quindi ragione ad Attenodoro), proprio come era accaduto a Seneca stesso nei suoi travagliati rapporti con Nerone. Ma l’adesione allo stoicismo pone a Seneca anche altre problematiche di gran rilievo: forse la più importante è come sia possibile, in un modo retto dalla ratio cosmica , che gli uomini giusti si trovino a patire grandi torti e ingiustizie, mentre spesso gli ingiusti trionfino. Perché il male si abbatte sui buoni? Se davvero il mondo fosse governato dalla provvidenza cosmica – come prevede lo stoicismo -, i buoni non dovrebbero essere premiati anziché puniti? A questa difficile questione Seneca prova a rispondere nel De providentia, spiegando come quelli che a noi paiono mali siano in realtà  delle prove che ci vengono poste per saggiare la nostra virtù: "perché, allora tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti". Ricorrendo ad un’altra metafora, Seneca spiega che la divinità  si comporta come un maestro coi suoi scolari, pretendendo "di più da coloro sui quali conta di più". Il pensiero di Seneca, per via del suo stile scintillante disententiae e per il suo procedere costellato di metafore e rapide contrapposizioni, verrà  condannato da Quintiliano, ma, nonostante la sua pur autorevole condanna, godrà  di un’immensa fortuna nel pensiero successivo.

" De providentia " (62 d.C.?): vi si espone la tesi (opposta a quella epicurea), che tende a giustificare la constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti: ma è solo la volontà divina che vuole mettere alla prova i buoni ed attestarne la virtù. Il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel riconoscere il posto che il logos gli ha assegnato nell'ordine cosmico, accettandolo serenamente.
" De brevitate vitae ": vi sono trattati i temi del tempo, della sua fugacità e dell'apparente brevità  della vita: la condizione umana ci sembra tale solo perché noi non sappiamo afferrare l'essenza della vita, e la disperdiamo in occupazioni futili.
" De ira libri III " (41 d.C.?): sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane, poiché analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e controllarle: si tu vis vincere iram, non potest te illa , questo è il tema portante. Se per i Peripatetici era giusto che si potesse sfogare l'ira in manifestazioni esterne, per Seneca è l'esatto contrario: l'ira va trattenuta, va vinta, affinché non sia essa a vincerci. Bisogna trascinarla dentro, affinché non sia lei a trascinarci; è opportuno tenere nascoste le sue manifestazioni ( obruamus signa illius ).
" De clementia " : l'opera è stata composta all'incirca tra il 55 e il 56 e rappresenta la più  chiara espressione della concezione senecana del potere. Il testo è  opportunamente dedicato all'imperatore Nerone come traccia di un ideale programma politico ispirato ad equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, ne le forme ormai palesemente monarchiche che esso ha assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico retto dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l'ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l'impero. Il problema, piuttosto, è di avere un buon sovrano: l'unico freno del sovrano, essendo il potere assoluto, sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà  trattenere dal governare in modo tirannico. L'ideale senecano di clemenza č una misurata commistione di indulgenza e moderazione.
" De otio " (62 d.C. ?): in quest'opera vi è un ribaltamento delle posizioni senecane: il vero filosofo stoico deve stare lontano dalla politica e dedicarsi interamente alla vita contemplativa. Chi opera politicamente si accorge di non potere esercitare la virtus, come si era accorto Attenodoro, e come ora si accorge Seneca, in seguito alla rottura dei rapporti con Nerone.
Quindi abbiamo: 124 " Epistulae morales ad Lucilium " (20 libri, composte negli ultimi anni di vita): S. vi riassume la sua filosofia e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore.

VITA E PENSIERO DI SOCRATE

Il filosofo Socrate (Atene 469 - 399 a.C.), si dedicò  fin da giovanissimo alla filosofia, entrando in contatto con Anassagora e i maggiori sofisti. Visse nel periodo del lungo conflitto tra Atene e Sparta, che si concluse con la vittoria di quest'ultima. Più volte Socrate prese parte agli scontri militari, distinguendosi per valore e abnegazione e mostrando quella grande forza di carattere che lo caratterizzerà in seguito anche nella vita civile. La sua adesione all'ordinamento democratico di Atene non fu infatti incondizionata: da un lato avanzò critiche in nome della ragione e della giustizia, dall'altra riteneva che non tutti i cittadini fossero idonei a partecipare alle decisioni pubbliche, ma solo quelli che disponevano di un'adeguata preparazione.
Pure sotto il regime oligarchico dei Trenta Tiranni egli si oppose all'opinione della maggioranza o del potere ogni volta che lo ritenne giusto, anche a rischio di gravi conseguenze (come quando si oppose a Crizia, disobbedendo all'ordine di uccidere un avversario politico del regime).
Per lui la ricerca filosofica era una pratica di vita a cui bisognava dedicarsi con coerenza totale e senza cedere a compromessi. Ma non tenne cattedra.
Non si dichiarò, come i Sofisti, maestro di sapere. Trascorreva le sue giornate conversando dappertutto e con tutti, su qualsiasi argomento. Se la sua straordinaria personalità non mancò di lasciare il segno su tutti i suoi interlocutori, anticonformismo e autonomia dei giudizi morali lo misero in cattiva luce di fronte all'opinione democratica più conservatrice, che considerava il suo insegnamento nocivo per la difesa dei valori tradizionali della polis. Dopo la disfatta dei Trenta, nel 399, venne processato per empietà  e corruzione dei giovani. Č probabile che gli accusatori mirassero soltanto al suo esilio, ma egli, come sempre, rifiutò i compromessi e, rinunciando all' opportunità della fuga, bevve la cicuta dopo l'estremo saluto ai suoi allievi più fedeli.


PENSIERO
IL filosofo non lasciò cose scritte, perché pensava, dice Platone, che i discorsi scritti sono come le figure dipinte: se le si interroga non rispondono. Invece filosofare č colloquio vivo, perenne tensione verso la verità, che non può essere fissata una volta per tutte nella parola scritta. Quel che sappiamo di lui e del suo insegnamento lo dobbiamo soprattutto a Platone, che ne fece il protagonista della maggior parte dei suoi dialoghi, e che, specialmente nei primi di essi (i cosiddetti dialoghi socratici), ritrasse nella maniera più fedele il suo pensiero. Altre testimonianze ci vengono da Senofonte, Aristofane e Aristotele.
Lui, al pari dei sofisti, č incurante delle ricerche scientifiche sulla natura: anche a lui non interessa che l'uomo e il suo mondo. Come loro, egli č critico implacabile di qualsiasi specie di conformismo sociale e morale, accettato passivamente e acriticamente. Però mentre la sofistica si limita a una critica delle norme sociali o statali in quanto le ritiene puramente "convenzionali", Socrate mira a ricostruire la morale sulla base dell' autorità interna della coscienza, guidata dalla ragione e dalla riflessione costante dell'uomo su se stesso e sul suo fare.
 Le parole  dell'oracolo di Delfi, conosci te stesso, diventano per Socrate l'indicazione della ricerca filosofica. Socrate stesso si ritiene ignorante e non si fa perciò portatore di un qualche sapere compiuto sull'uomo: egli si pone il compito di liberare gli altri da questa fatale illusione di sapere per porre la condizione essenziale alla costruzione di una vera conoscenza. Il metodo della ricerca socratica non può dunque essere che il dialogo. Tutti discutono con sicurezza di virtů, di giustizia, di coraggio, di bellezza, ma enumerandone i casi particolari collettivamente condivisi. Socrate invece vuole conoscere, non quali siano le cose belle, giuste, ma che cosa sia il bello, il giusto ecc., che č comune a tutte le cose che diciamo belle e giuste. La domanda socratica sul che cosa mira infatti alla definizione dell'essenza, all'universalità del concetto. Č per questo che Aristotele attribuisce a Socrate la scoperta del ragionamento induttivo (inteso qui come un processo che da un certo numero di casi particolari risale all'universale).
Se il dialogo si conclude in genere senza la proposta di una precisa definizione, l'interlocutore di Socrate ne esce sempre turbato e in preda al dubbio, ovvero disposto ad ammettere la propria ignoranza e ad impegnarsi nella ricerca del sapere. Suscitando con l'ironia la messa in discussione di se stessi, Socrate, con l'arte della maieutica (del far partorire) aiuta l'interlocutore a esprimere da sé quel tanto di verità che la sua anima possiede: č nel travaglio interno della propria anima che ciascuno deve cercare, e cercare per sempre, la verità che guida la nostra vita. Se il sapere filosofico s'identifica con la conoscenza che l'uomo ha di se stesso, esso è tutt'uno con il sapere pratico, ovvero, la coscienza morale. Solo la conoscenza consente all'uomo di realizzare la sua umanità sottraendosi agli impulsi e alle passioni e diventando padrone di sé (in questo consiste la libertà umana). La virtů è conoscenza, il male è frutto dell'ignoranza. La conoscenza del bene è tutt'uno con la sua pratica: solo nella realizzazione razionale della virtů l'uomo è felice. Insieme al concetto di anima, intesa come interiorità spirituale individuale, l'altro fondamentale contributo di Socrate all'etica č la tesi dell'importanza della cura di sé, come scopo autentico della vita umana.


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