René Guénon IL RE DEL MONDO

René Guénon






IL RE DEL MONDO

Traduzione dal francese di Arturo Reghini con l’aggiunta di alcune note dello stesso.

CAPITOLO I
NOZIONI SULL'AGARTTHA IN OCCIDENTE
L'opera postuma di Saint-Yves d'Alveydre intitolata La Mission de l'Inde, che fu pubblicata nel 1910, contiene la descrizione di un centro iniziatico misterioso designato sotto il nome di Agarttha; molti tra i lettori di quel libro debbono aver supposto d'altronde che non si trattava che d'un racconto puramente immaginario, d'una specie di finzione senza alcun fondamento di realtà. Di fatti, se si vuol prender tutto alla lettera, si trovano in cotesto libro delle inverosimiglianze che potrebbero giustificare un tale apprezzamento, almeno per chi se ne sta alle apparenze esteriori; e senza dubbio Saint-Yves aveva avuto delle buone ragioni per non dare egli stesso alla luce quest'opera, scritta da molto tempo, e che non era in verità completamente approntata. Fino ad allora, d'altra parte, non era stata fatta, in Europa, menzione dell'Agarttha e del suo capo, il Brahmâtmâ, che da uno scrittore di molto scarsa serietà, Louis Jacolliot, di cui è impossibile invocare l'autorità; per conto nostro, pensiamo che questi aveva realmente inteso parlare di queste cose durante il suo soggiorno nell'India, ma le ha rimaneggiate, come tutto il resto, alla sua maniera eminentemente fantasiosa. Ma, nel 1924, sopravvenne un fatto nuovo ed alquanto inatteso: il libro intitolato Bétes, Hommes et Dieux, in cui Ferdinando Ossendowski racconta le peripezie del viaggio movimentato che fece nel 1920 e 1921 attraverso l'Asia centrale, racchiude, specialmente nella sua ultima parte, dei racconti quasi identici a quelli di Saint-Yves; ed il rumore che è stato fatto intorno a questo libro offre, crediamo, un'occasione favorevole per rompere finalmente il silenzio sopra questa questione dell'Agarttha. Naturalmente, degli spiriti scettici o malevoli non hanno mancato di accusare Ossendowski di avere puramente e semplicemente plagiato Saint-Yves, e di rilevare, a sostegno di questa allegazione, tutti i passi concordanti delle due opere; ve ne è effettivamente un discreto numero che presentano, sin nei particolari, una rassomiglianza assai stupefacente. Vi è innanzi tutto quel che poteva sembrare nello stesso Saint-Yves la cosa più inverosimile, vogliam dire l'affermazione dell'esistenza di un mondo sotterraneo che estende dappertutto le sue ramificazioni, sotto i continenti ed anche sotto gli oceani, e pel cui tramite vengono stabilite delle comunicazioni invisibili tra tutte le regioni della terra; Ossendowski, del resto, non si addossa questa affermazione, dichiara anzi che non sa cosa pensarne, ma l'attribuisce a varii personaggi che ha incontrato nel corso del suo viaggio. Vi è pure, sopra dei punti più particolari, il passaggio dove il «Re del Mondo» è rappresentato dinanzi alla tomba del suo predecessore, quello dove si tratta dell'origine degli Zingari, che avrebbero un tempo vissuto nell'Agarttha, e ben altri ancora. Saint-Yves dice che vi sono momenti, durante la celebrazione sotterranea dei « Misteri cosmici», in cui i viaggiatori che si trovano nel deserto si fermano e gli stessi animali rimangono silenziosi; Ossendowski assicura di avere egli stesso assistito personalmente ad uno di questi momenti di raccoglimento generale. Vi è sopratutto, come strana coincidenza, la storia di un'isola, oggi scomparsa, dove vivevano degli uomini e degli animali straordinarii: Saint-Yves cita in proposito il riassunto del periplo di Iambulo, di Diodoro Siculo, mentre Ossendowski parla del viaggio d'un antico buddhista del Nepal, e cionostante le loro descrizioni non differiscono quasi affatto; se veramente esistono due versioni di questa storia provenienti da fonti così lontane l'una dall'altra, potrebbe essere interessante il rintracciarle ed il confrontarle accuratamente. Abbiamo tenuto a segnalare tutti questi avvicinamenti, ma teniamo anche a dire che non ci convincono affatto della realtà del plagio; la nostra intenzione, d'altronde non è di entrare qui in una discussione che, in fondo, non ci interessa che mediocremente. Indipendentemente dalle testimonianze che Ossendowski ci ha indicato di se stesso, sappiamo, per via di tutt'altre fonti, che i racconti del genere di quelli di cui si tratta sono cosa corrente in Mongolia ed in tutta l'Asia centrale; ed aggiungeremo subito che esiste qualche cosa di simile nelle tradizioni di quasi tutti i popoli. Da un altro lato, se Ossendowski avesse copiato in parte la Mission de l'Inde, non vediamo troppo per quale ragione avrebbe omesso certi passaggi ad effetto, né perché avrebbe cambiato la forma di certe parole, scrivendo per esempio Agharti invece di Agarttha, cosa che al contrario si spiega benissimo se egli ha avuto da fonte mongola le informazioni che Saint-Yves aveva ottenute da fonte hindu (poiché sappiamo che questi fu in relazione con due Hindu almeno); né comprendiamo meglio perché avrebbe impiegato, per designare il capo della gerarchia iniziatica, il titolo di «Re del Mondo» che non figura in nessuna parte in Saint-Yves. Anche se si dovesse ammettere che Ossendowski ha preso certe cose da Saint-Yves, resterebbe pur sempre il fatto che egli ne dice talora altre che non hanno il loro equivalente nella Mission de l'Inde e che sono tra quelle che egli non ha sicuramente potuto inventare di sana pianta, tanto più che, ben più preoccupato di politica che di idee e di dottrine, ed ignorando completamente quanto tocca l'esoterismo, è stato manifestamente incapace di afferrarne egli stesso l'esatta portata. Tale, per esempio, è la storia di una «pietra nera» inviata un tempo dal «Re del Mondo» al Dalai-Lama, trasportata poi ad Urga, in Mongolia, e che disparve circa cento anni fa; ora, in numerose tradizioni, le «pietre nere» rappresentano una parte importante, a cominciare da quella che era il simbolo di Cibele sino a quella che è incassata nella Kaabah della Mecca. Ecco un altro esempio: il Bogdo-Khan o «Buddha vivente», che risiede ad Urga, conserva, tra altre cose preziose, l'anello di Gengis-Khan, su cui è inciso uno swastika, ed una lastra di rame portante il sigillo del «Re del Mondo»; sembra che Ossendowski non abbia potuto vedere che il primo di questi due oggetti, ma gli sarebbe stato assai difficile d'immaginare l'esistenza del secondo: non avrebbe dovuto presentarglisi più naturalmente allo spirito il parlare qui di una lastra d'oro? Queste poche osservazioni preliminari sono sufficienti per il nostro proposito, poiché intendiamo rimanere assolutamente estranei ad ogni polemica ed a ogni questione personale; se citiamo Ossendowski ed anche Saint-Yves è unicamente perché quel che essi han detto può servire di punto di partenza per delle considerazioni che non hanno nulla a vedere con quanto si possa pensare dell'uno e dell'altro, e la cui portata sorpassa singolarmente le loro individualità, come pure la nostra, che, in questo campo, non deve contar maggiormente. Noi non vogliamo, a proposito delle loro opere, abbandonarci ad una «critica dei testi» più o meno vana, ma sibbene apportare indicazioni che finora non sono mai state date in nessun luogo, almeno per quanto sappiamo, e che sono suscettibili di aiutare in una certa misura a chiarire quello che Ossendowski chiama il «mistero dei misteri».

CAPITOLO II
REGALITÀ E PONTIFICATO
Il titolo di «Re del Mondo», preso nella sua accezione più elevata, più completa e nel medesimo tempo più rigorosa, si applica propriamente a Manu, il Legislatore primordiale ed universale, il cui nome si trova, sotto varie forme presso un gran numero di popoli antichi; rammentiamo a questo proposito il Mina o Ménes degli Egizii, il Menu dei Celti e il Minos dei Greci. Questo nome, d'altronde, non designa affatto un personaggio storico o più o meno leggendario; quello che in realtà designa, è un principio, l'Intelligenza cosmica che riflette la Luce spirituale pura e formula la Legge (Dharma) propria alle condizioni del nostro mondo o del nostro ciclo di esistenza; e nel medesimo tempo esso è l'archetipo dell'uomo considerato specialmente in quanto essere pensante (in sanscrito manava). D'altra parte, quello che qui importa essenzialmente osservare, è che questo principio può essere manifestato per mezzo di un centro spirituale stabilito nel mondo terrestre, per mezzo di una organizzazione incaricata di conservare integralmente il deposito della tradizione sacra, di origine «non umana» (apauru-sheya), per mezzo di cui la Saggezza primordiale si comunica attraverso le età a coloro che sono capaci di riceverla. Il capo di una tale organizzazione, rappresentando in certo modo lo stesso Manu, potrà portarne legittimamente il titolo e gli attributi; e, per il grado di conoscenza che deve avere raggiunto .per potere esercitare la sua funzione, egli si identifica altresì realmente col principio di cui è come l'espressione umana, principio dinanzi al quale la sua individualità scompare. Questo è ben il caso dell'Agarttha, se questo centro ha raccolto, come l'indica SaintYves, l'eredità dell'antica «dinastia solare» (Surya-vansha) che risiedeva un tempo a Ayodhyà, e che faceva risalire la sua origine a Vaivaswata, il Manu del ciclo attuale. Pertanto, come abbiamo già detto, Saint-Yves non considera il capo supremo dell'Agarttha come «Re del Mondo»; egli lo presenta come «Sovrano Pontefice», ed inoltre, lo colloca alla testa di una «Chiesa brahmanica» designazione che procede da una concezione un po' troppo occidentalizzata. A parte quest'ultima riserva, quello che egli dice completa, a questo proposito, quel che Ossendowski dice dal suo canto; sembra che ognuno di essi non abbia veduto che l'aspetto che rispondeva più direttamente alle sue tendenze ed alle sue preoccupazioni dominanti, perché qui si tratta, in verità, di un doppio potere, sacerdotale e regale ad un tempo. Il carattere «pontificale», nel senso più vero di questa parola, appartiene difatti realmente, e per eccellenza, al capo della gerarchia iniziatica, e ciò richiede una spiegazione: letteralmente, il Pontifex è un «costruttore di ponti», e questo titolo romano è, per la sua origine, in qualche maniera un titolo «massonico»; ma, simbolicamente, è colui che compie la funzione di mediatore, stabilendo la comunicazione tra questo mondo ed i mondi superiori. A questo titolo, l'arcobaleno, il «ponte celeste», è un simbolo naturale del «pontificato»; e tutte le tradizioni gli danno significati perfettamente concordanti: così, presso gli Ebrei, era il pegno dell'alleanza di Dio, col suo popolo; in Cina è il segno dell'Unione del Cielo e della terra; in Grecia rappresenta Iris, la «messaggera degli Dei»; un po' dovunque, presso gli Scandinavi come presso i Persiani e gli Arabi, in Africa centrale e sin presso certi popoli dell'America del Nord, è il ponte che collega il mondo sensibile al soprasensibile. D'altra parte, l'unione dei due poteri sacerdotale e regale era rappresentata, presso i latini, da un certo aspetto del simbolismo di Janus, simbolismo estremamente complesso ed a significati multipli; le chiavi d'oro e d'argento raffiguravano, sotto lo stesso rapporto, le due iniziazioni corrispondenti. Si tratta, per usare la terminologia hindu, della via dei Brâhmani e di quella degli Kshatriya; ma, al vertice della gerarchia ci si trova nel principio comune da cui gli uni e gli altri traggono le loro rispettive attribuzioni, al di là dunque della loro distinzione, poiché ivi è la fonte di ogni autorità legittima, qualunque sia il dominio in cui si eserciti; e gli iniziati dell'Agarttha sono ativarna, vale a dire «al di là delle caste». Nel medio evo esisteva un'espressione nella quale i due aspetti complementari dell'autorità si trovavano riuniti in una maniera assai degna di nota: si parlava spesso, in quel tempo, d'una contrada misteriosa cui davasi il nome di «regno del prete Gianni». Era il tempo in cui quella che si potrebbe designare come la «copertura esteriore» del centro in questione era formata, per una buona parte, dai Nestoriani (o quello che a torto od a ragione si è convenuto di chiamare in tal modo) e dai Sabei; e, precisamente, questi ultimi davano a se stessi il nome di Mendayyeh di Yahia, vale a dire «discepoli di Giovanni». A questo proposito, possiamo subito fare un'altra osservazione: è per lo meno curioso che molti gruppi orientali a carattere molto chiuso, dagli Ismaeliti o discepoli del «Vecchio della Montagna» ai Drusi del Libano, abbiano uniformemente assunto, tale quale come gli Ordini di cavalleria occidentali, il titolo di «guardiani della Terra Santa». Quel che segue farà senza dubbio comprendere meglio il possibile significato di questo fatto; sembra che SaintYves abbia trovato un'espressione assai appropriata, ancora di più forse che egli stesso non pensasse, quando parla dei «Templari dell'Agarttha». Perché non ci si stupisca dell'espressione «copertura esteriore» che abbiamo adoperato, aggiungeremo che bisogna ben porre attenzione a questo fatto che l'iniziazione cavalleresca era essenzialmente una iniziazione di Kshatriyas; il che spiega, tra le altre cose, la parte preponderante che vi rappresenta il simbolismo dell'Amore. Qualunque sia il valore di queste ultime considerazioni, in Occidente l'idea di un personaggio che è ad un tempo prete e re non è molto corrente, sebbene si trovi, all'origine stessa del Cristianesimo, rappresentata in maniera chiarissima dai «Re Magi»; anche nel medio evo (almeno secondo le apparenze esteriori) il potere supremo era diviso tra il Papato e l'Impero. Ma tale separazione può essere considerata come il contrassegno di una organizzazione incompleta dall'alto, se è lecito così esprimersi, poiché non vi si vede apparire il principio comune da cui procedono e dipendono regolarmente i due poteri; il potere veramente supremo doveva quindi trovarsi altrove. In Oriente, al contrario, il mantenimento di una tale separazione al vertice stesso della gerarchia è assai eccezionale, e non è che in certe concezioni buddiste, che ci si imbatte in qualche cosa di simile; vogliamo alludere all'incompatibilità affermata tra la funzione di Buddha e quella di Chakravartî o «monarca universale», quando è detto che Shâkya-Muni dovette, a un certo momento, scegliere tra l'una e l'altra. Conviene aggiungere che il termine Chakravartî, che non ha nulla di specialmente buddhico, s'applica molto bene, secondo i dati della tradizione indù, alla funzione del Manu o dei suoi rappresentanti: è, letteralmente «colui che fa girare la ruota», vale a dire colui che, collocato nel centro di tutte le cose, ne dirige il movimento senza egli stesso parteciparvi, o che ne è, secondo l'espressione di Aristotile, il «motore immobile». Richiamiamo in modo specialissimo l'attenzione su questo: il centro di cui si tratta è il punto fisso che tutte le tradizioni sono concordi nel designare simbolicamente come il «Polo», poiché è intorno ad esso che si effettua la rotazione del mondo, rappresentato generalmente dalla ruota, presso i Celti tanto quanto presso i Caldei e gli Hindu. Tale è il vero significato dello swastika,
questo segno che si trova diffuso dappertutto, dall'Estremo Oriente all'Estremo Occidente, e che è essenzialmente il «segno del Polo»; è senza dubbio la prima volta, nell'Europa moderna, che se ne fa qui conoscere il senso reale. Gli scienziati contemporanei, difatti, hanno cercato vanamente di spiegare questo simbolo con le teorie più immaginose; la massima parte di essi, ossessionati da una specie di idea fissa, ha voluto vedere, qui come quasi dovunque altrove, un segno esclusivamente «solare» (16), mentre che, se talora lo è divenuto, ciò non ha potuto essere che accidentalmente ed in modo deviato. Altri si sono avvicinati maggiormente alla verità considerando lo swastika come il simbolo del movimento; ma questa interpretazione senza essere falsa, è grandemente insufficiente, perché non si tratta di un movimento qualunque, ma di un movimento di rotazione che si compie intorno ad un centro od ad un asse immutabile; ed è il punto fisso che è, lo ripetiamo, l'elemento essenziale a cui si riferisce direttamente il simbolo in questione. Da quanto ora abbiam detto, si può già comprendere che il «Re del Mondo» deve avere una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice (e si osserverà che non è senza una ragione che quest'ultima parola ha la medesima radice di rex e di regere), funzione che può riassumersi in una parola come «equilibrio» o «armonia», il che è reso in sanscrito precisamente dal termine Dharma: Noi intendiamo con ciò il riflesso, nel mondo manifestato, dell'immutabilità del Principio supremo. Si può comprendere anche, mediante le medesime considerazioni, perchè il «Re del Mondo» ha per attributi fondamentali la «Giustizia» e la «Pace», che non sono che le forme più specialmente rivestite da questo equilibrio e da questa armonia nel «mondo dell'uomo» (manava loka). E' anche questo un punto della più grande importanza; ed, oltre alla sua portata generale, lo segnaliamo a coloro che si abbandonano a certe paure chimeriche, di cui è contenuta come una eco nelle ultime linee del libro stesso di Ossendowski.


CAPITOLO III
LA SHEKINAH E METATRON
Alcuni spiriti timorosi, e la cui comprensione è stranamente limitata da idee preconcette, sono stati spaventati dalla designazione stessa di «Re del Mondo» che essi hanno immediatamente riavvicinato a quella di Princeps hujus mundi di cui è questione nell'Evangelo. Naturalmente tale assimilazione è completamente erronea e sprovvista di fondamento; per eliminarla, potremmo limitarci a fare semplicemente osservare che questo titolo di «Re del Mondo», in ebraico ed in arabo, è applicato correntemente a Dio stesso. Nonpertanto, siccome ciò può offrire l'occasione ad alcune osservazioni interessanti, considereremo a questo proposito le teorie della Cabala ebraica, concernenti gli «intermediarii celesti», teorie, d'altronde, che hanno un preciso rapporto diretto col soggetto principale di questo nostro studio. Gli «intermediarii celesti» di cui si tratta sono la Shekinah e Metatron; e diremo per prima cosa che, nel senso più generale, la Shekinah è la «presenza reale» della Divinità. Bisogna notare che i passi della Scrittura dove ne è fatta menzione tutta speciale sono soprattutto quelli in cui si tratta della instituzione di un centro spirituale: la costruzione del Tabernacolo, l'edificazione del Tempio di Salomone e di Zorobabele. Un tal centro, costituito in condizioni regolarmente definite, doveva essere in fatti il luogo della manifestazione divina, sempre rappresentata come «Luce»; ed è curioso di osservare che l'espressione di «luogo illuminatissimo e regolarissimo», che la massoneria ha conservato, sembra bene essere un ricordo dell'antica scienza sacerdotale che presiedeva alla costruzione dei Templi, e che, del resto, non era particolare agli Ebrei; torneremo in seguito su questo. Non occorre qui che entriamo nello sviluppo della teoria delle «influenze spirituali» (preferiamo questa espressione alla parola «benedizioni» per tradurre l'ebraico berakoth, tanto più che è questo il senso che ha conservato molto nettamente in arabo la parola Barakah); ma, anche limitandosi a considerare le cose da questo solo punto di vista, sarebbe possibile spiegarsi la parola di Elia Levita, che riporta il Vulliaud nella sua opera sopra La Kabbale juive: «i Maestri della Cabala hanno a questo soggetto dei grandi segreti». La Shekinah si presenta sotto aspetti multipli, tra i quali ve ne sono due principali, l'uno interno e l'altro esterno; ora, d'altra parte, vi è nella tradizione cristiana, una frase che designa colla massima possibile chiarezza questi aspetti «Gloria in excelsis Deo, et in terra Pax hominibus bonae voluntatis». Le parole Gloria e Pax si riferiscono rispettivamente all'aspetto interno, per rapporto al Principio, ed all'aspetto esterno, per rapporto al mondo manifestato; e, se queste due parole le si considerano in questo modo, si può comprendere immediatamente perché vengano pronunciate dagli Angeli (Malakim) per annunciare la nascita del «Dio con noi» o «in noi» (Emmanuel). Si potrebbe anche, per il primo aspetto, ricordare la teoria dei teologi sopra la «luce di gloria» nella quale e per la quale si opera la visione beatifica (in excelsis); e, quanto al secondo, ritroviamo qui la Pace cui facevamo allusione or ora, e che, nel suo senso esoterico, è indicata dappertutto come uno degli attributi fondamentali dei centri spirituali stabiliti in questo mondo (in terra). D'altronde, il termine arabo Sakinah, che è evidentemente identico all'ebraico Shekinah, si traduce con «Grande Pace», il che è l'esatto equivalente della Pax Profunda dei Rosacroce; e, per questa via, si potrebbe senza dubbio spiegare che cosa questi intendevano significare col «Tempio dello Spirito Santo», come si potrebbero interpretare in modo preciso i numerosi testi evangelici in cui si parla della «Pace», tanto più che «la tradizione segreta concernente la Shekinah avrebbe qualche rapporto con la luce del Messia». E' dunque senza intenzione che il Vulliaud, dando quest'ultima indicazione, dice che si tratta della tradizione «riservata a coloro che perseguono il cammino che finisce al Pardes», vale a dire, come vedremo più innanzi, al centro spirituale supremo? Questo porta anche ad un'altra osservazione connessa: Il Vulliaud parla in seguito di un «mistero relativo al Giubileo», il che si riattacca in un senso all'idea di «Pace», e a questo proposito egli cita questo testo dello Zohar (III, 52, b). «Il fiume che esce dall'Eden porta il nome di Jobel, come quello di Geremia: «Esso stenderà le sue radici verso il fiume», di dove risulta che «l'idea centrale del Giubileo è il riportare tutte le cose al loro stato primitivo». E' chiaro che si tratta di quel ritorno allo «stato primordiale» considerato da tutte le tradizioni, e su cui abbiamo avuto l'occasione di insistere un poco nel nostro studio su L'Esoterismo di Dante; e, quando si aggiunga che il «ritorno di tutte le cose al loro stato primiero segnerà l'era messianica», coloro che hanno, letto questo studio potranno ricordarsi di quel che vi dicevamo sopra i rapporti del «Paradiso terrestre» e della «Gerusalemme celeste». D'altronde quello di cui si tratta in tutto questo, è sempre, in fasi diverse della manifestazione ciclica, il Pardes, il centro di questo mondo, che il simbolismo tradizionale di tutti i popoli paragona al cuore, centro dell'essere e «residenza divina» (Brahmapura nella dottrina hindu), come il tabernacolo che ne è l'immagine e che, per questa ragione, è chiamato in ebraico mishkan o «abitacolo di Dio», parola che ha la stessa radice della parola Shekinah. Da un altro punto di vista, la Shekinah è la sintesi delle Sephiroth; ora, nell'albero sefirotico, la «colonna di destra» è il lato della Misericordia, e la «colonna di sinistra» è il lato del Rigore; dobbiamo dunque ritrovare questi due aspetti anche nella Shekinah, e possiamo osservare immediatamente, per collegare questo a quanto precede, che sotto un certo aspetto almeno, il Rigore si identifica con la Giustizia e la misericordia con la Pace. Se l'uomo pecca e si allontana dalla Shekinah, cade sotto il potere delle potenze (Sârim) che dipendono dal Rigore», il che ricorda immediatamente il simbolo ben conosciuto della «mano di giustizia»; ma, al contrario, «se l'uomo si approssima alla Shekinah, egli si libera», e la Shekinah è la «mano destra» di Dio, vale a dire che la «mano di giustizia» diviene allora la «mano benedicente». Sono questi i misteri della «Magione di giustizia» (Beith-din), il che è ancora un'altra designazione del centro spirituale supremo; ed è appena necessario di fare osservare che i due lati che abbiano considerato sono quelli in cui si ripartiscono gli eletti ed i dannati nelle rappresentazioni cristiane «dell'ultimo Giudizio». Si potrebbe egualmente stabilire un avvicinamento con le due vie che i Pitagorici raffiguravano con la lettera Y, e che sotto una forma exoterica erano rappresentate dal mito di Ercole tra la Virtù ed il Vizio; con le due porte celeste ed infernale, che, presso i Latini, erano associate al simbolismo di Janus; con le due fasi cicliche ascendente e discendente che, presso gli Hindu, si riattaccano similmente al simbolismo di Ganêsha. Infine, è facile capire per questa via che cosa vogliono dire veramente delle espressioni come quelle di «intenzione dritta» e di «buona volontà» («Pax hominibus bonae voluntatis», e coloro che hanno qualche conoscenza dei varii simboli ai quali abbiano ora fatto allusione vedranno che non è senza ragione che la festa di Natale coincide con l'epoca del solstizio d'inverno) quando si ha cura di lasciare da parte tutte le interpretazioni esteriori, filosofiche e morali, alle quali esse han dato luogo dagli stoici sino a Kant. «La Cabala dà alla Shekinah un paraedro che porta dei nomi identici ai suoi, che possiede per conseguenza i medesimi caratteri», e che ha naturalmente altrettanti aspetti diversi quanti la stessa Shekinah; il suo nome è Metatron, e questo nome è numericamente equivalente a quello di Shaddai, l'«Onnipotente» (che si dice sia il nome del Dio di Abramo). L'etimologia della parola Metatron è molto incerta; tra le varie ipotesi che sono state emesse a questo proposito, una delle più interessanti è quella che fa derivare dal caldaico Mitra che significa «pioggia», e che ha anche, per la sua radice, un certo rapporto con la «luce». Se la cosa sta così, d'altronde, non bisognerebbe credere che la similitudine col Mitra hindu e zoroastriano costituisca una ragione sufficiente per ammettere un imprestito del Giudaismo a delle dottrine straniere, perché non è in questo modo tutto esteriore che conviene considerare i rapporti che esistono tra le varie tradizioni; e diremo altrettanto per quel che concerne la parte attribuita alla pioggia in quasi tutte le tradizioni, in quanto simbolo della discesa delle «influenze spirituali» dal Cielo sulla Terra. A questo proposito, segnaliamo che la dottrina ebraica parla di una «rugiada di luce» che emana dall'«Albero della vita» e per mezzo della quale deve effettuarsi la resurrezione dei morti, come pure di una «effusione di rugiada» che rappresenta l'influenza celeste che si comunica a tutti i mondi, il che ricorda singolarmente il simbolismo alchemico e rosicruciano. «Il termine di Metatron comporta tutte le accezioni di guardiano, Signore, inviato, mediatore»; esso è «l'autore delle teofanie nel mondo sensibile»; esso è l'«Angelo della Faccia», ed anche «il Principe del Mondo» (Sâr haôlam), e quest'ultima designazione mostra che non ci siamo punto allontanati dal nostro soggetto. Per impiegare il simbolismo tradizionale che abbiamo già spiegato precedentemente, diremmo volentieri che, come il capo della gerarchia iniziatica è il «Polo terrestre», Metatron è il «Polo celeste»; e, questo ha il suo riflesso in quello, col quale è in relazione diretta seguendo l'«Asse del mondo». «Il suo nome è Mikaël, il Gran Prete che è olocausto ed oblazione dinanzi a Dio. E tutto quello che gli Israeliti fanno sulla terra viene compiuto in conformità dei tipi di quello che avviene nel mondo celeste. Il Gran Pontefice qui in basso simboleggia Mikaël, principe della Clemenza... In tutti i passi dove la Scrittura parla dell'apparizione di Mikaël, si tratta della gloria della Shekinah». Quello che qui è detto degli Israeliti può essere detto parimente di tutti i popoli che possiedano una tradizione veramente ortodossa; a più forte ragione va detto dei rappresentanti della tradizione primordiale da cui tutte le altre derivano ed a cui esse sono tutte subordinate; e questo è in rapporto col simbolismo della «Terra Santa» immagine del mondo celeste, a cui abbiamo già fatto allusione. D'altra parte, secondo quanto abbiamo detto più sopra, Metatron non ha solo l'aspetto della Clemenza, ha anche quello della Giustizia; non è soltanto il «Gran Prete» (Kohen ha-gadol), ma anche il «Gran Principe» (Sâr ha-gadol), e il «capo delle milizie celesti», vale a dire che in lui si trova il principio del potere regale, come pure del potere sacerdotale o pontificale a cui corrisponde propriamente la funzione di «mediatore». Bisogna d'altronde osservare che Melek, «re», e Maleak, «angelo» o «inviato», non sono in realtà che due forme d'una stessa parola; di più, Malaki, «mio inviato» (vale a dire l'inviato di Dio, o «l'angelo nel quale è Dio», Maleak ha-Elohim), è l'anagramma di Mikaël. Conviene aggiungere che, se Mikaël si identifica con Metatron come or abbiamo veduto, cionostante non ne rappresenta che un aspetto; accanto alla faccia luminosa vi è una faccia oscura, e questa è rappresentata da Samaël, che è ugualmente chiamato Sâr haôlam; noi torniamo qui al punto di partenza di queste considerazioni. Infatti è quest'ultimo aspetto, e soltanto questo, che in un senso inferiore è il «genio di questo mondo», il Princeps hujus mundi di cui parla il Vangelo; ed i suoi rapporti col Metatron di cui è come l'ombra, giustificano l'impiego d'una stessa designazione in un doppio senso, nel medesimo tempo che fanno comprendere il perché il numero apocalittico 666, il «numero della Bestia», è anche un numero solare. Del resto, secondo Sant'Ippolito, «il Messia e l'Anticristo hanno tutte e due per emblema il leone», che è parimente un simbolo solare; e la medesima osservazione potrebbe essere fatta per il serpente e per molti altri simboli. Dal punto di vista cabalistico qui si tratta ancora delle due faccie opposte di Metatron; non dobbiamo diffonderei sopra le teorie che si potrebbero formulare, in una maniera generale, sopra questo duplice senso dei simboli, ma diremo solamente che la confusione tra l'aspetto luminoso e l'aspetto tenebroso costituisce propriamente il «satanismo»; ed è precisamente questa la confusione commessa, involontariamente senza dubbio e per semplice ignoranza (il che scusa, ma non giustifica), da coloro che credono scoprire un significato infernale nella designazione di «Re del Mondo» 


CAPITOLO IV
LE TRE FUNZIONI SUPREME
Secondo Saint-Yves, il capo supremo dell'Agarttha porta il titolo di Brahâtmâ, (sarebbe più corretto scrivere Brahmâtmâ), «sostegno delle anime nello spirito di Dio»; i suoi due assessori sono il Mahâtmâ, «che rappresenta l'Anima universale», ed il Mahânga, «simbolo di tutta l'organizzazione materiale del Cosmos». E' la divisione gerarchica che le dottrine occidentali rappresentano col ternario «spirito, anima, corpo», e che è applicata qui secondo l'analogia costitutiva del Macrocosmo e del Microcosmo. Importa notare che questi termini, in sanscrito, designano propriamente dei principi, e che essi non possono venire applicati a degli esseri umani che in quanto questi rappresentano questi stessi principi, di modo che, anche in questo caso, sono legati essenzialmente a delle funzioni, e non a delle individualità. Secondo Ossendowski, il Mahâtmâ «conosce gli avvenimenti dell'avvenire», ed il Mahânga «dirige le cause di questi avvenimenti»; quanto al Brahâtmâ, egli può «parlare a Dio faccia a faccia» ed è facile comprendere che cosa ciò vuol dire, se si ricorda che egli occupa il punto centrale dove si stabilisce la comunicazione diretta del mondo terrestre con gli stati superiori, ed, attraverso questi, con il Principio Supremo. D'altronde, l'espressione di «Re del Mondo», se si volesse intenderla in un senso ristretto, ed unicamente per rapporto al mondo terrestre, sarebbe assai inadeguata; sarebbe più esatto, sotto certi rispetti, di applicare al Brahâtmâ quella di «Maestro dei Tre Mondi»; perché in ogni gerarchia effettiva, chi possiede il grado superiore possiede nello stesso tempo ed in virtù di esso tutti i gradi subordinati, e questi «tre mondi» (che costituiscono il Tribhuvana della tradizione hindu) sono, come lo spiegheremo tra poco, i domini che corrispondono alle tre funzioni che abbiamo or ora enumerato. «Quando egli esce dal tempio, dice Ossendowski, il Re del Mondo irradia una luce divina». La Bibbia ebraica dice esattamente la stessa cosa di Mosè quando egli discendeva dal Sinai, ed è da osservare, a proposito di questo ravvicinamento, che la tradizione islamica vede in Mosè quegli che fu il «Polo» (El-Qutb) della sua epoca; non sarebbe per questa ragione, d'altronde, che la Cabala dice che egli fu istruito da Metatron stesso? Ancora bisognerebbe qui distinguere tra il centro spirituale principale del nostro mondo ed i centri secondari che possono essergli subordinati, e che lo rappresentano solamente per rapporto a delle tradizioni particolari, adatte più specialmente a dei popoli determinati. Senza dilungarci su questo punto, faremo osservare che la funzione di «legislatore» (in arabo rasul), che è quella di Mosè, suppone necessariamente una delegazione del potere che designa il nome di Manu; e, d'altra parte, uno dei significati contenuti in questo nome il Manu indica precisamente il riflesso della Luce divina. «Il "Re del Mondo"» disse un lama ad Ossendowski, «è in rapporto con i pensieri di tutti coloro che dirigono il destino dell'umanità... Egli conosce le loro intenzioni e le loro idee. Se esse piacciono a Dio, il "Re del Mondo" le favorirà col suo aiuto invisibile; ma se spiacciono a Dio, il Re ne provocherà lo scacco. Questo potere è dato ad Agharthi dalla scienza misteriosa di Om, parola con la quale cominciano tutte le nostre preghiere». Immediatamente dopo viene questa frase, che, per tutti quelli che hanno soltanto una vaga idea del significato del monosillabo sacro Om, deve essere una causa di stupore: «Om è il nome di un antico santo, il primo dei Goros (Ossendowski scrive goro per guru), che visse trecentomila anni fa». Questa frase, difatti è assolutamente inintelligibile se non si pensa a questo: l'epoca di cui si tratta, e che d'altronde non ci sembra indicata che in un modo assai vago, è molto anteriore all'era del Manu attuale; d'altra parte, l'Adi-Manu o primo Manu del nostro Kalpa (Vaivaswata essendo il settimo) è chiamato Swâyambhuva cioè derivato da Swayambhû, «colui che sussiste per se stesso», od il Logos eterno; ora il Logos, o colui che lo rappresenta direttamente, può in verità esser designato come il primo dei Gurus o «Maestri spirituali»; ed, effettivamente, Om è in realtà un nome del Logos. D'altra parte, la parola Om dà immediatamente la chiave della ripartizione gerarchica delle funzioni tra il Brahâtmâ ed i suoi due assessori quale l'abbiamo già indicata. Difatti, secondo la tradizione hindu, i tre elementi di questo monosillabo sacro simboleggiano rispettivamente i «tre mondi», ai quali facevamo allusione poco prima, i tre termini del Tribhuvana: la Terra (Bhû), l'Atmosfera (Bhuvas), il Cielo (Swar), vale a dire, in altri termini, il mondo della manifestazione corporea, il mondo della manifestazione sottile o psichica, il mondo dei principi non manifestato. Son questi, andando dal basso all'alto, i dominii proprii del Mahânga, del Mahâtmâ e del Brahâtmâ come si può vedere facilmente riportandosi all'interpretazione dei loro titoli che è stata data più sopra; ed i rapporti di subordinazione che esistono tra questi diversi dominii giustificano, per il Brahâtmâ, l'appellativo di «Maestro dei tre mondi» che abbiamo impiegato precedentemente: «Questi è il Signore di tutte le cose, l'onnisciente (che vede immediatamente tutti gli effetti nella loro causa), l'ordinatore interno (che risiede nel centro del mondo e lo regge dal di dentro, dirigendone il movimento senza parteciparvi), la sorgente (di ogni potere legittimo), l'origine e la fine di tutti gli esseri (della manifestazione ciclica di cui rappresenta la Legge)». Per servirci ancora di un altro simbolismo, non meno rigorosamente esatto, diremo che il Mahânga rappresenta la base del triangolo iniziatico ed il Brahâtmâ il suo vertice; tra i due, il Mahâtmâ incarna in un certo modo un principio mediatore (la vitalità cosmica, l'Anima Mundi degli ermetisti), la cui azione si spiega nello «spazio intermediario»; e tutto questo è chiarissimamente raffigurato dai corrispondenti caratteri dell'alfabeto sacro che Saint-Yves chiama vattan ed Ossendowski vatannan, o, ciò che fa lo stesso, dalle forme geometriche (linea retta, spirale e punto) alle quali si riconducono essenzialmente i tre mâtrâs o elementi costitutivi del monosillabo Om. Spiegamoci ancora più nettamente: al Brahâtmâ appartiene la pienezza dei due poteri sacerdotale e regale, considerata principalmente ed in qualche modo allo stato indifferenziato; distinguendosi poi questi due poteri per manifestarsi, il Mahâtmâ rappresenta più specialmente il potere sacerdotale, ed il Mahânga il potere regale. Questa distinzione corrisponde a quella dei Brâhmani e degli Kshatriyas; ma, d'altronde, essendo «al di là delle caste», il Mahâtmâ ed il Mahânga, come pure il Brahâtmâ, hanno in se stessi un carattere sacerdotale e regale ad un tempo. A questo proposito, preciseremo anche un punto che non pare sia mai stato spiegato in modo soddisfacente, e che ciononostante è molto importante: facevamo allusione precedentemente ai «Re Magi» dell'Evangelo, come riunenti in sè i due poteri; diremo ora che questi personaggi misteriosi in realtà non rappresentano altro che i tre capi dell'Agarttha. Il Mahânga offre al Cristo l'oro e lo saluta come «Re»; il Mahâtmâ gli offre l'incenso e lo saluta come «Prete»; infine il Brahâtmâ gli offre la mirra il balsamo di incorruttibilità, immagine dell'Amritâ e lo saluta come «Profeta» o Maestro spirituale per eccellenza. L'omaggio così reso al Cristo nascente, nei tre mondi che sono i loro rispettivi domini, dai rappresentanti autentici della tradizione primordiale, è nel medesimo tempo, lo si noti bene, il pegno della perfetta ortodossia del Cristianesimo rispetto ad essa.
Naturalmente Ossendowski non aveva alcuna possibilità di mettersi in quest'ordine di considerazioni; ma, se avesse compreso certe cose più profondamente che non abbia fatto, avrebbe per lo meno potuto osservare la rigorosa analogia che esiste tra il ternario supremo dell'Agarttha e quello del Lamaismo come indica: il Dalai-Lama, che «realizza la santità (o la pura spiritualità) di Buddha», il Tashi-Lama, che «realizza la sua scienza» (non «magica» come pare che egli creda, ma piuttosto «teurgica»), ed il Bogdo-Khan, che «rappresenta la sua forza materiale e guerriera»; è esattamente la medesima ripartizione secondo i «tre mondi». Egli avrebbe anche potuto fare questa osservazione tanto più facilmente in quanto che gli era stato indicato che «la capitale di Agharti ricorda Lhassa dove il palazzo del Dalai-Lama, il Potala, si trova in cima ad una montagna ricoperta di templi e di monasteri»; questo modo di esprimere le cose è d'altronde erroneo in quanto rovescia i rapporti, perché, in realtà, è dell'immagine che si può dire che essa ricordi il suo prototipo, e non il contrario. Ora il centro del Lamaismo non può essere che un'immagine dell'effettivo «Centro del Mondo»; ma tutti i centri di questo genere presentano, quanto ai luoghi dove sono stabiliti, certe particolarità topo grafiche comuni, poiché queste particolarità, ben lungi dall'essere indifferenti, hanno un valore simbolico incontestabile e, inoltre, debbono essere in relazione con le leggi secondo le quali agiscono le «influenze spirituali»; si tratta di una questione appartenente propriamente a quella scienza tradizionale cui si può dare il nome di «geografia sacra». Vi è anche un'altra concordanza non meno notevole: Saint-Yves, descrivendo i varii gradi o circoli della gerarchia iniziatica, che sono in relazione con certi numeri simbolici, specialmente riferente si alle divisioni del tempo, termina dicendo che «il circolo più elevato e più prossimo al centro misterioso si compone di dodici membri che rappresentano l'iniziazione suprema e corrispondono, tra le altre cose, alla zona zodiacale». Ora questa costituzione è riprodotta da quel che si chiama il «consiglio circolare» del Dalai-Lama, formato dai dodici grandi Namshans (o Nomekhans); e si ritrova anche, d'altronde, sino in certe tradizioni occidentali, specialmente quelle che concernono i «Cavalieri della Tavola Rotonda». Aggiungeremo ancora che i dodici membri del circolo interiore dell'Agarttha, dal punto di vista dell'ordine cosmico, non rappresentano soltanto i dodici segni dello zodiaco, ma anche (saremmo tentati di dire «piuttosto», sebbene le due interpretazioni non si escludano) i dodici Adityas, che sono altrettante forme del Sole, in rapporto con questi medesimi segni zodiacali; e naturalmente, come Manu Vaivaswata è chiamato «figlio del Sole», il «Re del Mondo» ha anche il Sole tra i suoi emblemi. La prima conclusione che emerge da tutto questo è che esistono veramente dei legami ben stretti tra le descrizioni le quali, in tutti i paesi, si riferiscono a dei centri spirituali più o meno nascosti, o per lo meno difficilmente accessibili. La sola spiegazione plausibile che se ne possa dare è che, se queste descrizioni si riferiscono a dei centri diversi, come sembra bene accadere in certi casi, questi non sono per così dire che delle emanazioni di un centro unico e supremo, nel medesimo modo che tutte le tradizioni particolari non sono in somma che degli adattamenti della grande tradizione primordiale.


CAPITOLO V
IL SIMBOLISMO DEL GRAAL
Facevamo allusione or ora ai «Cavalieri della Tavola Rotonda»; non sarà fuor di proposito indicare qui cosa significa la «cerca del Graal», che, nelle leggende di origine celtica, è presentata come la loro principale funzione. In tutte le tradizioni è fatta in tal modo allusione a qualche cosa che, a partire da una certa epoca sarebbe andata perduta o sarebbe stata nascosta: è, per esempio, il Soma degli Hindu od il Haoma dei Persiani, la «bevanda d'immortalità», la quale ha, precisamente, un rapporto molto diretto con il Graal, poiché questo è, dicesi, il vaso sacro che contenne il sangue del Cristo, che è pure una «bevanda di immortalità». Altrove, il simbolismo è differente: Così, presso gli Ebrei, è la pronuncia del gran Nome divino che si è perduta; ma l'idea fondamentale è sempre la medesima, e vedremo più innanzi a che cosa essa corrisponda esattamente. Il San Graal è, dicesi, la coppa che servì alla Cena, e dove dipoi Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue e l'acqua che sfuggivano dalla ferita aperta nel fianco del Cristo dalla lancia del centurione Longino. Secondo la leggenda, questa coppa sarebbe stata trasportata in Gran Bretagna dallo stesso Giuseppe di Arimatea e da Nicodemo; e bisogna scorgere qui l'indicazione di un legame stabilito tra la tradizione celtica ed il Cristianesimo. La coppa, di fatti, rappresenta una parte assai importante nella maggior parte delle tradizioni antiche, e senza dubbio questo era in particolare il caso dei Celti; si deve anche notare che essa è frequentemente associata alla lancia, due simboli che sono allora in qualche modo il complemento l'uno dell'altro; ma questo ci allontanerebbe dal nostro argomento. Quel che forse mostra più nettamente il significato essenziale del Graal, è quanto è detto della sua origine: questa coppa sarebbe stata intagliata dagli Angeli in uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero al momento della sua caduta (5). Questo smeraldo ricorda in modo netto e significativo,       l'urnâ, la perla frontale che, nel simbolismo hindu (da cui è passata nel Buddhismo), tiene spesso il posto del terzo occhio di Shiva, rappresentando quello che può esser chiamato il «senso dell'eternità», come lo abbiamo già spiegato altrove. Del resto, è detto dipoi che il Graal fu confidato ad Adamo nel Paradiso terrestre, ma Adamo lo perdette a sua volta al momento della sua caduta, perché non poté portarlo con sè quando fu scacciato dall'Eden; e, nel significato che abbiamo indicato, la cosa diventa chiarissima. Di fatti, l'uomo, rimosso dal suo centro originale, si trovava da quel momento racchiuso nella sfera temporale; non poteva più raggiungere il punto unico da cui tutte le cose sono contemplate sotto l'aspetto dell'eternità. In altri termini, il possesso del «senso dell'eternità» è legato a ciò che tutte le tradizioni chiamano, come abbiamo ricordato più sopra, lo «stato primordiale», la cui restaurazione costituisce il primo stadio dell'iniziazione effettiva, essendo la condizione preliminare della conquista effettiva degli stati «sovra-umani». Il Paradiso terrestre, d'altronde, rappresenta propriamente il «Centro del Mondo»; e quel che diremo in seguito, sul senso originale della parola Paradiso, potrà farlo comprendere meglio ancora. Quanto segue può sembrare più enigmatico: Seth ottenne di rientrare nel Paradiso terrestre e poté così ricuperare il prezioso vaso; ora, il nome di Seth esprime le idee di fondamento e di stabilità, e, quindi, indica in certo modo la restaurazione dell'ordine primordiale distrutto dalla caduta dell'uomo. Si deve dunque comprendere che Seth e coloro che dopo di lui possedettero il Graal poterono in virtù di questo stesso possesso stabilire un centro spirituale destinato a sostituire il Paradiso perduto, centro che ne era come una immagine; ed allora questo possesso del Graal rappresenta la conservazione integrale della tradizione primordiale in tal centro spirituale. La leggenda, d'altronde, non dice dove né da chi il Graal fu conservato sino all'epoca del Cristo; ma l'origine celtica riconosciutale deve senza dubbio lasciare intendere che i Druidi vi ebbero una parte e che essi vanno contati tra i conservatori regolari della tradizione primordiale. La perdita del Graal, o di qualcheduno dei suoi equivalenti simbolici, è in somma la perdita della tradizione con tutto quel che essa comporta; a dire il vero, d'altronde, questa tradizione è piuttosto nascosta che perduta, o per lo meno essa non può essere perduta che per certi centri secondarii, quando essi cessano di essere in relazione diretta col centro supremo. Quanto a quest'ultimo, esso conserva sempre intatto il deposito della tradizione, e non risente i cambiamenti che sopravvengono nel mondo esteriore; è così che, secondo vari Padri della Chiesa, ed in particolare Sant'Agostino, il diluvio non ha potuto raggiungere il Paradiso terrestre, che è «l'abitazione di Henoch e la Terra dei Santi», ed il cui vertice «tocca la sfera lunare», vale a dire si trova al di là del dominio del cambiamento (identificato col «mondo sub-lunare»), nel punto di comunicazione della Terra e dei Cieli. Ma, come il Paradiso terrestre è divenuto inaccessibile, il centro supremo, che è in fondo la stessa cosa, può, nel corso di un certo periodo, essere esteriormente immanifestato, ed allora si può dire che là tradizione è perduta per l'assieme dell'umanità, perché essa non è conservata che in certi centri rigorosamente chiusi, e la massa degli uomini non vi partecipa più in. un modo cosciente ed effettivo, contrariamente a quel che accadeva nello stato originale; questa è precisamente la condizione dell'epoca attuale, il cui inizio risale d'altronde ben oltre i limiti accessibili alla storia ordinaria e «profana». Secondo i casi, la perdita della tradizione può dunque essere intesa in senso generale, oppure essere riferita all'oscuramento del centro spirituale che reggeva più o meno invisibilmente i destini d'un popolo particolare o di una civilizzazione determinata; occorre dunque, ogni volta che si trova il simbolismo che vi si riferisce, esaminare se deve essere interpretato nell'uno o nell'altro senso. Secondo quanto abbiamo ora detto, il Graal rappresenta nel medesimo tempo due cose che sono strettamente solidali l'un l'altra; chi possiede integralmente la «tradizione primordiale», chi è pervenuto al grado di conoscenza effettiva essenzialmente implicito in questo possesso, è di fatti, per ciò stesso, reintegrato nella pienezza dello «stato primordiale». A queste due cose, «stato primordiale» e «tradizione primordiale», si riferisce il duplice senso inerente alla stessa parola Graal, perché, con una di quelle assimilazioni verbali che hanno spesso nel simbolismo una funzione non trascurabile, e che hanno d'altronde delle ragioni assai più profonde di quanto non si immaginerebbe a prima vista, il Graal è simultaneamente un vaso (grasale) ed un libro (gradale o graduale); quest'ultimo aspetto designa manifestamente la tradizione, mentre l'altro concerne più direttamente lo stato stesso. Non abbiamo l'intenzione di entrare qui nei particolari della leggenda del San Graal, benchè essi abbian tutti anche un valore simbolico, nè di seguire la storia dei « Cavalieri della Tavola Rotonda n e delle loro gesta; ricorderemo solamente che la «Tavola Rotonda» costruita dal re Arturo sui piani di Merlino, era destinata a ricevere il Graal quando uno dei Cavalieri fosse pervenuto a conquistarlo e l'avesse apportato dalla Gran Bretagna in Armorica. Anche questa tavola è un simbolo verosimilmente assai antico, uno di quelli che furono sempre associati all'idea dei centri spirituali, conservatori della tradizione; la forma circolare della tavola d'altronde è formalmente legata al ciclo zodiacale dalla presenza attorno ad essa di dodici personaggi principali, particolarità la quale si ritrova, come dicevamo precedentemente, nella costituzione di tutti i centri di cui ci stiamo occupando. Vi è ancora un simbolo che si collega ad un altro aspetto della leggenda del Graal, e che merita una speciale attenzione: è quello di Montsalvat (letteralmente «Monte della Salute»), il picco situato «sulle lontane rive cui nessun mortale può avvicinarsi», rappresentato come ergentesi in mezzo al mare, in una regione inaccessibile, e dietro il quale si leva il Sole. E' simultaneamente l'«isola sacra» e la «montagna polare», due simboli equivalenti di cui dovremo riparlare ancora nel seguito di questo studio; è la «terra d'immortalità» che si identifica naturalmente col Paradiso terrestre. Per ritornare al Graal, è facile rendersi conto che il suo primo significato è in fondo il medesimo di quello che ha il vaso sacro dovunque lo si ritrova, e che ha, in particolare, in Oriente, la coppa sacrificale contenente originariamente, come indicavamo più sopra, il Soma vedico od il Haoma mazdeico, vale a dire la «bevanda d'immortalità» che conferisce o restituisce il «senso dell'eternità» a coloro che la ricevono con le disposizioni richieste. Non potremmo, senza escire dal nostro soggetto, dilungarci maggiormente sul simbolismo della coppa e di ciò che essa contiene; bisognerebbe, per svilupparlo convenientemente, consacrarvi tutto uno studio apposito; ma l'osservazione che abbiamo fatta ci conduce ad altre considerazioni che hanno la massima importanza per quanto ora ci proponiamo.
                                               
CAPITOLO VI
MELKI-TSEDEQ
Nelle tradizioni orientali è detto che il Soma, ad una certa epoca, non fu più conosciuto, di modo che fu necessario sostituirgli, nei riti sacrificali, un'altra bevanda, che non era più che una figura del Soma primitivo; questa parte fu tenuta principalmente dal vino, ed è a questo che si riferisce, presso i greci, una gran parte della leggenda di Dionisio. Ora il vino è preso frequentemente per rappresentare la vera tradizione iniziatica: in ebraico, le parole iain, «vino», e sod, «mistero», si sostituiscono l'una con l'altra come aventi il medesimo numero; presso i çufi, il vino simboleggia la conoscenza esoterica, la dottrina riservata all'élite e che non è adatta per tutti gli uomini, come non tutti possono bere il vino impunemente. Risulta di qui che l'uso del vino in un rito conferisce al rito un carattere nettamente iniziatico; tale è in particolare il caso del sacrificio «eucaristico» di Melchisedec ed è questo il punto essenziale sul quale ora dobbiamo soffermarci. Il nome di Melchisedec, o piuttosto Melki-Tsedeq, non è altra cosa, di fatti, che il nome sotto il quale nella tradizione giudaico-cristiana è espressamente designata la funzione di «Re del Mondo». Abbiamo un poco esitato ad enunciare questo fatto, che comporta la spiegazione d'uno dei passi più enigmatici della Bibbia ebraica, ma, una volta presa la decisione di trattare questa questione del «Re del Mondo», non ci era veramente possibile di passarlo sotto silenzio. Potremmo riprendere qui la parola pronunciata a questo proposito da San Paolo: «Abbiamo, su questo soggetto, molte cose da dire, e delle cose, difficili a spiegare, poiché voi siete diventati tardi a comprendere». Ecco per prima cosa il testo stesso del passo biblico di cui si tratta: «E Melki-Tsedeq, re di Salem, fece apportare del pane e del vino; ed egli era prete del Dio Altissimo (El-Elion). Ed egli benedisse Abramo, dicendo: Benedetto sia Abramo dal Dio Altissimo, possessore dei Cieli e della Terra: e benedetto sia il Dio Altissimo che ha consegnato i tuoi nemici tra le tue mani. Ed Abramo gli dette la decima di tutto quello che aveva preso». Melki-Tsedeq è dunque re e prete contemporaneamente: il suo nome significa «re di Giustizia», ed egli è nel medesimo tempo re di Salem, vale a dire della «Pace»; per prima cosa, ritroviamo dunque qui la «Giustizia» e la «Pace»; vale a dire precisamente i due attributi fondamentali del «Re del Mondo». Bisogna osservare che la parola Salem, contrariamente all'opinione comune, non ha mai in realtà designato una città, ma che, se la si prende per il nome simbolico della residenza di Melki-Tsedeq, può essere considerata come un equivalente del termine Agarttha. In ogni caso, è un errore scorgere in questa parola il nome primitivo di Gerusalemme, perchè questo nome era Jébus; al contrario, se a questa città fu dato il nome di Gerusalemme quando gli Ebrei vi stabilirono un centro spirituale è per indicare che da quel momento essa era come un'immagine della vera Salem; ed è da notare che il Tempio fu edificato da Salomone, il cui nome (Shlomoh), pure derivato da Salem, significa «il Pacifico». Ecco ora in quali termini San Paolo commenta quello che è detto di Melki-Tsedeq: «Questo Melchisedec, re di Salem, prete del Dio Altissimo, che andò incontro ad Abraham quando ritornò dalla sconfitta dei tre re, che lo benedisse, ed a cui Abraham dette la decima di tutto il bottino; che è innanzi tutto, secondo il significato del suo nome, re di Giustizia, eppoi re di Salem, vale a dire di Pace; che è senza padre, senza madre, senza genealogia, che non ha nè principio nè fine della sua vita, ma che è in tal modo fatto simile al Figlio di Dio, questo Melchisedec rimane prete a perpetuità». Ora Melki-Tsedeq è rappresentato come superiore ad Abraham, perché lo benedisse, e, «indubbiamente è l'inferiore che è benedetto dal superiore»; e, dal canto suo, Abraham riconobbe questa superiorità, perché gli dette la decima, che è il contrassegno della sua dipendenza. Si ha qui una vera «investitura», quasi nel senso feudale della parola, ma con la differenza che qui si tratta di una investitura spirituale; e possiamo aggiungere che qui trovasi il punto di giunzione della tradizione ebraica con la grande tradizione primordiale. La «benedizione» di cui si è parlato è propriamente la comunicazione di una «influenza spirituale», della quale Abraham diviene oramai partecipe; e si può osservare che la formula adoperata mette Abraham in diretta relazione con il «Dio Altissimo», invocato da questo stesso Abraham identificando lo con Jehovah (11). Se Melki-Tsedeq è così superiore ad Abraham, è perché l'«Altissimo» (Elion), che è il Dio di Melki-Tsedeq, è egli stesso superiore all'«Onnipotente» (Shaddai), che è il Dio di Abraham, o in altri termini, perché il primo di questi due nomi rappresenta un aspetto divino più elevato del secondo. D'altra parte, ciò che è estremamente importante, e che non pare sia mai stato segnalato, è che El Elion è l'equivalente di Emmanuel, avendo questi due nomi esattamente il medesimo numero; e questo collega direttamente la storia di Melki-Tsedeq a quella dei «Re Magi», di cui abbiamo precedentemente spiegato il significato. Di più, si può anche vedervi questo: il sacerdozio di Melki-Tsedeq è il sacerdozio di El Elion; il sacerdozio cristiano è quello di Emmanuel; se dunque El Elion è Emmanuel, questi due sacerdozii non ne formano che uno, ed il sacerdozio cristiano, che d'altronde comporta essenzialmente l'offerta eucaristica del pane e del vino, è veramente «secondo l'ordine di Melchisedec». La tradizione giudaico-cristiana distingue due sacerdozi, l'uno «secondo l'ordine di Aronne», l'altro «secondo l'ordine di Melchisedec»; e questo è superiore a quello, come lo stesso Melchisedec è superiore ad Abraham, da cui è discesa la tribù di Levi e, per conseguenza, la famiglia di Aronne. Questa superiorità è nettamente affermata da San Paolo, che dice: «Lo stesso Levi, che percepisce la decima (sul popolo di Israele), la ha pagata, per così dire, per mezzo di Abraham». Non dobbiamo qui dilungarci maggiormente sopra il significato di questi due sacerdozii; ma citeremo ancora quest'altra parola di San Paolo: «Qui (nel sacerdozio levitico), sono degli uomini mortali, che percepiscono le decime; ma là, è un uomo di cui è attestato ch'egli è vivente». Quest'«uomo vivente», che è Melki-Tsedeq, è Manu, che permane difatti «perpetuamente» (in ebraico le olam), vale a dire per tutta la durata del suo ciclo (Manvantara) o del mondo che egli regge specialmente. E' per questo che egli è «senza genealogia», perché la sua origine è «non umana», perché egli stesso è il prototipo dell'uomo; ed è ben realmente «fatto simile al Figlio di Dio», perché, per la legge che egli formula, è, per questo mondo, l'espressione e l'immagine del Verbo divino. Vi sono ancora delle altre osservazioni da fare, e innanzi tutto questa: nella storia dei «Re magi», vediamo tre personaggi distinti, che sono i tre capi della gerarchia iniziatica; in quella di Melki-Tsedeq, non ne vediamo che uno, il quale però può riunire in sè degli aspetti corrispondenti alle tre medesime funzioni. E' in questo che taluni hanno distinto Adoni-Tsedeq, il «Signore di Giustizia», che in qualche modo si sdoppia in Kohen-Tsedeq, il «Prete di Giustizia» e Melki-Tsedeq, il «Re di Giustizia»; questi tre aspetti difatti possono essere considerati come riferentisi rispettivamente alle funzioni del Brahâtmâ, del Mahâtma e del Mahânga (18). Sebbene Melki-Tsedeq allora non sia propriamente che il nome del terzo aspetto, esso d'ordinario è applicato per estensione all'assieme dei tre, e, se è in tal modo applicato di preferenza agli altri, si è perché la funzione che esso esprime è la più prossima al mondo esteriore, e quindi quella manifestata più immediatamente. Del resto, si può osservare che l'espressione di «Re del Mondo», come pure quella di «Re di Giustizia», non fa allusione direttamente che al potere regale; e, d'altra parte, si trova in India anche la designazione di Dharma-Râja, che è equivalente alla lettera a quella di Melki-Tsedeq. Se ora prendiamo il nome di Melki-Tsedeq, nel suo senso più stretto, gli attributi proprii del «Re di Giustizia» sono la bilancia e la spada; e questi attributi sono pure quelli di Mikael, considerato come l'«Angelo del Giudizio». Questi due emblemi rappresentano rispettivamente, nell'ordine sociale, le due funzioni amministrativa e militare, che appartengono propriamente agli Kshatriyas, e che sono i due elementi costitutivi del potere regale. Sono anche, geroglificamente, i due caratteri che formano la radice ebraica ed araba Haq, che significa simultaneamente «Giustizia» e «Verità», e che, presso varii popoli antichi, ha servito precisamente per designare la regalità. Haq è la potenza che fa regnare la Giustizia, vale a dire l'equilibrio simboleggiato dalla bilancia, mentre la potenza stessa lo è dalla spada, ed è appunto questo che caratterizza la funzione essenziale del potere regale; e, d'altra parte, è anche, nell'ordine spirituale, la forza della verità. Bisogna aggiungere d'altronde che esiste anche una forma raddolcita di questa radice Haq, ottenuta sostituendo il segno della forza spirituale a quello della forza materiale; e questa forma Hak designa propriamente la «Saggezza» (in ebraico Hokmah), di sorta che essa si addice più specialmente all'autorità sacerdotale, come l'altra al potere regale. Questo è anche confermato dal fatto che le due forme corrispondenti si ritrovano, con dei sensi similari, per la «radice kan», la quale, in lingue assai diverse significa «potere» o «potenza», ed anche «conoscenza»; kan è sopratutto il potere spirituale od intellettuale, identico alla Saggezza (da cui kohen, «prete» in ebraico) e qan è il potere materiale (donde varie voci esprimenti l'idea di «possesso», ed in particolare il nome di Qain). Queste radici e le loro derivazioni potrebbero senza dubbio prestarsi ancora a molte altre considerazioni, ma noi dobbiam limitarci a quanto si riferisce più direttamente al soggetto di questo studio. Per completare quanto precede, torneremo a quel che la Cabala ebraica dice della Shekinah: essa è rappresentata nel «mondo inferiore» dall'ultima delle dieci Sephiroth, che è chiamata Malkuth, vale a dire il «Regno», designazione che è abbastanza degna di nota dal punto di vista dal quale qui ci poniamo; ma lo è ancora di più il fatto che, tra i sinonimi dati talora a Malkuth, si trova Tsedeq, il «Giusto». Questo raccostamento di Malkuth e di Tsedeq, o della Regalità (il governo del Mondo) e della Giustizia, si ritrova precisamente nel nome di Melki-Tsedeq. Si tratta qui della Giustizia distributiva e propriamente equilibrante, nella «colonna di mezzo» dell'albero sephirotico; bisogna distinguerla dalla Giustizia opposta alla Misericordia ed identificata con il Rigore, nella «colonna di sinistra», perché sono due aspetti differenti (e d'altronde, in ebraico, esistono due parole per designarli: la prima è Tsedaqah, e la seconda è Din). E il primo di questi due aspetti che è la Giustizia nel senso più stretto ed ad un tempo più completo implicando l'idea di equilibrio, è legata indissolubilmente alla Pace. Malkuth è «il serbatoio dove confluiscono le acque che vengono dal fiume dall'alto, vale a dire tutte le emanazioni (grazie o influenze spirituali) che essa sparge in abbondanza» (27). Questo «fiume dall'alto» e le acque che ne discendono ricordano stranamente la parte attribuita al fiume celeste Gangâ nella tradizione hindu; e si potrebbe anche osservare che la Shakti, di cui Gangâ è un aspetto, non è priva di certe analogie con la Shekinah, non foss'altro che in ragione della funzione «provvidenziale» che è loro comune. Il serbatoio delle acque celesti è naturalmente identico al centro spirituale del nostro mondo: di là si dipartono i quattro fiumi del Pardes, dirigendosi verso i quattro punti cardinali. Per gli Ebrei, questo centro spirituale si identifica alla collina di Sion, a cui applicano l'appellativo di «Cuore del mondo», d'altronde comune a tutte le «Terre Sante», e che, per essi, diviene in tal modo l'equivalente del Mêru degli hindu o dell'Alborj dei Persiani. «Il Tabernacolo della Santità di Jehovah, la residenza della Shekinah, è il Santo dei Santi il quale è il cuore del Tempio, che è esso stesso il centro di Sion (Gerusalemme), come la Santa Sion è il centro della Terra d'Israele, come la Terra d'Israele è il centro del mondo». Si può anche spinger le cose ancor più lontano: non solamente tutto quello che abbiam qui enumerato, prendendolo in ordine inverso, ma anche, dopo il Tabernacolo nel Tempio, l'Arca dell'Alleanza nel Tabernacolo, sull'Arca stessa dell'Alleanza, il luogo di manifestazione della Shekinah (tra i due Kerubim), rappresentano come altrettante approssimazioni successive del «Polo spirituale». E' pure in questa maniera che Dante presenta Gerusalemme come il «polo spirituale», come abbiamo avuto occasione di spiegarlo altrove; ma, quando si esce dal punto di vista propriamente ebraico, questo diviene sopratutto simbolico e non costituisce più una localizzazione nel senso stretto di questa parola. Tutti i centri spirituali secondarii, constituiti in vista di adattazione della tradizione primordiale a delle condizioni determinate, sono, come abbiamo già mostrato, delle immagini del centro supremo; Sion può non essere in realtà che uno di questi centri secondarii, e può ciononostante identificarsi simbolicamente col centro supremo in virtù di questa simiglianza. Gerusalemme è effettivamente, come indica il suo nome, un'immagine della vera Salem; quel che abbiamo detto e quel che diremo ancora della «Terra Santa», che non è soltanto la Terra d'Israele, permetterà di comprenderlo senza difficoltà. A questo proposito, un'altra espressione notevolissima, come sinonimo di «Terra Santa», è quella di «Terra dei Viventi»: Essa designa manifestatamente il «soggiorno di immortalità», di modo che, nel suo senso proprio e rigoroso, essa si applica al Paradiso terrestre o ai suoi equivalenti simbolici; ma questo appellativo è stato anche trasportato alle «Terre Sante» secondarie, ed in particolare alla Terra d'Israele. E' detto che la «Terra dei viventi comprende sette terre», ed il Vulliaud nota a questo proposito che «questa terra è Chanaan nel quale vi erano sette popoli». Senza dubbio, questo è esatto nel senso letterale; ma simbolicamente, queste terre potrebbero benissimo, come quelle di cui è questione d'altra parte nella tradizione islamica, corrispondere ai sette dwîpa, che, secondo la tradizione hindu, hanno il Mêru per centro comune, e sopra i quali ritorneremo più innanzi. E così pure, quando gli antichi mondi o le creazioni anteriori alla nostra sono raffigurati dai «sette re di Edom» (il numero settenario trovandosi qui in rapporto con i sette «giorni» della Genesi), si ha là una rassomiglianza evidente con le ere dei sette Manu contate dall'inizio del Kalpa sino all'epoca attuale.


CAPITOLO VII
LUZ O IL SOGGIORNO D'IMMORTALITÀ
Le tradizioni relative al «mondo sotterraneo» si ritrovano presso un gran numero di popoli; noi non abbiamo l'intenzione di riunirle qui tutte quante, tanto più che talune non sembra abbiano una relazione molto diretta con la questione che ci interessa. Ciononostante, si potrebbe osservare, in una maniera generale, che il «culto delle caverne» è sempre più o meno legato all'idea di «luogo interiore» o di «luogo centrale», e che, da questo punto di vista, il simbolo della caverna e quello del cuore sono tra loro assai prossimi. D'altra parte in Asia centrale come in America e forse anche altrove, esistono realmente delle caverne e dei sotterranei dove certi centri iniziatici hanno potuto mantenersi da molti secoli; ma, astrazion fatta da questo, vi è, in tutto quello che è stato, riportato su questo argomento, una parte simbolica che non è molto difficile districare; e possiamo pensare che sono precisamente delle ragioni di ordine simbolico che hanno determinato la scelta dei luoghi sotterranei per lo stabilimento di questi centri iniziatici, assai più che dei motivi di semplice prudenza. Fra le tradizioni cui facevano or ora allusione, ve n'è una che presenta un interesse particolare: essa trovasi nel giudaismo e concerne una misteriosa città chiamata Luz...  uesto nome era originariamente quello del luogo dove Giacobbe ebbe il sogno in seguito al quale egli lo chiamò Beith-El, vale a dire «casa di Dio» (4); torneremo più innanzi su questo punto. E' detto che l'«Angelo della Morte» non può penetrare in questa città e non vi ha alcun potere; e, con un raccostamento abbastanza singolare, ma assai significativo, taluni la situano presso l'Alborj, che è parimenti, per i Persiani, il «soggiorno di immortalità». Presso di Luz, vi è, dicesi, un mandorlo (anche esso chiamato luz in ebraico) alla cui base vi è un foro attraverso il quale si penetra in un sotterraneo (5); e questo sotterraneo conduce alla città stessa, che è intieramente nascosta. La parola Luz, nelle sue varie accezioni, pare d'altronde derivi da una radice designante tutto quello che è nascosto, coperto, avviluppato, silenzioso, secreto: ed è degno di nota che le parole designanti il cielo hanno primitivamente il medesimo significato. Si riaccosta ordinariamente coelum al greco Koilon, «cavo» (il che può anche avere un rapporto con la caverna, tanto più che Varrone indica questo avvicinamento in questi termini: a cavo coelum); ma bisogna anche osservare che la forma più antica e più corretta sembra sia caelum, che ricorda molto da vicino la parola caelare, «nascondere». D'altra parte, in sanscrito Varuna viene dalla radice var, «coprire» (che è parimente il senso della radice Kal cui si riattaccano il latino celare, altra forma di caelare, ed il suo sinonimo greco Kaluptein; ed il greco Ouranos non è che un'altra forma del medesimo nome, poiché var si trasforma facilmente in ur. Queste parole possono dunque significare «quello che copre», «quello che nasconde», e questo ultimo senso è doppio: è quello che è nascosto ai sensi, il dominio soprasensibile; ed è anche, nei periodi di occultazione, la tradizione che cessa di essere manifestata esteriormente ed apertamente, poiché allora il «mondo celeste n diviene «il mondo sotterraneo» Vi è ancora da stabilire, sotto un altro rapporto, un raccostamento col cielo: Luz è chiamata la «città celeste n e questo colore celeste è quello dello zaffiro. In India, si dice che il colore celeste dell'atmosfera è prodotto dalla riflessione della luce sopra una delle faccie del Mêru, la faccia meridionale, che guarda verso l'Jambu-dwîpa, e che è fatta di zaffiro; è facile capire che questo si riferisce al medesimo simbolismo. Lo Jambu-dwîpa non è solamente l'India come si crede ordinariamente, ma rappresenta in realtà tutto l'assieme del mondo terrestre nel suo stato attuale; e, di fatti, si può considerare questo mondo come situato tutto intiero al sud del Mêru, perchè questi è identificato con il polo settentrionale. I sette dwîpas (letteralmente «isole» o «continenti») emergono successivamente nel corso di certi periodi ciclici, di modo che ciascuno di essi è il mondo terrestre considerato nel corrispondente periodo; essi formano un loto, il cui centro è il Mêru, rapporto al quale sono orientati secondo le sette regioni dello spazio. Vi è dunque una faccia del Mêru che è rivolta verso ciascuno dei sette dwîpas; se ciascuna di queste faccie ha uno dei colori dell'arcobaleno, la sintesi di questi sette colori è il bianco, che dovunque è attribuito all'autorità spirituale suprema, e che è il colore del Mêru considerato in se stesso (vedremo che effettivamente il Mêru è designato come la «montagna bianca»), mentre gli altri rappresentano soltanto i suoi aspetti rispetto ai diversi dwîpas. Sembra che, per il periodo di manifestazione di ogni dwîpa, vi sia una posizione diversa del Mêru; ma, in realtà, esso è immutabile, poiché è il centro, e quella che è cambiata da un periodo all'altro è l'orientazione del mondo terrestre rispetto ad esso. Torniamo alla parola ebraica luz, i cui varii significati sono assai degni di attenzione: questa parola ha ordinariamente il senso di «mandorla» (ed anche di «mandorlo» designando per estensione tanto l'albero quanto il suo frutto) o di «nocciolo»; ora il nocciolo è quanto vi ha di più interno e di più nascosto, ed è intieramente chiuso, donde l'idea di «inviolabilità» che si ritrova nel nome dell'Agarttha). La stessa parola luz è pure il nome dato ad una particella corporea indistruttibile, rappresentata simbolicamente come un osso durissimo, ed alla quale l'anima rimarrebbe legata dopo la morte e sino alla resurrezione. Come il nocciolo contiene il germe, e come l'osso contiene il midollo, questo luz contiene gli elementi virtuali necessarii alla restaurazione dell'essere; e questa restaurazione si opererà sotto l'influenza della «rugiada celeste», che farà rivivere le ossa disseccate; cosa a cui fa allusione, nel modo più netto, questa parola di San Paolo: «Seminato nella corruzione, esso risusciterà nella gloria». Qui come sempre, la «gloria» si riferisce alla Shekinah, considerata nel mondo superiore, e con la quale la «rugiada celeste» ha una stretta relazione, come ci se ne è potuti rendere conto precedentemente. Il luz, essendo imperituro, è, nell'essere umano, il «nocciolo di immortalità», come il luogo designato dallo stesso nome è il «soggiorno d'immortalità»: là si ferma, nei due casi, i1 potere dell'«Angelo della Morte». E' in qualche modo l'uovo o l'embrione dell'Immortale; esso può anche essere paragonato alla crisalide da cui deve uscire la farfalla, paragone che traduce esattamente la sua funzione rispetto alla resurrezione. Il luz viene situato verso l'estremità inferiore della colonna vertebrale; questo può sembrare strano, ma si illumina mediante un ravvicinamento con quanto la tradizione hindu dice della forza chiamata Kundalinî, che è una forma della Shakti considerata come immanente all'essere umano. Questa forza è rappresentata sotto la figura di un serpente attorcigliato intorno a se stesso in una regione dell'organismo sottile corrispondente precisamente anche all'estremità inferiore della colonna vertebrale; così almeno accade per l'uomo ordinario; ma, per l'effetto di pratiche quali quelle del Hatha-Yoga, essa si sveglia, si dispiega, e si innalza attraverso le «ruote» (chakras) o «loti» (kamalas) che rispondono ai varii plessi, per pervenire alla regione corrispondente al «terzo occhio», vale a dire l'occhio frontale di Shiva. Questo stadio rappresenta la restituzione dello «stato primordiale», in cui l'uomo ricupera il «senso dell'eternità» ed ottiene, per tal via, quella che altrove abbiamo chiamato l'immortalità virtuale. Fin qui, siamo ancora in uno stato umano; in una fase ulteriore, Kundalini raggiunge finalmente la corona della testa, e quest'ultima fase si riferisce alla conquista effettiva degli stati superiori dell'essere. Quel che sembra risulti da questo avvicinamento, è che la localizzazione del luz nella parte inferiore dell'organismo si riferisce solamente alla condizione dell'«uomo decaduto»; e, per l'umanità terrestre considerata nel suo assieme, accade lo stesso per la localizzazione del centro spirituale supremo nel «mondo sotterraneo» 


CAPITOLO VIII
IL CENTRO SUPREMO NASCOSTO DURANTE IL KALI-YUGA
L'Agarttha, dicesi difatti, non fu sempre sotterranea, e non lo rimarrà sempre; verrà un tempo in cui, secondo le parole riportate da Ossendowski, «i popoli di Agharti usciranno dalle loro caverne ed appariranno sopra la superficie della terra». Prima della sua sparizione dal mondo visibile, questo centro portava un altro nome, perché quello di Agarttha, che significa «inafferrabile» o «inaccessibile» (ed anche inviolabile, perché è il «soggiorno della Pace», Salem), non sarebbe allora stato adatto; Ossendowski precisa che è divenuto sotterraneo «più di seimila anni fa», ed accade che questa data corrisponde, con una approssimazione abbastanza sufficiente, all'inizio del KaliYuga o «età nera », l'«età del ferro» degli antichi occidentali, l'ultimo dei quattro periodi in cui si divide il Manvantara; la sua riapparizione deve dunque coincidere con la fine del medesimo periodo. Abbiamo parlato più sopra delle allusioni fatte da tutte le tradizioni a qualche cosa che sarebbe perduto o nascosto, e che si rappresenta sotto simboli diversi; ciò, quando lo si prenda nel suo senso generale, quello concernente tutto l'assieme della umanità terrestre, si riferisce precisamente alle condizioni del Kali-Yuga. Il periodo attuale è dunque un periodo di oscuramento e di confusione; le sue condizioni sono tali che, sin tanto che persisteranno, la conoscenza iniziatica deve necessariamente rimanere nascosta, donde il carattere dei Il Misteri» dell'antichità detta Il storica» (che non risale neppure sino al principio di questo periodo) e delle organizzazioni segrete di tutti i popoli: organizzazioni che danno una iniziazione effettiva là dove sussiste ancora una vera dottrina tradizionale, ma che non ne offrono più che l'ombra quando lo spirito di questa dottrina ha cessato di vivificare i simboli i quali non ne sono che la rappresentazione esteriore, e questo perché, per diverse ragioni, ogni legame cosciente col centro spirituale del mondo ha finito coll'essere rotto, il che è il senso più particolare della perdita della tradizione, il senso concernente specialmente tale o talaltro centro spirituale, che cessa di essere in relazione diretta e effettiva col centro supremo. Si deve dunque, come lo dicevamo già precedentemente, parlare di qualche cosa che è nascosto piuttosto che veramente perduto, poiché non è perduto per tutti e taluni lo posseggono ancora integralmente; e, se così è, altri hanno sempre la possibilità di ritrovarlo, purché lo cerchino come si conviene, vale a dire purché la loro intenzione sia diretta in tal guisa che, mediante le vibrazioni armoniche che essa risveglia secondo la legge delle « azioni e reazioni concordanti», essa possa metterli in effettiva comunicazione spirituale con il centro supremo. Questa direzione dell'intenzione ha d'altronde in tutte le forme tradizionali la sua rappresentazione simbolica; voglian parlare dell'orientazione rituale: questa, difatti, è propriamente la direzione verso un centro spirituale, che, quale si sia, è sempre un'immagine del vero «Centro del Mondo». Ma a misura che si avanza nel Kali-Yuga, l'unione con questo centro, vieppiù chiuso e nascosto, diviene più difficile, nel medesimo tempo che divengono più rari i centri secondarii che lo rappresentano esteriormente; eppure, quando questo periodo terminerà, la tradizione dovrà essere nuovamente manifestata nella sua integralità perché il principio di ogni Manvantara, coincidendo con la fine del precedente, implica necessariamente, per l'umanità terrestre, il ritorno allo «stato primordiale». In Europa, ogni legame stabilito coscientemente con il centro per mezzo di organizzazioni regolari è attualmente rotto, ed è così già da parecchi secoli; d'altronde, questa rottura non si è compiuta d'un tratto solo, ma in parecchie fasi successive. La prima di queste fasi rimonta all'inizio del XIV secolo; quel che abbiam già detto altrove degli Ordini di cavalleria può far comprendere che una delle principali loro funzioni era quella di assicurare una comunicazione tra l'Oriente e l'Occidente, comunicazione di cui è possibile di afferrare la vera portata se si osserva che il centro di cui qui parliamo è sempre stato descritto, almeno in riguardo ai tempi storici, come situato dalla parte di Oriente. Ciononostante, dopo la distruzione dell'Ordine del Tempio, il Rosacrucianismo, o ciò cui dovevasi in seguito dare tal nome, continuò ad assicurare il medesimo legame, benchè in maniera più dissimulata. La Rinascenza e la Riforma segnarono una nuova fase critica, ed infine, secondo quanto sembra indicare Saint-Yves, la rottura completa avrebbe coinciso con i trattati di Westfalia che, nel 1648, terminarono la guerra dei Trent'anni. Ora è notevole che parecchi autori abbiano affermato precisamente che, poco dopo la guerra dei Trent'anni, i veri Rosacroce abbiano lasciato l'Europa per ritirarsi in Asia; e ricorderemo, a questo proposito, che gli Adepti rosacruciani erano in numero di dodici, come i Membri del cerchio più interiore dell'Agarttha, e conformemente alla costituzione comune a tanti centri spirituali formati ad immagine di questo centro supremo. A partire da questa ultima epoca, il deposito della conoscenza iniziatica effettiva non è più custodito realmente da alcuna organizzazione occidentale; così Swedenborg dichiara che è oramai tra i Savii del Thibet e della Tartaria che bisogna cercare la «Parola perduta»; e, dal suo lato, AnnaCaterina Emmerich ha la visione di un luogo misterioso che essa chiama la «Montagna dei Profeti», e che essa situa nelle medesime regioni. Aggiungiamo che è dalle informazioni frammentarie che M.me Blavatsky poté raccogliere su questo argomento, senza d'altronde comprenderne veramente il significato, che nacque in essa l'idea della « Gran Loggia Bianca», che potremmo chiamare, non più un'immagine, ma semplicemente, una caricatura od una parodia immaginaria dell'Agartha.


CAPITOLO IX
L'OMPHALOS E I BETILI
In base a quanto riporta Ossendowski, il «Re del Mondo» apparve un tempo parecchie volte, nell'India e nel Siam, «benedicendo il popolo con un pomo di oro sormontato da un agnello»; e questo particolare prende tutta la sua importanza quando lo si riaccosta a quel che Saint-Yves dice del «Ciclo dell'Agnello e dell'Ariete». Da un altro lato, e questo è ancora più degno di nota, nella simbolica cristiana esistono innumerevoli rappresentazioni dell'Agnello sopra una montagna da cui discendono quattro fiumi, che sono evidentemente identici ai quattro fiumi del Paradiso terrestre. Ora noi abbiam detto che l'Agarttha, anteriormente all'inizio del Kali-Yuga, portava un altro nome, e questo nome era quello di Paradêsha, che, in sanscrito, significa «contrada suprema», il che si applica bene al centro spirituale per eccellenza, designato anche come il «Cuore del Mondo»; è da questa parola che i Caldei hanno fatto Pardes e gli occidentali Paradiso. Tale è il senso originale di quest'ultima parola, e questo deve finire di far comprendere perché noi dicevamo precedentemente che, sotto una forma o sotto un'altra, quello di cui trattasi sempre è la medesima cosa del Pardes della Cabala Ebraica. D'altra parte, riportandosi a quel che abbiamo spiegato sul simbolismo del «Polo», è facile di vedere anche che la montagna del Paradiso terrestre è identica alla «montagna polare» di cui è questione, sotto nomi diversi, in quasi tutte le tradizioni: noi abbiamo già menzionato il Mêru degli Hindu e l'Alborj dei Persiani, come pure il Monsalvato della leggenda occidentale del Graal; citeremo anche la montagna di Qâf degli Arabi, ed anche l'Olimpo dei Greci, che per molti rispetti ha il medesimo significato. Si tratta sempre di una regione che, come il Paradiso terrestre, è divenuta inaccessibile all'umanità ordinaria, e che è situata al di là della portata di tutti i cataclismi che mettono il mondo a soqquadro alla fine di certi periodi ciclici. Questa regione è veramente la «contrada suprema»; del resto, secondo certi testi vedici ed avestici, la sua situazione sarebbe stata primitivamente polare, anche nel senso letterale di questa parola; e, qualunque possa essere la sua localizzazione a traverso le varie fasi della storia dell'umanità terrestre, nel senso simbolico essa rimane sempre polare, poiché essa rappresenta essenzialmente l'asse fisso attorno a cui si compie la rivoluzione di tutte le cose. La montagna raffigura naturalmente il «Centro del Mondo» prima del Kali-Yuga, vale a dire quando in qualche modo esisteva apertamente e non era ancora sotterraneo; essa corrisponde dunque a quella che potrebbe esser detta la sua situazione normale, al di fuori del periodo oscuro le cui speciali condizioni implicano una specie di rovesciamento dell'ordine stabilito. Bisogna aggiungere d'altronde che, a parte queste considerazioni riferentisi alle leggi cicliche, i simboli della montagna e della caverna hanno l'uno e l'altro la loro ragione di essere, e che esiste tra di loro un vero complementarismo; inoltre, la caverna può essere considerata come situata nell'interno stesso della montagna, od immediatamente al di sotto di questa. Vi sono ancora degli altri simboli che, nelle tradizioni antiche, rappresentano il «Centro del Mondo»; uno dei più notevoli è forse quello dell'Omphalos, che si ritrova ugualmente presso quasi tutti i popoli. La parola greca omphalos significa «ombelico», ma designa anche, in una maniera generale, tutto quello che è centro, e più specialmente il mozzo di una ruota; in sanscrito, la parola ruibhi ha similmente queste diverse accezioni, ed accade la stessa cosa, nelle lingue celtiche e germaniche, coi derivati della medesima radice, che vi si trova sotto le forme nab e nav. D'altra parte, in gallese, la parola nav o naf, che evidentemente è identica a queste ultime, ha il senso di «capo» e si applica anche a Dio; è dunque l'idea del Principio centrale che qu~ viene espressa. Il senso di mozzo ha d'altronde, a questo proposito, un'importanza tutta speciale, perché la ruota è dappertutto un simbolo del Mondo che compie la sua rotazione attorno ad un punto fisso, simbolo che va dunque riaccostato a quello dello swastika; ma, in questo, non è tracciata la circonferenza che rappresenta la manifestazione, di modo che è il centro stesso che vien designato direttamente: lo swastika non è una figura del Mondo, ma sibbene dell'azione del Principio rispetto al Mondo. Il simbolo dell'Omphalos poteva essere collocato in un luogo che era semplicemente il centro di una regione determinata, centro spirituale, d'altronde, assai più che centro geografico, sebbene i due abbian potuto coincidere in certi casi; ma, se così accadeva, si è perché questo punto era veramente, per il popolo abitante nella regione considerata, l'immagine visibile del «Centro del Mondo», nel modo stesso che la tradizione propria a questo popolo non era che un'adattazione della tradizione primordiale sotto la forma che meglio conveniva alla sua mentalità ed alle sue condizioni di esistenza. Ordinariamente, si conosce sopratutto l'Omphalos del tempio di Delfo; questo tempio era ben realmente il centro spirituale della Grecia antica, e, senza insistere su tutte le ragioni che potrebbero giustificare questa asserzione, faremo solamente notare che era là che si riuniva, due volte l'anno, il consiglio degli Anfizioni, composto dai rappresentanti di tutti i popoli ellenici, e che formava d'altronde il solo legame effettivo tra questi popoli, legame la cui forza consisteva precisamente nel suo carattere essenzialmente tradizionale. La rappresentazione materiale dell'Omphalos consisteva generalmente in una pietra sacra, ciò che spesso vien chiamato un «betilo», e quest'ultima parola pare non sia altra cosa che l'ebraico Beith-El, «casa di Dio», il nome stesso dato da Giacobbe al luogo dove il Signore gli si era manifestato in un sogno: «E Giacobbe si svegliò dal suo sonno e disse: Sicuramente il Signore è in questo luogo, ed io non lo sapevo. Ed egli si impaurì e disse: Come è terribile questo luogo! è la casa di Dio e la porta dei Cieli. E Giacobbe si levò presto la mattina, e prese la pietra di cui aveva fatto il suo capezzale (per consacrarla). Ed egli dette a questo luogo il nome di Beith-El, ma il primo nome di questa città era «Luz». Abbiamo spiegato più sopra il significato di questa parola Luz; d'altra parte, è anche detto che Beith-El, «casa di Dio», divenne in seguito Beith-Lehem, « casa del pane», la città dove nacque il Cristo; la relazione simbolica che esiste tra la pietra ed il pane sarebbe degna d'altronde di molta attenzione. Quel che occorre osservare ancora, è che il nome di Beith-El non si applica solamente al luogo, ma anche alla pietra stessa: «E questa pietra che io ho innalzato come un pilastro sarà la casa di Dio». E' dunque questa pietra che deve essere propriamente l'«abitacolo divino» (mish-kan), secondo la designazione che più tardi verrà data al Tabernacolo, vale a dire la sede della Shekinah; tutto ciò naturalmente si collega alla questione delle «influenze spirituali» (berakoth), e, quando si parla del «culto delle pietre», che fu comune a tanti popoli antichi, bisogna ben comprendere che questo culto non era rivolto alle pietre, ma alla Divinità di cui esse erano la residenza. La pietra rappresentante l'Omphalos poteva avere la forma di un pilastro, come la pietra di Giacobbe; è molto probabile che, presso i popoli celtici, certi menhirs avevano questo significato; e gli oracoli venivano resi accanto a queste pietre, come a Delfo, il che si spiega facilmente, dappoi che erano considerate come la dimora della Divinità; la «casa di Dio» d'altronde si identifica in modo naturalissimo col «Centro del Mondo». L'Omphalos poteva anche essere rappresentato da una pietra di forma conica, come la pietra nera di Cibele, od ovoide; il cono ricordava la montagna sacra, simbolo del «Polo» o dell'«Asse del Mondo»; quanto alla forma ovoide, essa si riferisce direttamente ad un altro importantissimo simbolo, quello dell'«Uovo del Mondo». Bisogna aggiungere ancora che, se l'Omphalos era più abitualmente rappresentato da una pietra, ha potuto anche essere rappresentato talora da un monticello, una specie di tumulo, il quale è ancora un'immagine della montagna sacra; così, in Cina, nel centro di ogni regno o Stato Feudale, si innalzava in altri tempi un monticello in forma di piramide quadrangolare, formato dalla terra delle «cinque regioni»: le quattro faccie corrispondevano ai quattro punti cardinali, ed il vertice al centro stesso. Cosa singolare, queste «cinque regioni» le ritroveremo in Irlanda, dove la «pietra eretta del capo» era, in simil modo, innalzata nel centro di ogni dominio. Tra i paesi celtici, è, difatti l'Irlanda che fornisce il maggior numero di dati relativi all'Omphalos; essa era un tempo divisa in cinque regni, di cui uno portava il nome di Mide (restato sotto la forma anglicizzata Meath), che è l'antica parola celtica medion, «mezzo», identica al latino medius (ed all'italiano «medio»). Questo regno di Mide, che era stato formato con porzioni prelevate sui territorii degli altri quattro, era divenuto l'appannaggio del supremo re d'Irlanda, cui gli altri re eran subordinati. A Ushnagh, che rappresenta con bastante esattezza il centro del paese, era drizzata una pietra gigantesca chiamata «ombelico della Terra», e designata anche sotto il nome di «pietra delle porzioni» (ail-namuran), perché essa segnava il sito, dove convergevano, nell'interno del regno di Mide, le linee di separazione dei quattro regni primitivi. Vi si teneva annualmente, al primo di maggio, un'assemblea generale affatto paragonabile alla riunione annuale dei Druidi nel «luogo consacrato centrale» (medio-lanon o medio-nemeton) della Gallia, nel paese dei Carnuti; e si impone parimente l'avvicinamento con l'assemblea degli Anfizioni a Delfo. Questa divisione dell'Irlanda in quattro regni, più la regione centrale che era la residenza del capo supremo, si collega a delle tradizioni estremamente antiche. Di fatti, l'Irlanda, per questa ragione, fu chiamata l'«isola dei quattro Signori»; ma questa denominazione, come pure d'altronde quella d'«isola verde» (Erin), si applicava anteriormente ad un'altra terra assai più settentrionale, oggi sconosciuta, forse scomparsa, Ogygia o piuttosto Thule, che fu uno dei principali centri spirituali, se non proprio il centro supremo di un certo periodo. Il ricordo di quest'«isola dei quattro Signori» si ritrova persino nella tradizione cinese, cosa, che pare non sia mai stata notata; ecco un testo taoista che ne fa fede: «L'imperatore Yao si dette molta pena, e si immaginò di avere regnato idealmente bene. Dopo aver visitato i quattro Signori, nella lontana isola di Kou-Chee (abitata da «uomini veri», tchenn-jen, vale a dire uomini reintegrati nello «stato primordiale») riconobbe che aveva sciupato ogni cosa. L'ideale è l'indifferenza (o piuttosto il distacco nell'attività «non-agente») del superuomo, che lascia che la «ruota cosmica» giri». D'altra parte i «quattro Signori» si identificano con i quattro Mahârâjas o «grandi re» che, secondo le tradizioni indù e tibetane, presiedono ai quattro punti cardinali, essi corrispondono nel medesimo tempo agli elementi: il Signore supremo, il quinto, che risiede nel centro, sulla montagna sacra, rappresenta allora l'Etere (Akâsha), la «quintessenza» (quinta essentia) degli ermetisti, l'elemento primordiale da cui procedono gli altri quattro; e delle tradizioni analoghe si trovano anche nell'America centrale.
                                               
CAPITOLO X
NOMI E RAPPRESENTAZIONI SIMBOLICHE DEI CENTRI SPIRITUALI
Potremmo ancora citare, per quel che concerne la «contrada suprema», ben altre tradizioni concordanti; vi è in particolare, per designarla, un altro nome, probabilmente ancora più antico di quello di Paradesha: questo nome è quello di Tula, da cui i Greci fecero Thulé; e, come ora abbian visto, questa Thulé era verosimilmente identica alla primitiva «isola dei quattro Signori». Bisogna osservare, d'altronde, che lo stesso nome di Tula è stato dato a delle regioni assai diverse, poichè, anche oggi, lo si ritrova tanto in Russia che nell' America centrale; senza dubbio si deve pensare che ciascuna di queste regioni fu, in un'epoca più o meno lontana, la sede di un potere spirituale che era come una emanazione di quello della Tula primordiale. E' noto che la Tula messicana deve la sua origine ai Toltechi; questi, dicesi, venivano da Aztlan, la «terra nel mezzo delle acque», la quale, evidentemente, non è altro che l'Atlantide, ed essi avevano apportato questo nome di Tula dal loro paese d'origine; il centro a cui essi lo dettero dovette probabilmente sostituire, in una certa misura, quello del continente scomparso. Ma, d'altra parte, bisogna distinguere la Tula atlante dalla Tula iperborea, ed è quest'ultima che, in realtà, rappresenta il centro primo e supremo per l'assieme del Manvantara attuale; è essa che fu l'«isola sacra» per eccellenza, e, come dicevamo più sopra, la sua situazione era in origine letteralmente polare. Tutte le altre «isole sacre», che sono designate dappertutto con dei nomi di identico significato, non ne furono che delle immagini; e questo si applica anche al centro spirituale della tradizione atlante, il quale non resse che un ciclo storico secondario, subordinato al Manvantara. La parola Tu La, in sanscrito, significa «bilancia», e designa in particolare il segno zodiacale che ha questo nome; ma, secondo una tradizione cinese, la Bilancia celeste è stata primitivamente l'Orsa Maggiore. Questa osservazione è della massima importanza, perché il simbolismo che si collega all'Orsa Maggiore è legato naturalmente nel modo più stretto a quello del Polo; non possiamo qui diffonderci su questa questione, che richiederebbe di essere trattata in uno studio particolare. Sarebbe anche da esaminare il rapporto che può esistere tra la Bilancia polare e la Bilancia zodiacale; questa, d'altronde, è considerata come il «segno del Giudizio», e quello che precedentemente abbiamo detto della bilancia come attributo della Giustizia, a proposito di Melki-Tsedeq, può fare comprendere che il suo nome è stato la designazione del centro spirituale supremo. Tula è chiamata anche l'«isola bianca», ed abbiam detto che questo colore è quello che rappresenta l'autorità spirituale; nelle tradizioni americane, Aztlan ha per simbolo una montagna bianca, ma questa figurazione si applicava primieramente alla Tula iperborea ed alla «montagna polare». In India, l'«isola bianca» (Swêta-dwîpa), che generalmente vien situata nelle lontane regioni del Nord, è considerata come il «soggiorno dei Beati», cosa che la identifica chiaramente con la «Terra dei Viventi». Vi è ciononostante un'apparente eccezione: le tradizioni celtiche parlano sopratutto dell'«isola verde» come di «isola dei Santi» o «isola dei Beati»; ma nel centro di questa isola si innalza la «montagna bianca», che si dice non venga mai sommersa da alcun diluvio, ed il cui vertice ha il colore della porpora. Questa «montagna del Sole» come essa è parimente chiamata, è la medesima cosa del Mêru: questo, che è anche la «montagna bianca», è circondato da una cintura verde per il fatto che è situato in mezzo al mare e sulla sua vetta brilla il triangolo di luce. Alla designazione dei centri spirituali come l'«isola bianca» o la «montagna bianca» (designazione che, ricordiamolo ancora, ha potuto essere come le altre applicata a dei centri secondarii, e non unicamente al centro supremo a cui essa si addiceva in primo luogo), bisogna collegare i nomi di luoghi, contrade o città, che esprimono parimente l'idea di bianchezza. Ne esiste un numero assai grande, da Albione all'Albania, passando per Alba Longa, la città madre di Roma, e le altre città antiche che hanno potuto portare il medesimo nome; presso i greci, il nome della città di Argo ha il medesimo significato; e la ragione di questi fatti apparirà nettamente da quello che ne diremo tra poco. Rimane ancora da fare un'altra osservazione sopra la rappresentazione del centro spirituale come un'isola, che racchiude d'altronde la «montagna sacra», perché, simultaneamente alla possibile esistenza effettiva di una tale localizzazione (quantunque tutte le «Terre Sante» non siano delle isole), essa deve anche avere avuto un significato simbolico. Gli stessi fatti storici, e sopratutto quelli della storia sacra, sono difatti a modo loro traduzione delle verità di ordine superiore, in ragione della legge di corrispondenza che è il fondamento stesso del simbolismo, e che unisce tutti i mondi nell'armonia totale ed universale. L'idea evocata dalla rappresentazione di cui si tratta è essenzialmente quella di «stabilità» che abbiamo precisamente indicata come caratteristica del Polo: l'isola rimane immutabile in mezzo all'agitazione incessante dei flutti, agitazione che è qui un'immagine di quella del mondo esteriore; e bisogna avere superato il «mare delle passioni» per pervenire al «Monte della Salute», al «Santuario della Pace».
                                               
CAPITOLO XI
LOCALIZZAZIONE DEI CENTRI SPIRITUALI
In quanto precede, abbiamo lasciato quasi completamente da parte la questione della localizzazione effettiva della «contrada suprema», questione molto complessa, e d'altronde affatto secondaria dal punto di vista da cui abbiamo voluto metterei. Pare che vi siano da considerare parecchie localizzazioni successive, corrispondenti a diversi cicli, suddivisioni di un altro ciclo più esteso che è il Manvantara; se d'altronde si considerasse l'assieme del Manvantara ponendoci in qualche modo al di fuori del tempo, vi sarebbe un ordine gerarchico da osservare fra queste localizzazioni, corrispondente alla costituzione delle forme tradizionali che non sono in somma che delle adattazioni della tradizione principale e primordiale che domina tutto il Manvantara. D'altra parte, ricorderemo ancora una volta che possono anche esservi simultaneamente, oltre al centro principale, parecchi altri centri che vi si collegano e che ne sono come altrettante immagini, sorgente questa di confusioni assai facili a commettere, tanto più che questi centri secondarii, essendo più esteriori, sono per questo stesso fatto più appariscenti del centro supremo. Sopra quest'ultimo punto, abbiamo già notato particolarmente la somiglianza tra Lhassa, centro del Lamaismo e l'Agarttha; aggiungeremo ora che, anche in Occidente, si conoscono ancora almeno due città la cui stessa disposizione topografica presenta delle particolarità che, originariamente, hanno avuto una simile ragione di essere: Roma e Gerusalemme (ed abbiamo veduto più sopra che quest'ultima era effettivamente un'immagine visibile della misteriosa Salem di Melki-Tsedeq). Esisteva, di fatti, nell'antichità, quella che si potrebbe chiamare una geografia sacra, o sacerdotale, e la posizione della città e dei templi non era arbitraria, ma determinata in base a leggi molto precise; si può per questo mezzo presentire i legami che univano l'«arte sacerdotale» e l'«arte regale» all'arte dei costruttori, come pure le ragioni per le quali le antiche corporazioni erano in possesso di una vera tradizione iniziatica. D'altronde tra la fondazione di una città e la costituzione di una dottrina (o di una nuova forma tradizionale, per adattamento a delle condizioni definite di tempo e di luogo) vi era un tale rapporto che spesso la prima era presa per simboleggiare la seconda. Naturalmente, bisognava ricorrere a delle precauzioni affatto speciali quando si trattava di fissare la postazione di una città destinata a diventare, sotto un rapporto o sotto un altro, la metropoli di una parte del mondo; ed i nomi delle città, come pure quanto viene riportato sulle circostanze della loro fondazione, meriterebbero di essere accuratamente esaminati da questo punto di vista. Senza diffonderei sopra queste considerazioni che si riferiscono solo indirettamente al nostro soggetto, diremo ancora che un centro del genere di quelli di cui abbiamo ora parlato esisteva in Creta nell'epoca preellenica, e che sembra che l'Egitto ne abbia avuti parecchi, fondati probabilmente in epoche successive, come Memfi e Tebe. Il nome di quest'ultima città, che fu anche quello di una città greca, deve trattenere più particolarmente la nostra attenzione, come designazione di centri spirituali, in ragione della sua manifesta identità con quello della Thebah ebraica, vale a dire dell'Arca del diluvio. Anche questa è una rappresentazione del centro supremo, considerato specialmente in quanto assicura la conservazione della tradizione, in certo modo allo stato di inviluppo, nel periodo transitorio che è come l'intervallo dei due cicli e che è contrassegnato da un cataclisma cosmico che distrugge lo stato anteriore del mondo per far posto ad un nuovo stato. La parte del Noè biblico simile a quella rappresentata nella tradizione hindu da Satyavrata, che diventa poi, sotto il nome di Vaivaswata, il Manu attuale; ma occorre notare che, mentre quest'ultima tradizione si riferisce così all'inizio dell'odierno Manvantara, il diluvio biblico segna solamente l'inizio di un altro ciclo più ristretto, incluso in questo stesso Manvantara ; non si tratta del medesimo avvenimento, ma soltanto di due avvenimenti analoghi tra loro. Quello ancora che è qui assai degno di nota, è il rapporto che esiste tra il simbolismo dell'Arca e quello dell'arcobaleno, rapporto suggerito, nel testo biblico, dell'apparizione dell'arcobaleno dopo il diluvio, come segno di alleanza tra Dio e le creature terrestri. L'Arca, durante il cataclisma, galleggia sull'Oceano delle acque inferiori; l'arcobaleno, nel momento che segna il ristabilimento dell'ordine ed il rinnovamento di tutte le cose, appare «in mezzo alle nubi», vale a dire nella regione delle acque superiori. Si tratta dunque di una relazione di analogia nel senso più stretto di questa parola, vale a dire che le due figure sono inverse e complementari l'una rispetto all'altra: la convessità dell'Arca è rivolta verso il basso, quella dell'arcobaleno verso l'alto, e la loro riunione forma una figura circolare o ciclica completa, di cui esse son come le due metà. Questa figura difatti era completa al principio del ciclo: essa è la sezione verticale di una sfera la cui sezione orizzontale è rappresentata dalla cinta circolare del Paradiso terrestre; e questa è divisa da una croce formata dai quattro fiumi che scaturiscono dalla «montagna polare». La ricostruzione deve effettuarsi alla fine del medesimo ciclo; ma allora, nella figura della Gerusalemme celeste, il circolo è costituito da un quadrato, e questo sta ad indicare la realizzazione di quello che gli ermetisti designavano simbolicamente come la «quadratura del cerchio»; la sfera, che rappresenta lo sviluppo delle possibilità per mezzo della espansione del punto primordiale e centrale, si trasforma in un cubo quando questo sviluppo è compiuto e l'equilibrio finale è raggiunto per il ciclo considerato.


CAPITOLO XII
QUALCHE CONCLUSIONE
Dalla concorde testimonianza di tutte le tradizioni si delinea molto nettamente una conclusione: è l'affermazione che esiste una «Terra Santa» per eccellenza, prototipo di tutte le altre «Terre Sante», centro spirituale a cui tutti gli altri centri sono subordinati. La «Terra Santa» è anche la «Terra dei Santi», la «Terra dei Beati», la «Terra dei Viventi», la «Terra d'immortalità»; tutte queste espressioni sono equivalenti, e bisogna ancora aggiungervi quella di «Terra Pura» (1), che Platone applica precisamente al «soggiorno dei Beati». Abitualmente questo soggiorno viene situato in un «mondo invisibile»; ma, se, si vuole comprendere di che cosa si tratta, non bisogna dimenticare che la stessa cosa accade per le «gerarchie spirituali» di cui parlano pure tutte le tradizioni, e che rappresentano in realtà dei gradi di iniziazione. Nel periodo attuale del nostro ciclo terrestre, vale a dire nel Kali-Yuga, questa «Terra Santa» difesa da dei «guardiani» che la nascondono agli sguardi profani pur assicurandone certe relazioni esteriori, è difatti invisibile, inaccessibile, ma soltanto per coloro che non posseggono le qualificazioni richieste per penetrarvi. Ora, la sua localizzazione in una regione determinata devesi riguardare come letteralmente effettiva, o soltanto come simbolica, oppure è dessa l'una e l'altra ad un tempo? A questa questione, risponderemo semplicemente che, per noi, gli stessi fatti geografici, ed anche i fatti storici, hanno, come gli altri, un valore simbolico, che d'altronde, evidentemente, non intacca la loro realtà propria in quanto fatti, ma che conferisce loro, oltre a questa realtà immediata, un significato superiore.
Non pretendiamo aver detto tutto quello che vi sarebbe da dire sopra l'argomento cui si riferisce il presente studio, lungi da questa pretesa, e gli stessi raccostamenti che abbiamo stabilito potranno sicuramente suggerirne molti altri; però, malgrado tutto, ne abbiamo detto certamente ben più di quanto non era stato fatto sinora, e taluni saranno forse tentati di rimproverarcelo. Ciononostante, non pensiamo aver detto troppo, e siamo persino persuasi che non vi è in quanto abbiam detto nulla che non debba esser detto, sebbene siamo disposti meno di chiunque a contestare che vi sia il caso di porre la questione dell'opportunità quando si tratta di esporre pubblicamente certe cose d'un carattere un po' inconsueto. Sopra questa questione di opportunità, possiamo limitarci ad una breve osservazione: si è che nelle circostanze in mezzo alle quali viviamo presentemente, gli avvenimenti si svolgono con una tale rapidità che molte cose le cui ragioni non appariscono ancora immediatamente potrebbero ben trovare, e più presto che non si sarebbe tentati di crederlo, delle applicazioni assai impreviste, se non affatto imprevedibili. Vogliamo astenerci da tutto quanto, da vicino o da lontano, somiglierebbe a delle « profezie »; ma teniamo nonpertanto a citare qui, per terminare, questa frase di Joseph de Maistre, ancora più vera oggi che un secolo fa: «Bisogna tenerci pronti ad un avvenimento immenso nell'ordine divino, verso il quale marciamo con una velocità accelerata che deve colpire tutti gli osservatori. Paurosi oracoli annunciano già che i tempi sono arrivati».
                                                                                                                                                                      

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