giovedì 29 maggio 2014

Perché confessare i propri peccati al prete?

"Confessarsi: perché?": è una domanda ineludibile per un credente in Cristo. Nessuno può rispondere al nostro posto. Il sacramento della Riconciliazione ha l’effetto di mettere in rilievo tutti i nostri attuali aspetti contraddittori. Sono calate le confessioni, eppure mai come in questo periodo c’è l’esigenza di manifestare il proprio vissuto a psicologi, psicanalisti, direttori di riviste, maghi. Qual è la spinta che sta dentro? La voglia di esternare, di comunicare, di ostentare? Il desiderio di "pulizia interiore"o di "redenzione"? Mai come oggi il peccato sta lì, davanti a tutti,prende la forma di guerra, di violenza sui minori, di strage, di pulizia razziale. Mai come oggi è difficile dire: "Io ho peccato!". Ai tempi nostri, molto più che nel passato, ciò che avviene, in Asia, ha la sua risonanza immediata in Europa ed Africa. Si ha la netta sensazione di condividere fallimenti e successi. Mai come oggi, per quanto concerne il peccato, ognuno lo riduce a "faccenda privata". Mai come oggi, il sacramento dell’Eucaristia vede una partecipazione attiva, cosciente, adulta dei fedeli. La si vive come festa, come evento comunitario. Mai come oggi, c’è la difficoltà a "rivolgersi al prete" per confessarsi. Si riduce il pentimento ad un rapporto del singolo con Dio. Si fa enorme difficoltà, in questo Sacramento, a percepire il ruolo di mediazione della Chiesa. Psicologi e psicanalisti hanno scavato dentro di noi. Sono riusciti a documentare che non si nasce liberi, ma lo si diventa. La zona delle scelte nostre non è infinita. Ci sono dentro di noi condizionamenti, eredità, fatti inconsci. Siamo persone "a sovranità limitata". Qualcuno ha tirato indebitamente queste conclusioni: non siamo mai liberi; in tutto e per tutto esistiamo come "predestinati". Svanisce così il riconoscimento della responsabilità. "Colpevoli" sono i genitori, gli educatori, il sistema politico ed economico. Se uno accetta queste conclusioni, non diventa mai soggetto umano. Anche da "grande", vivrà una recessione alla fase infantile. Spenderà la sua esistenza incolpando gli altri. È logico che si "assolverà" sempre, perché mai riconoscerà i gesti come suoi. Sappiamo invece che, pur tra mille condizionamenti, la persona può farsi largo, emergere, imprimere una direzione alla propria vita. Ci sono infatti zone in cui si esprime la nostra libertà. Alcune varianti dipendono da noi. Ci "convertiamo" confessando il peccato, riconoscendo che esso è nostro. Infatti è firmato da noi. Ma soprattutto celebriamo le meraviglie dell’Altissimo. Dio che si è preso cura di tutti. Noi abbiamo dissociato i nostri destini da quelli degli altri. Diciamo come Caino: "Sono forse io il custode di mio fratello?" (cf. Gen 4,9). In questo Regno che tutti convoca e congiunge, noi non ci siamo presi cura degli altri. I vincoli della solidarietà si sono allentati. Gesù ha "risposto" di noi tutti al Padre e noi non vogliamo "rispondere dei nostri fratelli" (cf. Gen 9,5). Perché non ci si confessa? Dal punto di vista culturale, in tanti casi, c’è un "io" che non accetta di nascere, crescere, proprio mediante tanti "tu". Non ha né occhi per vedere gli altri né orecchie per udirli; né mani per soccorrerli. Riconosce di avere traumi e condizionamenti ma non peccati. Non si comprende che "insieme" ci si salva. Come figli di un'era super tecnologica, riduciamo a "faccenda privata" i nostri errori. Arriviamo a dire: è l’individuo che pecca; è lui che si pente; sta a lui convertirsi; è suo compito espiare. C’è una immagine privatistica della storia stessa e della vita umana. Non abbiamo più la sensazione di essere dentro un unico fiume che scorre. È sparito l’orizzonte del "genere umano". Stando alla Sacra Scrittura, c’è una vicenda che Dio avvia, accompagna, salva. Si nasce da altri, si cresce mediante altri, ci si realizza "perdendo la vita" per gli altri.
Dio si rapporta con un popolo e fa storia con lui. Esso è una specie di "cantiere". È germe dell’umanità nuova in cui Dio, per mezzo di Cristo e in forza dello Spirito, sta lavorando.
La croce e risurrezione di Gesù non sono un analgesico offerto ai singoli: sono capolavoro di Dio per la "riuscita"; la salvezza del mondo stesso. Ci muoviamo ed esistiamo come "corpo". Siamo come in una cordata. Ogni gesto va a rifluire sugli altri; diventa medicina o veleno. Possiamo costruire o demolire. Possiamo unire o dividere. Quando un membro soffre, tutto il corpo soffre. Dio ci ha collocato in una relazione comunitaria organica. Il male ferisce anzitutto il fratello più piccolo e, attraverso di lui, giunge a Cristo (cf. Mt 25,40.45). Per quanto concerne la storia, c’è stato, da parte dell’individuo, il procedimento che si segue per ricavare la foto di un defunto: si eliminano tutte le altre persone e si fa emergere una sola figura. La liberazione dal peccato è come la guarigione: non la ottengo pensandoci sopra tra me e me; occorre che mi rivolga al medico e segua una cura. Chi si confessa, si rivolge a Gesù, supremo terapeuta (cf. Mc 2,7). Vuole assolutamente vederlo, incontrarlo. Allora fa come i Gentili: si rivolge ai discepoli. Essi lo conducono dal Cristo (cf. Gv 12,21-22; 1,35-50). Il perdono che la comunità annuncia non è suo. Solo Dio può rimettere i peccati (Mc 2,6). La comunità proclama la redenzione operata dal Cristo, in forza dello Spirito. Dio ha assegnato a lei un servizio. Andando a confessarci, noi permettiamo all’Altissimo di riconciliarsi proprio con noi. La salvezza ha una forma visibile, storica, ecclesiale, comunitaria. La Chiesa esprime Cristo. Agisce nel suo nome. Salvatore è Gesù e il prete ce lo attesta, ce lo annuncia. Ci mette in contatto con il Cristo Signore. A tal proposito Papa Francesco I dice: "Il sacramento della penitenza e riconciliazione, meglio noto come confessione, che in passato si faceva "in forma pubblica", oggi si fa in forma "personale e riservata", ha detto il Papa. Questo però "non deve far perdere la matrice ecclesiale, che costituisce il contesto vitale". "Uno - ha spiegato Bergoglio parlando a braccio - può dire 'io mi confesso soltanto con Dio'. Sì, puoi dire 'Dio perdonami' e dire i tuoi peccati. Ma i nostri peccati sono anche contro i fratelli, contro la Chiesa, e per questo è necessario chiedere perdono alla Chiesa e ai fratelli nella persona del sacerdote". "Eh, padre, io mi vergogno", ha proseguito il Papa pronunciando un dialogo immaginario con un fedele: "Anche la vergogna - è la risposta del ‘padre’ - è buona, è salutare avere un po' di vergogna, perché - ha proseguito il Papa tra gi applausi dei fedeli - vergognarsi è salutare: quando una persona non ha vergogna, nel mio paese diciamo che è un sin verguenza, un senza vergogna, ma la vergogna fa bene perché ci fa più umili. Il sacerdote riceve con amore e tenerezza questa confessione, e in nome di Dio perdona. Anche dal punto di vista umano - ha continuato il Papa - sfogarsi è buono, parlare col fratello e dire al sacerdote queste cose che sono tanto pesanti nel mio cuore, sfogarmi davanti a Dio con la Chiesa e con il fratello. Non avere paura della confessione! Uno quando è in coda per confessarsi sente tutte queste cose, anche la vergogna - ha detto il Papa tra nuovi applausi - poi quando finisce la confessione esce libero, grande, bello, perdonato, bianco, felice. Questo è il bello della confessione".
 Il Papa si è poi rivolto direttamente alla folla di fedeli: "Io vorrei domandarvi", ma non rispondete "a voce alta, ognuno si risponda nel suo cuore: quando è stata l'ultima volta che ti sei confessato, che ti sei confessata? Due giorni, due settimane, due anni... Venti anni... Quaranta anni... Ognuno faccia il conto. Ognuno si dica: quando è stata l'ultima volta che mi sono confessato? E se è passato tanto tempo, non perdere un giorno di più, vai avanti, che il sacerdote sarà buono, Gesù è lì, è più buono dei preti, ti riceve con tanto amore". Attraverso i sacramenti dell’iniziazione cristiana, il battesimo, la confermazione e l’eucaristia, ha spiegato il Papa, “l’uomo riceve la vita nuova in Cristo. Ora, questa vita, noi la portiamo ‘in vasi di creta’, siamo ancora sottomessi alla tentazione, alla sofferenza, alla morte e, a causa del peccato, possiamo persino perdere la nuova vita”. Per questo Bergoglio, che ha definito la confessione un “sacramento della guarigione”, ha sottolineato che quando ci si confessa si va a “guarire l’anima o il cuore” e ci si libera di “un peso nell’anima”. Il perdono dei nostri peccati, però, “non è qualcosa che possiamo darci noi, non è frutto dei nostri sforzi, ma è un regalo, un dono dello Spirito Santo”. Il Papa ha concluso la catechesi citando la parabola del figliol prodigo (o del padre misericordioso): “Ogni volta che ci confessiamo, Dio ci abbraccia, e fa festa, andiamo avanti su questa strada".

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