lunedì 24 luglio 2017

I fondamenti morali della difesa della vita umana


Introduzione
Il tema che mi è stato affidato porta il titolo I fondamenti morali della difesa della vita umana. La vita umana: ecco l'oggetto ultimo di riflessione e trattazione di questa relazione. Ed è un oggetto complesso, così come è polivalente l'espressione che lo indica. Perché per vita umana si possono intendere fattori molteplici situati su piani differenti: biologico, psicologico, culturale, storico, sociale, ecc. Tuttavia l'interrogativo sulla vita, specialmente quando si tratta di vita umana, ha in fondo una portata che va oltre specifici e parziali ambiti e prospettive: investe la vita umana nel suo complesso, nella sua totalità. È cioè domanda sul senso globale di essa, con sottesa la speranza ed il fine, una volta individuatane la risposta, di riuscire a capire anche come si debba vivere per poter giungere alla realizzazione di sé.
L'interrogativo sul senso sta pertanto alla base anche di ogni problema etico, incluso quello inerente la difesa della vita. Non è possibile all'uomo capire cosa debba fare, come sia bene e giusto per lui comportarsi, anche in relazione alla vita, sia propria che altrui, se prima non ha definito, almeno in certa misura, chi è, perché vive, da dove viene e dove va.
Quello del senso (non solo della vita umana, ma più in generale di tutta la realtà) è davvero il problema dei problemi, l'interrogativo fondamentale, al quale tutte le religioni e tutte le filosofie nel corso dei secoli hanno cercato di fornire una risposta. Un problema già complesso e difficile di sua natura, oggi ulteriormente complicato, al pari di altre questioni fondanti, dalla situazione di forte pluralismo che caratterizza la nostra società moderna.
Stando così le cose, non è possibile trattare dei fondamenti etici della difesa della vita senza previamente cercare di chiarirne ed esplicitarne i presupposti antropologici. Anzi, sono proprio questi stessi presupposti a costituire il fondamento ricercato . Tematizzarli in modo esauriente non è certamente possibile nel ristretto quadro di una relazione. E tuttavia se ne devono illustrare almeno i tratti salienti, se si vuole riuscire a dire qualcosa ed a farsi capire.
Cercherò di farlo ponendomi all'interno di una prospettiva teologica, conformemente alla mia specifica competenza, il che non significa che le considerazioni che si faranno siano valide e comprensibili solo per i cristiani.
 
 
Dimensioni antropologiche essenziali
Il primo elemento riguarda l'origine trascendente della esistenza umana e del reale in genere. E corrisponde alla prima affermazione della Bibbia in ordine all'uomo ed al mondo in cui egli dimora: ambedue sono opera di Dio Creatore. L'ipotesi che il mondo e l'uomo siano frutto del caso è resa inverosimile dalla stessa perfezione, precisione e complessità dei meccanismi biologici di sviluppo, che lascia intravvedere l'esistenza di una iniziale Intelligenza ordinatrice, che sta all'origine anche dei processi evolutivi.
L'affermazione della origine trascendente della vita è importantissima, perché conferisce alla realtà un valore oggettivo, e quindi salvaguarda l'esistenza di un senso che non sia puramente arbitrario o convenzionale. Se infatti il mondo e l'uomo vengono dal caso e vanno verso il nulla, essi non sono portatori di nessun significato intrinseco, ontologico; ed il loro valore dipenderà unicamente da ciò che l'uomo, singolo o associato, nel suo arbitrio deciderà di conferirgli, comunque sempre qualcosa di relativo e convenzionale. Ma se essi sono creature di Dio, ed oltretutto di un Dio che, come dice la Bibbia, si prende grande cura della loro esistenza, allora il loro valore non riconduce semplicemente alla soggettività umana, ma rimanda a Dio ed al suo disegno creativo e da questi dipende. È l'Assoluto di Dio che fonda e conferisce dignità alla vita, perché ogni vita è dono suo.
Un'etica a-teistica, non disponendo di tale fondazione metafisica, dovrà necessariamente misurare l'uomo con categorie puramente immanenti, e sarà facilmente tentata di adottare criteri di tipo relazionale o utilitaristico, che hanno un loro contenuto di verità, ma che finiscono, quando adoperati in modo esclusivo, per non conferire uguale valore e dignità ad ogni vita, per discriminare tra vita e vita. La vita umana degna di essere conservata e promossa sarà infatti considerata solo quella che sia in grado di instaurare col prossimo relazioni veramente personali o di apportare un utile, un beneficio all'intera collettività. Ma ciò genera immediatamente l'interrogativo circa la misura e le condizioni per cui una capacità relazionale può considerarsi propriamente personale o una vita veramente utile alla collettività, ed il connesso problema di stabilire a chi tocca dare tali valutazioni, diventando così di fatto arbitro e giudice del diritto a vivere o a morire del suo simile.
Altri fanno appello alla cosiddetta "qualità di vita", fissata in base alla sensibilità ed alle attese prevalenti nella cultura del tempo e misurata in relazione allo stato presente ed alle prospettive future dell'individuo. Ma anche questo è criterio discriminante, che rende l'uomo padrone ed arbitro della vita del suo prossimo, del suo diritto a viverla.
Certo, il recente sviluppo delle tecniche di fecondazione artificiale ed il potere manipolatorio sempre più esteso dell'uomo su se stesso e sulla natura può avere alimentato in alcuni la sensazione o la pretesa che l'uomo sia creatore ed arbitro di se medesimo. Ma l'esperienza quotidiana della umana limitatezza e contingenza, della nostra essenziale povertà e fragilità basta a mettere in luce quanto tutto questo sia piuttosto illusione ed arbitrio.
In una concezione teista, invece, l'essere dell'uomo o l'essere persona umana non dipende dal riconoscimento sociale o dallo stato psico-fisico individuale, ma è fondato originariamente in Dio. La vita umana vale in quanto voluta da Lui ed intrinsecamente in relazione con Lui, in quanto dono suo. Certamente anche l'etica teistica si batte per la promozione della qualità di vita e della capacità relazionale della persona umana e per il progresso ed il benessere della società e dell'intera umanità. Anzi, ha un motivo in più per farlo: la glorificazione di Dio ("la gloria di Dio è l'uomo vivente", dicevano i Padri) ed il rispetto della sua legge. Ma senza che ciò comporti la scelta tra vite che valgono e vite che invece non meritano di essere vissute, con la pratica conseguenza dell'eliminazione dei più deboli o malati, degli indesiderati, degli ultimi sotto qualunque profilo.
Se poi, collocandoci in prospettiva specificamente cristiana, ripensiamo al fatto che Gesù, Dio fatto uomo, ha dato la sua vita per amore di ogni uomo, specie degli ultimi e più bisognosi, ed ha portato a realizzazione il disegno del Padre, elevando l'uomo alla dignità soprannaturale di figlio di Dio e rendendolo partecipe della beatitudine eterna, la dignità ed il valore di ogni esistenza umana non possono risultarne che infinitamente accresciuti ed innalzati.
Un secondo elemento antropologico che deve essere ricordato ed apprezzato, accanto alla origine trascendente, è la specificità ed unità della vita umana.
Specificità nel senso che l'uomo non è una creatura come tutte le altre. C'è in lui una dimensione di auto-coscienza, di libertà interiore, di disposizione di sé, di capacità di interrogarsi e di decidere circa il significato, la natura ed il fine delle cose e di se stesso, che non ha equivalente in nessun altro essere vivente e che non è riconducibile e spiegabile unicamente su base biologica. Una dimensione che potremmo chiamare "spirituale", e che la tradizione cristiana, e prima di essa il mondo greco, ha indicato col termine "anima".
Si tratta di una specificità che determina una differenza qualitativa fra l'uomo e le altre creature, differenza che la Bibbia conosce e sottolinea quando afferma che solo l'uomo è "immagine di Dio" e che egli "domina" sulle altre creature; il che, per inciso, non significa né giustifica affatto che l'uomo possa deturpare e distruggere la natura, perché unico ed assoluto Signore del creato è e resta sempre Dio, che ama tutto ciò che ha creato: indica però che la natura è voluta da Dio come habitat per l'uomo, è in vista di lui. Tutto questo non deve risolversi in un deprezzamento del valore del creato, deve piuttosto costituire un motivo di ulteriore valorizzazione dell'essere e della vita umana.
Un teologo notava qualche anno fa che l'antropologia contemporanea "non considera più l'uomo come qualche cosa di speciale in quanto creato o redento da Dio [...]. Si parte piuttosto da un quadro terreno, in qualche modo cosmologico, e si vede l'uomo nel contesto di altri esseri, soprattutto dei viventi, in modo particolare degli animali superiori più simili morfologicamente e comparativisticamente all'uomo". Il postulato metodologico sottostante è "quello della continuità tra mondo degli animali e mondo dell'uomo". Ora, c'è al fondo di questa concezione un'esigenza legittima e giusta di comunione fra l'uomo e le altre creature che non deve essere negata, e sulla quale tornerò fra breve. Ma quando l'antropologia viene letta esclusivamente in questi termini, ignorando completamente la dimensione spirituale propria dell'uomo e riconducendo ogni sua espressione al puro dato biologico, allora sono la complessità e la ricchezza dell'uomo, è il mistero che in lui è racchiuso e che trova espressione adeguata nella vita dei grandi uomini, specie dei santi, a venire negato. Diceva, scherzando, il professor Lejeune, illustre scienziato francese, una delle voci più autorevoli sul piano internazionale nel campo della genetica e membro della Pontificia Accademia delle Scienze, parlando ad un convegno di bioetica tenuto a Bologna nel 1988: "quando sono in una città che non conosco ed ho un po' di tempo cerco di visitare due luoghi ugualmente istruttivi: l'Università e lo zoo. Nelle Università ho visto spesso persone molto sapienti, riunite in congresso per domandarsi se i loro bambini, quando erano piccolissimi, fossero degli animali o meno. Ma non ho mai visto in uno zoo un congresso di scimpanzé per domandarsi se i loro piccoli dopo tutto sarebbero diventati un giorno degli universitari. Ho concluso che c'è effettivamente una differenza, e una differenza di natura". Si tratta appunto di riconoscere, accogliere e salvaguardare tale differenza, senza nulla togliere al valore proprio della vita animale, ma senza nemmeno ridurre la dignità ed il valore di un uomo a quello di uno scimpanzé, di un ratto o di un verme.
D'altra parte abbiamo parlato all'inizio non solo di specificità ma anche di unità. Unità perché dimensione spirituale e dimensione biologica, corpo ed anima sono distinguibili concettualmente ma non separabili. L'uomo è un'unità, non un'aggregazione di pezzi: io non solo ho un corpo, ma sono il mio corpo. Questa unità comporta, sul piano etico, che ogni mortificazione o strumentalizzazione del corpo e della vita biologica di un individuo umano è sempre al medesimo tempo anche e prima di tutto mortificazione e strumentalizzazione della sua persona come totalità, corpo e anima. Rispetto della vita corporea significa rispetto della persona umana che è quel corpo ed in esso vive e si manifesta. Ogni dualismo ed ogni spiritualismo disincarnato vanno respinti con fermezza.
Il fatto poi che il Verbo di Dio, incarnandosi, si sia fatto uomo come noi, e che redimendoci abbia voluto, mediante il battesimo, incorporarci veramente e per sempre alla sua umanità, renderci membra del suo corpo, non fa che conferire a quell'unità anima-corpo che noi siamo, ed in particolare alla nostra corporeità, la sua suprema dignità e la ragione ultima del rispetto che le si deve.
Un terzo ed ultimo elemento antropologico. Le dimensioni trascendente e corporea di cui sopra si è parlato implicano relazione con Dio e, tramite il corpo, anche con gli altri uomini e con l'insieme del creato. Significano cioè che l'uomo, il singolo individuo, vive in relazione con altro da sé. E tale relazione non costituisce per lui un fatto accidentale e secondario. L'uomo è di sua natura un essere povero, nel senso che non ha in se stesso il principio e le condizioni della sua realizzazione umana, non è autosufficiente e fine a se stesso. Ha bisogno di aprirsi a qualcosa di esterno a sé. La sua realizzazione include necessariamente tale apertura.
C'è quindi una essenziale relazionalità che lo caratterizza, e che sgorga dalla sua non-autosufficienza. Relazionalità che esistenzialmente si attua nella comunione, nell'apertura, nel dono di sé, in una parola nell'amore. Essa è in primo luogo rivolta verso Dio, che dell'uomo è origine e fine. Ma investe anche gli altri uomini e l'intero creato. L'uomo deve, se vuole realizzarsi, vivere in armonia ed in comunione con Dio, col prossimo e con la natura. Fra queste tre dimensioni non vi è contrasto o separazione, perché proprio Dio ha creato l'uomo con queste esigenze ed è sua volontà che egli vi si conformi storicamente.
La fede cristiana dà a questa prospettiva il massimo di rilievo ed intensità quando ci comanda di amare Dio con tutto il cuore, la mente e le forze, ed il nostro prossimo non solamente come noi stessi ma come Cristo lo ha amato. E Gesù per amore nostro ha dato se stesso totalmente sulla croce.
Ed in questa chiave, credo, vada anche posto il problema della difesa della vita. Certo, è anche problema di legislazione e di strutture. Ma è prima di tutto problema di amore. Si tratta di ridare alla nostra gente, all'umanità contemporanea il senso e la volontà dell'amore, inteso non come sentimento o come desiderio, ma come servizio, atteggiamento di dono di sé, di disponibilità verso l'altro che esige superamento del proprio egoismo e delle proprie chiusure e paure. Se c'è una legislazione sull'aborto e se ce ne sarà in futuro una sull'eutanasia, e soprattutto se c'è chi li richiede o li rivendica, forse la prima ragione risiede nel fatto che in molte persone si è atrofizzato, in parte o del tutto, il senso della solidarietà, della comunione, della disponibilità nostra verso gli altri e di loro verso di noi, cosicché è oggi diffuso un profondo senso di solitudine, che ha la sua origine nel ripiegamento dell'individuo su se stesso, ed ha per effetto l'angoscia, che sembra essere oggi la immancabile e più assidua compagna di strada nella vita di tanti.
 
 
Incidenza dell'attuale contesto socio-culturale
Ma il problema non va posto solamente a livello individuale. Le sue basi si trovano anche e prepotentemente in fattori socio-culturali, ad esempio il modello di uomo e di realizzazione umana proposto dalla nostra cultura. Il discorso sulla vita umana e sul rispetto della stessa necessita sotto questo profilo di essere contestualizzato, cioè collocato all'interno dell'odierno panorama socio-culturale.
Vari potrebbero essere in proposito gli elementi meritevoli di considerazione. La nostra società è infatti una realtà complessa ed articolata, con aspetti di valore ed altri invece nettamente infausti. Non potendo soffermarmi su tutto, mi limito a ricordare solamente due fattori che incidono negativamente in rapporto alle esigenze etiche di salvaguardia e promozione della vita. Il primo è di natura intellettuale-culturale, il secondo più di ordine socio-giuridico.
Il nostro attuale contesto filosofico e culturale viene spesso qualificato non solo come post-cristiano, ma anche come post-moderno.
L'inizio dell'epoca moderna lo si fa solitamente risalire, almeno sul piano storico-filosofico, ai primi del Seicento, con Cartesio e Bacone, ed ha avuto la sua espressione più importante soprattutto nell'Illuminismo del secolo successivo. La cultura illuminista assumeva come principio unificatore della vita personale e sociale, anche in campo morale, la ragione autonoma, svincolata cioè da ogni presupposto di fede. Era però ancora presente la convinzione che esistesse una verità oggettiva, che l'uomo è in grado di cogliere mediante la ragione. Gli illuministi erano cioè convinti che la ragione potesse da sola arrivare ad affermare delle verità certe sul piano morale.
Questa fiducia nella ragione e nella sua capacità di attingere la verità è entrata in crisi in epoche successive. Oggi, per molti filosofi ed intellettuali, l'affermazione che la ragione può raggiungere la verità oggettiva è un'illusione pericolosa, perché, come pensava Nietzsche, "nel legare l'uomo ad un assoluto al di fuori di se stesso, si crea l'ultimo ed il più grande ostacolo alla libertà umana". Nietzsche criticò anche i filosofi atei che seguivano l'Illuminismo. Essi "erano lungi dall'essere spiriti liberi, perché avevano ancora fede nella verità". Per Nietzsche, l'attacco moderno a Dio non poteva finire con l'attacco alla Verità divina, ma doveva per forza continuare con l'attacco ad ogni verità, poiché un uomo veramente libero non poteva dipendere da alcun assoluto.
La filosofia contemporanea, e la cultura odierna nel suo insieme, ha spesso accettato e fatto proprio, in molti suoi esponenti ed espressioni, questo modo di vedere. Per questo si parla di "cultura post-moderna" e la sua riflessione filosofica ha preso il nome di "pensiero debole". I criteri assunti a fondamento della razionalità in tale quadro sono principalmente l'agnosticismo ed il relativismo. L'uomo cioè non può con la sua ragione arrivare a delle certezze, alla verità, perché questa o non esiste o non è alla sua portata.
Tutto ciò che è possibile all'uomo è ricercare e scoprire una verità contingente, relativa, perché legata e condizionata alla propria cultura. Una verità "culturale", non assoluta, valida solamente per questo tempo e questo ambiente. Ogni pretesa di verità assoluta è invece totalmente infondata ed inaccettabile: le stesse nozioni di verità e di morale oggettiva sono prive di significato.
Questa relativizzazione e storicizzazione di ogni verità produce per converso una assolutizzazione del concetto di libertà. L'uomo è qualificato nella sua dignità di essere umano e di persona unicamente o quasi dalla sua libertà, intesa come libera autodisposizione di sé. E non esistendo una verità oggettiva universale, ogni libertà individuale sarà padrona di crearsi la propria verità, che naturalmente sarà sempre contingente e relativa.
Accanto a questa evoluzione filosofico-culturale, e di riflesso ad essa, abbiamo assistito in questi ultimi anni anche ad una importante svolta sul piano degli ordinamenti sociali e giuridici, in particolare per quanto attiene proprio il campo della famiglia, della procreazione e del rispetto della vita.
Le norme legali che regolano il diritto di famiglia all'interno degli stati occidentali, che erano rimaste sostanzialmente inalterate per secoli, hanno conosciuto in tempi relativamente recenti profonde modificazioni. Si è cessato di pensare il matrimonio come un'unione indissolubile, si è inserito il divorzio, si è liberalizzata la contraccezione e si è legalizzato l'aborto in quasi tutti gli stati. Sono venute così a cadere molte di quelle norme che in passato difendevano e sostenevano l'istituto familiare. La famiglia, nel senso tradizionale della parola, specie quella numerosa, come pure la generazione dei figli e la maternità spesso non sono più salvaguardate ed incentivate, anzi in più di un caso si trovano ad essere penalizzate.
Questi cambiamenti legislativi rispecchiano poi evoluzioni prodottesi nel costume e nella mentalità collettivi, ed in pari tempo contribuiscono a promuoverle e consolidarle. Oggi, in conformità alla evoluzione intellettuale sopra accennata, l'attenzione è posta prevalentemente sulla libertà soggettiva e l'interesse individuale, sul "diritto" all'autorealizzazione, alla felicità ed alla piena esplicazione della propria personalità. Questo contribuisce a fenomeni oggi largamente diffusi come ad esempio l'ampia libertà e promiscuità sessuale, fin dalla adolescenza. Il matrimonio è sentito da molti come un peso, un'impaccio o come un rischio, e non pochi sono i giovani che preferiscono la vita da single (senza però che questo debba pregiudicare in alcun modo il "diritto" al piacere sessuale) o la semplice convivenza, senza legami stabili e giuridicamente fissati. Per altri, il matrimonio è inteso non come un'unione stabile, ma come una specie di contratto a termine, che dà origine ad una "impresa congiunta speculativa a scopo di profitto", che si scioglie nel momento stesso in cui uno dei due contraenti non trova più vantaggioso continuarla. La procreazione assume i connotati di un rischio e di una pesante limitazione alla libertà personale ed alla ricerca di una propria realizzazione, specie per la donna. La prole numerosa poi è semplicemente ritenuta una pazzia, da evitarsi ad ogni costo. E fra i mezzi per scongiurarla c'è la contraccezione in qualsiasi forma, senza fare troppe distinzioni fra mezzi propriamente contraccettivi e mezzi con effetti abortivi, e, quando questa non funzioni, il ricorso alla interruzione volontaria della gravidanza. Il concetto stesso di famiglia si offusca ed assume contorni imprecisi: si tende infatti a denominare così qualsiasi tipo di unione, comunque realizzata (per esempio le coppie gay).
Ora, se questo è il quadro, e se questo quadro ha contrassegnato come minimo gli ultimi venti anni della nostra storia, occorre che ci rendiamo conto e teniamo ben presente un fatto: molte delle donne o coppie che oggi fanno ricorso all'aborto sono "figli" di questa cultura, sono cioè cresciuti e si sono formati in ambienti dove in genere hanno respirato ed assimilato questo tipo di mentalità e che non hanno mai veramente conosciuto e sperimentato una prospettiva differente, salvo forse eccezioni rappresentate da giovani cresciuti ed educati nelle nostre parrocchie o comunque in ambienti cristiani, ma che sono una minoranza rispetto al totale.
È così che, su problemi morali come la liceità o illiceità dei rapporti sessuali, della contraccezione, delle convivenze, e dello stesso aborto, da parte di molti giovani d'oggi, e non solo in loro, non c'è solamente una scelta che non collima più con la morale cristiana e col bene oggettivo, ma rischia, a monte, di non esserci più nemmeno la percezione e posizione dell'interrogativo etico. Semplicemente, comportamenti del tipo suddetto sono pacificamente interpretati come diritti individuali, manifestazioni della libertà personale.
Questa situazione, se da un lato ci deve rendere prudenti e cauti nel formulare giudizi sulla responsabilità e colpevolezza soggettiva, dall'altro però mette in luce la gravità e profondità del problema. Non è questione soltanto di integrare o correggere qualche errata impostazione di valori, o di far prendere coscienza di qualche valore dimenticato.
È il concetto stesso di libertà ed il suo rapporto con la verità etica che, come sottolinea la recente enciclica Veritatis Splendor, necessita di venire ripensato. Sono cioè i fondamenti ultimi dell'etica, anzi la possibilità stessa di un'etica, ad essere in discussione ed a venire minacciati. Ed è tutta una concezione di uomo e di senso della vita umana che ha bisogno di essere riscoperta e valorizzata.
Credo allora che s'imponga davvero la necessità e l'urgenza della "nuova evangelizzazione" su cui tanto insiste Giovanni Paolo II. Perché l'uomo contemporaneo, mentre vede accrescersi ogni giorno il patrimonio delle sue conoscenze e possibilità tecnico-scientifiche e manipolatorie, rischia però di smarrire se stesso, di perdere il senso della sua identità e dignità, della sua origine e del termine verso cui cammina. E la riproposizione del vangelo, che contiene e manifesta la piena verità di Dio sull'uomo, può consentire in modo eminente l'uscita e la positiva soluzione di queste difficoltà. Confidando anche, anzi soprattutto, e non può essere diversamente per chi crede, nell'amore di Dio per l'umanità e nell'aiuto della sua grazia che dall'interno parla ai cuori e dà luce e forza.


Don Massimo Cassani

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