Ricordo spesso questa piccola cosa, quando mi capita di scrivere o di parlare della filosofia italiana di quegli anni, non perché essa sia importante, ma perché è un piccolo indizio di un’atmosfera e di una mentalità: si respirava l’ossessione del potere. Il potere era ovunque e, se non lo si vedeva, era solo perché la sua presenza era diventata così diffusa che non lo si distingueva più dal corso ordinario delle cose: non un ingrediente della realtà, ma una sostanza magmatica e plastica, capace di mescolarsi con qualsiasi cosa. Ci si aspettava che filtrasse sotto le porte e il sospetto sistematico era considerato l’atteggiamento più accorto. C’erano anche degli antidoti specifici: per esempio le noiose e interminabili elucubrazioni di Husserl, che certamente avrebbero ucciso qualsiasi funzionario del potere, se si fosse riusciti a fargliele leggere, o le sommarie filippiche di Foucault e le strampalate e innocue decostruzioni di Derrida.
L’ossessione del potere non era una cosa nuova nella cultura italiana, almeno nella cultura filosofica. Il Risorgimento? Quell’idea di “fare gli italiani” dopo che era stata fatta l’Italia? Frutto della febbre nazionalistica che aveva preso ad ardere nei paesi diventati nazioni nel corso dell’Ottocento? La filosofia militante non era di casa anche in Germania, un paese con una vicenda nazionale simile alla nostra? E in entrambi i paesi la patria e i partiti totalizzanti arruolavano intellettuali e condannavano quelli sordi alle lusinghe. Da noi i “grandi intellettuali”, come Croce, Gramsci o Gobetti, sono sempre stati molto militanti, con più impegno che ricchezza o finezza dei mezzi concettuali impiegati. Flores d’Arcais cita tra i “buoni”, precursori della riscoperta del realismo, Abbagnano, Geymonat, Bobbio, con il loro neoilluminismo, e Della Volpe, con la sua eresia marxista. Il neoilluminismo finì presto con la filosofia popolare di Abbagnano, le mescolanze avventate di logica, dialettica e razionalismo di Geymonat e l’abbandono della teoria generale del diritto da parte di Bobbio, tornato presto alla predicazione politica; quanto alle avventure del marxismo più o meno eretico, le ricordiamo tutti.
A smascherare il potere arrivò anche in Italia la rivincita degli sconfitti. Heidegger era stato servo abietto del potere più macabro ed era uscito male dalla sconfitta del suo paese, ma riapparve e diventò la bandiera dell’antipotere, in Italia subito issata anche dagli allievi degli spiritualisti, che avevano messo insieme fascismo gentiliano e filosofia cattolica. Le riforme e la rivoluzione pacifica e democratica, strade lungo le quali si erano messe in cammino schiere di intellettuali più o meno organici, erano prospettive finite. Il grande progresso scientifico e tecnico, che aveva cambiato la vita nella prima metà del Novecento era illusorio, un mostruoso progetto di dominazione, con dominatori anonimi, che non poteva essere contrastato in modo selettivo, ma andava rifiutato in blocco o usato in modo ludico.
A giocare con il potere si perde sempre. Se vuoi indirizzarlo, correggerlo, prenderlo sul serio e farne una cosa accettabile ne diventi servo; se lo neghi del tutto, ti contagia, ti infetta, facendoti partecipe. Questo è accaduto ai negatori radicali del potere: sono andati al potere, sono diventati deputati nazionali o europei, sindaci, sono comparsi ovunque, ospiti incombenti di chiacchiere televisive, un po’ giullari degli invidiati signori del potere, divertiti dalle loro sfide verbali. La crisi delle ideologie novecentesche ha aiutato: a corto di compiacenti filosofie della storia, quando le finte teorie scientifiche dei politici sono state sostituite dalle “narrazioni”, i sospettosi del potere hanno pagato il loro debito con chi li aveva contagiati di potere. Di narrazioni ne hanno fornite a iosa, apparentemente originali, in realtà tutte uguali e tutte noiosissime. Soprattutto hanno assicurato che tutto è narrazione e dunque tutto si può manipolare, raccontare in tanti modi e in definitiva come si vuole.
Qualche mese fa ho potuto assistere a Reggio Emilia, durante il festival della laicità, a un interessante dibattito tra Vattimo e Flores d’Arcais. Quest'ultimo sosteneva che le scienze ci hanno fatto sapere molte cose e giustamente invitava a guardare al loro contenuto, un’indicazione che va approfondita, in contrasto con la tendenza dei filosofi a guardare alla struttura del sapere scientifico, ai suoi fondamenti, ai suoi metodi, in sostanza da fuori. I filosofi hanno sempre preso le cose da questo lato, un po’ perché sapevano poco o nulla dei contenuti delle scienze, un po’ perché potevano così trasformare le nozioni scientifiche in qualcosa di soggettivo e spirituale, facendo delle cose le ombre delle idee; ma spesso perfino queste erano ritenute troppo forti e venivano sostituite con le parole: le cose ombre delle parole. Polemizzando con il pensiero debole ho sempre evitato di far leva sulle posizioni estremistiche dei suoi esponenti, sfruttando i ridicoli incidenti nei quali sono caduti alcuni di loro. Ma le risposte di Vattimo a Flores d’Arcais sono state imbarazzanti. La ripetibilità degli esperimenti? Propaganda, argomento da commesso viaggiatore, che non smette di tirarla in lungo sui pregi dei suoi prodotti. Il gentilissimo e leale Flores d’Arcais tentava di dire che sì, la soggettività va bene: chi oserebbe mancare di rispetto a Kant e mettere in piazza i suoi trucchi? Ma c’è differenza tra la soggettività di una teoria scientifica e quella di una narrazione alla Foucault o una decostruzione alla Derrida. Niente da fare: Vattimo ha tenuto duro, non è ricorso a Gadamer, ma ha invocato il soccorso di Apel. Poi, a tavola, un Vattimo sempre spumeggiante e spiritoso si è innervosito un po’ quando gli si è ricordato che altro è risolvere un problema di Hilbert altro inventare una teoria filosofica portatile alla Umberto Eco, che i teoremi non li si approva per far piacere al Pentagono né per alzata di mano.
Nell’intervento sul dibattito tra Vattimo e Ferraris, Flores d’Arcais assume un atteggiamento prudente e un po’ sospettoso nei confronti della marcia di Ferraris alla conquista della realtà. Con durezza Flores d’Arcais dice che, al di là di tutte le heideggerate, il rifiuto della realtà e della verità da parte dei debolisti era soprattutto il rifiuto della validità della conoscenza scientifica. Il realismo di Ferraris è riconoscimento di ciò che il suo maestro proprio non sopporta? Leggo le cose di Ferraris, anche se non posso dire di conoscerle a fondo. Ciò che fa sorgere qualche dubbio anche in me è l’idea di raggiungere la realtà per via filosofica. Chi mai chiederebbe a un filosofo se una cosa è reale o se un’affermazione è vera? I filosofi attribuiscono o negano la realtà di blocchi interi: le idee, i numeri, l’anima, la materia ecc. oppure parlano della realtà del reale o della verità delle affermazioni vere. Quando provano a entrare nei particolari hanno incidenti indimenticabili: dopo che Eudosso e Callippo avevano provato a contare le sfere nelle quali si muovono i corpi del sistema solare, Aristotele volle correggerli, introducendo un numero spropositato di sfere, e non fece bella figura. Di solito i filosofi si tengono sulle generali e si limitano a discutere se esista una realtà indipendentemente dalle idee che se ne ha o se ci sia una verità indipendentemente dai mezzi con i quali la si accerta. Sono cose che intrattengono i filosofi, un po’ meno gli altri, anche se diventano pericolose quando servono a offrire pretesti per cancellare sezioni intere di faccende scomode.
La filosofia occidentale, cioè la filosofia, era all'origine un sistema di credenze sul mondo, e la sua versione platonica e aristotelica fu il tentativo di conservare questa impostazione quando le conoscenze sul mondo stavano cambiando. Quando il geocentrismo crollò per i filosofi fu una vera tragedia, che dovettero fronteggiare ricuperando dottrine stoiche ed epicuree, nate dal rifiuto delle immagini cosmologiche, fondamentali per Platone e Aristotele. In questa prospettiva si prese a dire che ciò che si veniva a sapere sulle cose e sul mondo era il prodotto di un sistema di segni e che qui stava la chiave per accedere alla realtà: c’erano i segni, ma c’era qualcosa oltre i segni? E che cosa di ciò che pareva stare oltre i segni era reale? Le combinazioni di segni potevano essere vere o false, ma c’era qualcosa che costituisse la verità delle combinazioni? Di alcune combinazioni di segni era più facile capire subito se si riferissero a qualcosa o se fossero vere o false, di altre meno, e in certi casi il sistema di segni usato poteva creare difficoltà proprie e generare inganni, ma erano casi estremi, che di solito gli utilizzatori dei segni sapevano risolvere per conto loro. Invece i filosofi pretendono di intervenire loro per dire se c’è qualcosa oltre i segni o non c’è nulla, anche quando i sistemi di segni e le teorie possono stabilire il proprio grado di attendibilità o di isomorfismo tra i segni e i loro oggetti. Anche quando riconoscono l’attendibilità delle conoscenze positive i filosofi si arrogano il compito di spiegare perché esse siano attendibili e di chiarirle, andando oltre la chiarezza intrinseca alle conoscenze valide.
I filosofi cercano anche di mettere insieme i sistemi di conoscenza organizzati e indipendenti dalle credenze, tra le quali si aggira la filosofia, e le conoscenze più dirette e circostanziali, quelle con le quali si trova la via di casa (per dirla con Platone), distinte dalle conoscenze degli astri e dei numeri. Per i sospettosi radicali nulla si è salvato e l’impostura scientifica ha corrotto anche l’esperienza ordinaria, nella quale l’uomo ha dimenticato l’essere. Per i realisti bisogna tenere insieme i due sistemi ed eventualmente fare della conoscenza scientifica una continuazione dell’esperienza ordinaria. Non è facile, perché le conoscenze scientifiche possono anche nascere dai dati dell’esperienza ordinaria, come insegnava l’empirismo classico, ma poi quelle conoscenze tendono a distruggere le certezze correnti. E tra queste ci sono le credenze che pesano, quelle con le quali le persone costruiscono i propri progetti, le proprie illusioni, le giustificazioni delle proprie delusioni, le condanne degli altri e le assoluzioni di se stessi.
Hume era un abile analista, che sapeva dar fondo alle risorse della scolastica per offrire, con l’aiuto della psicologia filosofica aristotelica, un’idea semplificata dell’esperienza da cui nascono le spiegazioni scientifiche. Così lasciava da parte giudizi e credenze e sanciva la separazione dell’essere dal dover essere. Ma Hume sapeva che l’indipendenza del dover essere dall’essere aveva un prezzo anche per il dover essere; ed è questo che il richiamo ottimistico alla sua formula respinge. Ritorna allora la contrapposizione tra fatti e valori e a questi ultimi si dà la piena sovranità che al sapere scientifico si riconosce sui fatti. Il regno dei valori sarà anche anarchico e conflittuale, ma sembra dominato da contrapposizioni dettate da scelte sovrane. Ai teorici del primato dell’interpretazione sui fatti si rimprovera di giustificare le posizioni di Berlusconi o di Bush, dando credito alla pretesa di fabbricare la realtà con le parole. L’idea di fabbricare la realtà con i valori, un’idea cresciuta nella Germania di Marburgo, Heidelberg e Friburgo, patria dei grandi impostori del Novecento, non è molto diversa. Le cose che dice Flores d’Arcais sulla scienza economica fanno pensare agli slogan che proclamavano tutto possibile. Sull’economia scientifica pesa una facile propaganda, ma la battuta sugli economisti e la borsa fa il verso a quelle sugli statistici che, avendo incontrato un vedente e un cieco, concludono che metà della popolazione è cieca. Una cosa almeno l’economia scientifica può fare: insegnare che non sempre l’entendance suivra.
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