mercoledì 7 ottobre 2015

VISIONI DA UN CERVELLO MORENTE

Estratto da 'Niew Scientist" 5 maggio 1988 da un articolo di Susan Blackmore
Le NDE possono dirci di più a proposito  della  coscienza e del cervello che sull’esperienza oltre la tomba.

D
 opo 15 anni di ricerca, una cosa è chiara: quando la gente arriva vici­no alla morte e poi si ristabilisce, tende descrivere un insieme di esperienze strutturate.
1975 Raymond Moody ha pubblicato per  la prima volta la sua raccolta di NDE "Le vite oltre la vita" (op. cit.). Il suo resoconto include esperienze di flut­tuazioni lungo un tunnel scuro, esperienze di abbondino del corpo e la capacità di osservare processi in atto con di­staccata lontananza, incontri con `esseri di luce’ che li aiutavano a riesaminare la vita trascorsa, la sensazione di essere _passati in un altro mondo, il cui limite estremo segnava il ritorno dalla gioia, dall’amore e dalla pace alla sofferenza, alla paura o alla malattia.
Moodv non ha fatto nient'altro che raccogliere i casi, e pochi credevano che la sua descrizione piuttosto idealizzata avrebbe retto a una ricerca approfondi­ta. In realtà resse benissimo. Kenneth Ring, dell'Università del Connecticut, -a intervistato 102 persone che si erano Tavate vicine alla morte a causa di ma­lattie, incidenti e tentati suicidi. Di questi almeno la metà hanno riferito espe­rienze che erano conformi alla descrizio­ne di Moody (Life after Death, New York, Coward, McCann and Geoghegan 1980). Ring sistematizza in cinque stadi l’esperienza vicina alla morte: pace se­parazione del corpo, ingresso nell'oscu­rità (o nel tunnel), vedere la luce ed en­trare nella luce. Non solo questi cinque stadi tendevano a presentarsi in ordine, il primo stadio era il più comune, i160% delle persone intervistate ha riferito lo stadio della pace e il meno comune è sta­to riportato al 10%. Tutto ciò sembrava implicare una sorta di esperienza già prestabilita che era in procinto di evol­versi negli stadi più lontani e più pro­fondi mano a mano che una persona si avvicinano di più alla morte. Più recen­temente Bruce Greyson, uno psichiatra dell'Università del Michigan, ha conte­stato l'ipotesi di invarianza sull'Ameri­can Journal of Psychiatry (Vo1.142, pag. 967, 1985). Bruce Greyson ha constata­to che le esperienze vicine alla morte non sono totalmente `invarianti'.
Tali esperienze tenderebbero a prende­re forme diverse in culture diverse. Il tunnel è così convincente che la gente pensa sia una sorta di passaggio `reale' verso la prossima vita. L'esperienza fuo­ri dal corpo è così realistica che le per­sone sono convinte che il loro spirito ha lasciato il corpo e possa vedere e muo­versi senza di esso. Le emozioni positi­ve sono così forti che molti non voglio­no tornare indietro. Per coloro che rag­giungono gli stadi finali, sembra essere presa una decisione conscia di tornare indietro alla vita e alle responsabilità, piuttosto che rimanere nella beatitudi­ne e nella pace. Per molte persone, la vita successivamente è molto diversa, dicono di essere meno materialisti, mol­to più riconoscenti verso la vita e più at­tenti al benessere altrui.
Come possiamo spiegare i tunnel, le esperienze fuori dal corpo e le trasfor­mazioni nella vita successiva?
 Nella cul­tura esoterica, il corpo astrale è il vei­colo della coscienza, che si separa   permanentemente dal corpo fisico dopo la morte, ma può anche separarsi temporaneamente, durante la vita.
Pertanto l'esperienza fuori dal corpo è realmente una `proiezione astrale'. Il tunnel è una transizione fra il mondo astrale e quello esoterico; l'oscurità ac­cade quando la coscienza è trasferita da uno all'altro.
I problemi che nascono da tale spiega­zione sono numerosi. C'è la questione di sapere di cosa è composto l'astrale e co­me l'astrale e il fisico interagiscono (in effetti si tratta del riflesso di tutti i pro­blemi corpo/mente).
C'è sempre stata la speranza che nuovi strumenti potessero finalmente rivelare il corpo astrale. Ma l'accresciuta sensi­bilità degli strumenti ha dimostrato sol­tanto una riduzione in misura di qualsia­si preteso risultato. Ho sostenuto che queste teorie non hanno progredito (Be­yond The Body, Londra, Heinemann 1982). Nonostante ciò, esse hanno una grossa attrattiva: se dobbiamo fornire teorie migliori, dobbiamo non solo criti­care le teorie esoteriche nella sostanza, ma produrre alternative che si inseri­scano nel contesto della scienza e forni­scano ipotesi verificabili e che abbiano un senso che le persone che hanno fat­to esperienze vicino alla morte. È un compito molto complesso, ma non im­possibile.
L'astronomo Carl Sagan ha precisato, con molto incoraggiamento popolare, che possiamo fondare la universalità delle esperienze vicino alla morte solo facendo riferimento alla sola esperienza che noi tutti abbiamo in comune: la na­scita. Così il tunnel è realmente il cana­le della nascita e l'esperienza del tunnel e l'esperienza fuori dal corpo sono un re­play della nascita. Le capacità cognitive di un nuovo nato non sono però tali da poter ricordare l'esperienza in un modo che possa avere senso per un adulto, 20 50 anni più tardi.
Un aspetto positivo di tale teoria è che è verificabile. Se i tunnel e le esperien­ze fuori dal corpo sono un replay della nascita, le persone che hanno avuto il parto cesareo non dovrebbero averle. Ho distribuito un questionario a 254 persone di cui 36 erano nate con il ta­glio cesareo. Entrambi i gruppi riporta­no la stessa proporzione di esperienze fuori dal corpo e di tunnel. Potrebbe es­sere che queste esperienze si basino sul­l'idea della nascita in genere, ma questo indebolisce drasticamente la teoria.
La teria più debole di tutte è l'asserzio­ne superificiale che queste esperienze sono `mere allucinazioni', sebbene que­sta è stata spesso la `risposta scientifi­ca', che conduce però ad un'altra doman­da: perché proprio queste allucinazioni? Perché la luce alla fine? Perché le espe­rienze fuori dal corpo sul soffitto e non sull'alluce? Perché sembrano così reali? Un approccio effettivo deve essere in grado di rispondere a queste domande. Il tunnel sembra avere un'origine piut­tosto interessante nella struttura del si­stema visivo. Non accade solo nelle esperienze vicino alla morte, ma nell'e­pilessia o in certi casi di forte mal di te­sta, quando ci si addormenta, quando si medita, o solo ci si rilassa facendo pres­sione su entrambi gli occhi, o con certe droghe quali LSD, psilocibina o mesca­lina. Negli anno '30, Heinrich HIuver, presso l'Università di Chicago, notò questo fenomeno come una delle forme costanti, nelle allucinazioni indotte da droghe... altre forme riportate erano la rete, la spirale e la ragnatela. Perché queste condizioni diverse producono le stesse allucinazioni?
La corteccia visiva del cervello, che elabora sia la -visione che l'immaginazione visiva, è abitualmente in uno stato stabile  mantenuta in questo stato essenzialmente da alcuni neuroni che ne inibiscono altri. Molte delle condizioni che producono le allucinazioni riducono o interferiscono con l'inibizione. L'LSD, per esempio, sopprime l'azione delle cel­lule raphe, che regolano l'attività della corteccia visiva. Qualsiasi interferenza con l’inibizione può determinare uno statodi grande eccitazione. Jack Cowan,un neurobiologo dell'Università di Chicago, ha precisato sei anni fa, usando un analogia con la meccanica dei fluidi, che l’eccitabilità corticale in aumento avrebbe destabilizzato lo stato uniforme e indotto onde di attività che si propa­gavano attraverso la corteccia visiva. Che tipo di percezione avrebbero prodotto queste onde? Lo spazio visivo è innanzitutto rappresentato nella retina e in diverse aree della corteccia visiva. Il centro del campo visivo utilizza molti più neuroni che la periferia, e l'immagine completa è strutturata dalla mappa della retina verso il cervello, per mezzo una complessa funzione matematica. Cowan mostra che a causa di questa struttura a mappa, le onde di attività nella cortec­cia apparirebbero come se ci fossero de­gli anelli concentrici, dei tunnel o delle spirali nel mondo esterno. Il movimento ­delle onde produrrebbe un'espansione di riduzione. Sembra così che il tunnel sia la naturale conseguenza del modo in cui la cor­teccia visiva rappresenta il mondo visi­vo. E la luce alla fine? Poiché il numero di neuroni preposti ad ogni unità di area = più elevata al centro del campo visivo, n si aspetterebbe un effetto più intenso ai centro, se tutti i neuroni fossero toc­~ati dall'allentamento dell'inibizione. Presumibilmente, più il sistema è distri­buito, più grande è la luce, sebbene nes­suno abbia mai provato sperimental­mente quest'idea.
Rimangono molte domande: come e per­ché nelle esperienze vicino alla morte sembra che ci si muova sempre in avan­ti attraverso il tunnel, e non necessaria­mente in altre esperienze. La domanda più presente, comunque, è perché, se è un'allucinazione, sembra così reale.
La risposta a questa domanda sta nel chiedersi che cosa rende le cose reali. La distinzione `là fuori' e `nella mia men­te' non è facile per quanto concerne il sistema nervoso. Appena inizia 1'elabo­raizone visiva o uditiva, l'informazione proveniente dalla memoria si mescola con 1'input sensoriale. Non appena l'in­formazione passa attraverso i differen­ti stadi di elabrazione, linee, confini; spa­zi ed oggetti vengono rappresentati in diversi modi. È del tutto improbabile che una semplice etichetta possa essere applicata con la definizione `questo pro­viente dall'esterno' e `questa è un'alluci­nazione'. Proporrei invece che la deci­sione venga fatta ad un livello molto più elevato: il sistema prende semplicemen­te il modello più stabile del mondo che si presenta in un dato momento e lo chiamo `realtà'.
Nella vita normale c'è un solo `modello di realtà' che è decisamente più stabi­le, coerente e complesso: è quello strut­turato per mezzo degli input sensoria­li. È il modello `io, qui e ora' Sto sug­gerendo che questo modello sembra più reale solo perché è il migliore che il si­stema ha a disposizione in un dato mo­mento.
Ma cosa succede a un sistema morente? Cosa succede a un cervello in cui opera una disinibizione estensiva, disturbato da fragori, in condizioni di pericolo, di incapacità a produrre un modello fun-zionante di realtà? Potrebbe darsi che le onde di attività nella corteccia visiva siano il modello più stabile che il siste­ma ha a disposizione, ecco che natural­mente esso sembra reale, d'altra parte è reale tanto quanto ogni altro modello che sia stato, in dato momento, reale, perché è il miglior modello del momen­to. Dato che l'elaborazione delle imma­gini avviene anche a livello della cortec­cia visiva, ha senso che altre immagini, e persino altri mondi complessivi siano incorporati nel tunnel di prospettiva. Nessun sistema sensibile lascerebbe perdere, giunto a questo punto. Cosa do­vrebbe fare? L'obbiettivo ovvio sarebbe quello di ritornare al modello prodotto dagli input sensoriali - rappresentazio­ne stabile del mondo fuori - al più pre­sto possibile. Un modo per farlo è di ba­sarsi sulla memoria: domandarsi "Chi sono?" "Dove sono?" "Cosa sto facen­do?" Le risposte saranno presenti nella memoria se rimane sufficiente capacità di elaborare. Sappiamo, però, cose inte­ressanti sui modelli della memoria. Spesso sono visioni a volo d'uccello. Sup­poniamo che il sistema di una donna mo­rente costruisca un modello di quello che lei sa sta succedendo: il suo corpo sul ta­volo operatorio, i chirurghi attorno, le luci sopra e tutto l'apparato. Questa po­trebbe essere una visione a volo d'uccel­lo dal soffitto. Potrebbe essere un buon modello. Abbiamo solo da pensare qua­le è il potere della radio nell'evocare det­tagliate immagini visive per renderci conto quanto questa ipotesi potrebbe es­sere valida. Questo modello potrebbe persino incorporare alcuni input, come i rumori fatti dalle persone che parlano attorno, o il rumore dei ferri sul carrel­lo, per non menzionare le scosse dei ten­tativi di rianimazione. In tal modo il mo­dello mentale che si produce, non solo sarebbe convincente ma conterebbe persino alcuni dati corretti circa gli eventi che stanno accadendo in quel mo­mento - e questo a volto di uccello. Se questo modello è il migliore che il siste­ma ha in quel momento esso apparirà come perfettamente reale. Ancora una volta è `reale' nello stesso senso in cui qualsiasi altra cosa è reale. Questo è, secondo me, quello che accade nell'espe­rienza fuori dal corpo.
A partire da questo approccio sono pos­sibili molte ipotesi verificabili. Per esem­pio, le persone che hanno sperimentato esperienze fuori dal corpo potrebbero esser quelle stesse che più facilmente sono in grado di immaginare scene a vo­lo di uccello, o che possono cambiare più facilmente punti di vista nella loro im­maginazione. Ho avuto conferma di quanto sopra in molti esperimenti (Jour­nal of Mental
Imaginary, vol. ll, pag. 53, 1987): queste persone potrebbero esse­re le stesse che sanno richiamare cose con una visione a volo di uccello. Sia io che Harvey Irwin dell'Università del New South Wales, in Australia, abbia­mo scoperto che le persone che hanno avuto esperienze fuori dal corpo tendo­no ad assimilarsi alle persone che ri­cordano i sogni a volo di uccello, sebbe­ne non abbiano le stesse capacità per gli eventi avvenuti nello stato di veglia. La ragione di ciò non è chiara, ma questo approccio sembra produrre maggiori progressi che quello basato sulla nozio­ne secondo cui `qualcosa' lascia il corpo. Esiste però una piccola prova che rap­presenta una grande sfida al punto di vista che ho esposto. Michael Sabom, un cardiologo di Atlanta, Georgia, ha riven­dicato che alcuni pazienti hanno visto, durante le esperienze vicino alla morte, cose che non avrebbero potuto inventa­re attraverso l'udito o per mezzo di   quanto essi stessi sapevano sulle tecni­.che  rianimazione (Recollections of Corgi, 1982). Questo ricercatore non ha soltanto raccolto alcuni racconti come, per esempio, il caso di una scarpa vista in un angolo inaccessibile della finestra, ha chiesto anche ai soggetti di immaginare di andare attra­verso la procedura di rianimazione e di­ che cosa vedessero.
Ci sono alcuni problemi sul lavoro di Sabom. ­Dovrebbe essere svolto un control­lo più accurato sui soggetti che effetti­vamente sono passati attraverso 1'intero processo ed hanno sperimentato le azioni e le conversazioni dello staff. Il  comportamento degli aghi dovrebbe essere registrato con precisione in modo da confrontarlo con i resoconti dei pazienti sull'esperienza vicino alla morte. Questo è l’oggetto della futura ricerca.
Solo allora saremo in grado di sapere se i dati di Sabom costituiscono una reale sfida al punto di vista che ho esposto qui e se gli stessi dati contengano una spe­ranza per coloro che guardano per 'qual­cosa di più' dopo la morte.
È, in ogni caso, un'esperienza straordi­naria essere buttati fuori dai limiti nor­mali del mondo sensoriale e dover af­frontare i limiti dei propri modelli men­tali. È devastante scoprire che altri mondi, tunnel o uscite dal corpo possa­no sembrare reali. Se sosteniamo l'ipo­tesi che la coscienza dipende dai model­li mentali strutturati in un dato momen­to, la coscienza della gente che ha fatto tali esperienze deve ovviamente uscirne trasformata. Anche quando si ritorna al normale e il mondo `reale' riprende il so­pravvento, non si può dimenticare che a un certo momento altri mondi sono sem­brati `reali', che il corpo era inutile e che non esisteva più nemmeno il sé. È uno scontro diretto con la natura costruita del sé e del mondo: non possono sem­brare più così solidi e importanti come prima.
Le esperienze vicino alla morte, dopo tutto, sono trascendenti e trasformanti, ma non così misteriose. Possono dirci molto sulla coscienza e sul cervello che non su quanto accade oltre la tomba
Le molteplici componenti possono esse­re osservate come cambiamenti nei mo­delli mentali, derivanti dalla disinibizio­ne della corteccia e della caduta del nor­male modello mentale di realtà che nasce dagli input sensoriali, non posso­no essere tralasciate come mere alluci­nazioni: sono allucinazioni importanti e di trasformazione che dovremmo com­prendere meglio.
Per contatti: Sue Blackmore, Brain and Perception Laboratory, University of Bristol, Bristol B 58 LTD, England.




TRA LA VITA E LA MORTE 

Di boschi, prati e fiori visti - nell' al­dilà' ne parla spesso anche chi rie­merge dal coma. "Mentre ero in stato di inconscienza", racconta Massimo Picca­gli, di Verona "ho visto un solo albero in mezzo a un prato pieno di fiori bianchi, forse margherite, poi mi è venuta incon­tro mia nonna, che mi ha preparato la cioccolata, come quando ero piccolo". Questa costante dei prati verdi, fioriti, o dei lunghi pieni di luce visti durante il coma viene confermata da molti studio­si che si occupano di questo fenomeno. "Almeno il cinquanta per cento di colo­ro che tornano dall'aldilà hanno visioni di questo genere", afferma la psicologa veronese Gemma Zampini, che da mol­ti anni sta raccogliendo materiale su questo argomento con altri studiosi, in Italia e in Sudamerica (soprattutto in Venezuela e in Brasile): "Io stessa da piccola ho avuto un'esperienza simile; a tre anni ho battuto la testa contro uno spigolo e dopo aver ripreso conoscenza ho incominciato ad avere fenomeni psi­chici: per esempio descrivevo persone per me reali, ma che solo io vedevo, la cui immagine corrispondeva a parenti defunti."
"In età adulta ho avuto un grave inci­dente e sono entrata in coma: mi sono vista precipitare in un grande vortice blu, in fondo al quale vedevo una luce abbagliante, incandescente, e al di là un prato verde. Poi mi sono sentita risuc­chiare e sono rientrata bruscamente nel corpo, con una sensazione molto sgra­devole. In un'altra occasione sono cadu­ta in un simile stato d'incoscienza: in ospedale mentre i medici cercavano di rianimarmi, sentivo perfettamente ciò che accadeva intorno a me e i loro di­scorsi. Proprio per questo negli ospeda­li non si dovrebbe mai parlare sconside­ratamente accanto ai pazienti, pensan­do che non sentano". Una conferma di questo ci viene anche da un ragazzo di Padova, Federico Ballan, che nell' 85, a tredici anni, è rimasto in coma dopo un incidente di macchina per trentacinque giorni: in seguito ha raccontato che in questo periodo di "incoscienza" sentiva perfettamente i discorsi intorno a lui, a cui tentava di rispondere, ma nessuno lo sentiva, tanto che si metteva a piange­re per la disperazione.
"Spesso cerco di aiutare con le mie fa­coltà chi si trova in coma, con risultati a volte incredibili", prosegue Gemma Zampini, che spesso entra in incognito anche tra le corsie ospedaliere, per cer­care di aiutare chi soffre. "Così è acca­duto con Maddalena, una ragazza che non avevo mai visto alla quale ho cerca­to di dare energia, concentrandomi sul­la sua foto mentre ascoltavo l'adagio di Albinoni. Quando, dopo alcuni giorni è uscita dal coma, ha chiesto insistente­mente di ascoltare musica classica, per­ché voleva ritrovare quella musica che aveva percepito in un'altra dimensione: proprio l'adagio di Albinoni. Quando ci siamo incontrate per la prima volta due anni dopo, mi ha immediatamente rico­nosciuta e abbracciata, confermandomi di aver visto me e la mia casa mentre era in coma. Questa dinamica delle per­sone che vedono me e la mia casa, an­che se non mi hanno mai incontrata, si è ripetuta più volte".
Ed ecco l'esperienza, quasi identica, di una diciannovenne di Caserta, Simona Gibino: "Il 26 ottobre ' 88, in seguito a



Un incidente d’auto, sono entrata in coma ci ha  raccontato. "Mia zia ha telefonato a Gemma che io non conoscevo e non avevo mai visto, pregandola di in­tervenire a distanza, sulla mia fotogra­fia per provare a tirarmi fuori da questo stato. Mentre ero in coma, ero con­sapevole di ciò che mi accadeva e continuavo a vedere due occhi molto particolari, intensi, che mi fissavano e che in seguito ho scoperto essere quelli di Gemma, sentivo le sue incitazioni a ritornare alla vita e anche una musica che cercava di trasmettermi. Solo che a questa situazione se ne è sovrapposta un'al­tra più bella: sono passata attraverso galleria buia, oltre la quale intrave­devo una luce immensa, e al di là ho trovato un fiume  d'argento, in cui avrei vo­luto tuffarmi. Intanto sentivo una voce stupenda che continuava a parlarmi, senza sosta, infondendomi una grande pace che mi faceva rinascere: ricordo solo poche parole. Mi diceva che sulla terra c’era troppo odio, che non sapevamo più vivere in pace, in amore e che io dovevo ritornare per insegnare che esiste un amore diverso da quello che l'uomo insegue. Mentre mi parlava vedevo una schiera di anime sofferenti, che guarda­vano con ansia verso il basso, verso la Ter ­ra senza vedermi e poi un gruppo di bambini stupendi, che mi tendevano le mani. Poi di colpo mi sono ritrovata in ospe­dale sopra il mio corpo che mi sembra­: inutile, ho visto i medici che si affaticavano tentando di riportarmi in vita.improvvisamente sono passata in un ca­re immenso e ho sentito il mio corpo che sudava e i medici che parlavano. "Se suda allora è viva", hanno detto. Poi ho perso conoscenza. Ma quando sono rie­mersa, non mi riconoscevo più, ho dovu­to far fatica ad accettare la realtà che mi circondava".
Ed ecco la testimonianza di Giuseppina N., di Milano: "Nel ' 61, in seguito a un incidente, ho avuto un arresto cardio­circolatorio: improvvisamente ho visto il mio corpo dall'alto, dall'altezza del sof­fitto. In questo stato ho provato un grande benessere e una sensazione di leggerezza. Osservavo tutto con grande distacco, senza avere la coscienza della mia identità, finché ho visto entrare nel­la stanza mio marito e mia madre e al­lora mi sono ricordata chi ero. In quel momento ho sentito i medici che mi in­citavano a respirare: con grande fatica ho fatto un respiro e sono rientrata su­bito. Io non so giudicare questa espe­rienza, che ho sempre attribuito all'ane­stesia: però l'ho avuta".




  IL DESTINO DEI MAGHI: INTRODUZIONE ALL'ARTE DEL PASSARE A MIGLIOR VITA 

Quando, verso la metà degli anni '70, scelsi un simbolo grafico da asso­ciare alla mia attività professionale il ca­so e il mio inconscio mi indirizzarono a decidere per un geroglifico egizio ripre­so dall'anello mortuario di un faraone. Esso rappresenta simbolicamente il passaggio dalla vita nota alla vita igno­ta, immaginata migliore, dell'aldilà. L"omino del labirinto', come familiar­mente lo chiamammo, mi è sempre ap­parso come la sintesi più efficace del pensiero reichiano e come la metafora più lampante di ogni processo di evolu­zione personale.
Dovettero passare alcuni anni prima che gli eventi del mio processo di sviluppo personale e professionale mi portassero ad un pieno contatto con la tematica del­la morte e del morire.
Accadde verso la fine del primo anno del training intensivo in terapia bioenerge­tica diretto dal Prof. Jules Grossman, per conto della San Francisco State University e dell'Istituto di Bioenerge­tica W. Reich, di cui a quei tempi diri­gevo la sede di Milano. Eravamo nel 1979. Jules introdusse la tematica con poche semplici istruzioni che eravamo tenuti ad assumer per vere e riferite a noi stessi:
"Siete andati dal vostro medico per co­noscere i risultati del vostro chek-up an­nuale. Vi sentivate bene e di ottimo uomo­
re, ma una sfumatura inquietante nel suo comportamento vi ha reso subito an­siosi. Vi ha invitati a sedere e rivolgen­dosi a voi con un'espressione di profon­do rammarico vi ha comunicato che vi sono rimasti tre mesi di vita. Voi avete fatto un balzo dalla sedia e avete insisti­to che di certo si trattava di un errore. Ma il medico, senza cambiare la propria espressione, vi ha confermato che le analisi erano state ripetute una seconda volta e che escludeva, con dispiacere, ogni possibilità d'errore. Siete rimasti senza parole e ringraziandolo per la franchezza ve ne siete andati".
Noi, io ed alcuni amici e colleghi, ci ad­dentrammo in modo totale nell'espe­rienza della prossimità della nostra morte. E vi rimanemmo, ciascuno a mo­do suo, per tre mesi.
Jules Grosman aveva collaborato negli Stati Uniti con la dottoressa Elisabeth Kúbler-Ross, il cui lavoro con malati ter­minali l'aveva portata a stretto contat­to con la realtà delle loro reazioni emo­tive, da lei divise in cinque fasi:
rifiuto e isolamento: "No, io no, non può essere vero". In questo stadio il ma­lato si chiude in se stesso e rifiuta di ac­cettare la propria condizione.
collera: quando ogni negazione dell'e­videnza diviene impossibile sorge spon­tanea una seconda domanda: "Perché proprio io?". Pronunciata spesso come un'imprecazione.
venire a patti: in questa fase il mala­to cerca di venire a patti con la realtà o se è religioso con la divinità, cercando un alleviamento o una dilazione: "Se Dio ha deciso di togliermi da questo mondo e non si lascia smuovere dalla mia col­lera forse sarà meglio disposto se glie­lo chiedo con delicatezza".
depressione: associata ad un grave vis­suto di perdita e spesso ad una sensazione realistica di colpa e di vergogna. Può essere divisa in depressione reatti­va correlata al blocco della collera e depressione preparatoria che prelude 1'ac­cettazione. "Proprio a me!"
accettazionequesta fase non deve es­sere confusa con un momento di sereni­tà, rappresenta piuttosto una resa all'i­nevitabile ed è contraddistinta da un relativo vuoto di emozioni. "Non mi resta che attendere la fine".
Ci tr,ovammo ad attraversare queste cinque fasi, ciascuno con i propri vissu­ti. Nel corso delle settimane Jules ci istruì prima a considerare cosa avrem­mo sempre voluto fare nella nostra vita e no,n avevamo mai fatto. Ci indusse a indagare il perché non l'avessimo mai e cosa sarebbe cambiato nelle no­stre vite facendolo.
Poi ci invitò a scrivere alcune lettere al­le persone che stavamo per lasciare. Ci comunicò quindi che era giunto il mo­mento di fare testamento. Un testamento­_spirituale che comprendesse però gli aspetti pratici della divisione dei nostri beni.
Infine ci istruì a definire le disposizioni per il nostro funerale: gli invitati, il luo­go, 1'ora, il tipo di cerimonia. Nel corso di una visualizzazione orgonismica, in stato di rilassamento profondo, vivem­mo il  nostro stesso funerale: fu uno dei pianti chiave nel mio processo di evolu­mone personale, in seguito sarei morto ancora molte volte.
Ciò che avviene nel corso di una psico­-_erapia organismica è la morte del falso lo, sostituito da un nuovo senso del sé più integrato, più vero e maturo. Anche nel processo di "dissoluzione creativa" del falso Io, come di fronte alla esperien­za della morte, il soggetto non ha alcu­na consapevolezza e nessuna certezza del dopo. La falsa immagine di sé, che ha sposato totalmente e che mostra al mondo, è l'unica realtà che conosce, è colui o colei che chiama Io. Per questo motivo Jules, per fare di noi dei buoni terapeuti ci somministrò la dura lezione della nostra `morte personale'.
Cercherò ora di descrivere, anche se sommariamente, le corrispondenti fasi emotive che, con la rinascita del sé au­tentico diventano sei, dal punto di vista della psicoterapia corporea:
rifiuto e isolamento: quando una per­sona decide di intraprendere una psico­terapia è mossa generalmente dal rifiu­to per un sintomo, che non vuole o non riesce a vedere come parte integrante della sua personalità attuale: vorrebbe liberarsene mantenendo intatta la sua au­to immagine e la visione del mondo in­torno a sé. Per questo motivo egli ha isolato il sintomo e lo presenta al tera­peuta chiedendo il suo aiuto per elimi­narlo.
collera: una volta stabilizzata la rela­zione tra paziente e terapeuta ha inizio l'analisi del carattere, condotta alla luce delle relazioni formative, all'interno del­la famiglia di origine. Emergono allora gli stereotipi comportamentali e menta­li (cognitivi) del paziente. Egli diviene consapevole delle ferite ricevute nella sua infanzia e delle carenze affettive e comportamentali dei suoi genitori. Il pa­ziente comincia a farsi carico del proprio sintomo. Ciò che suscita la sua collera è ora il comportamento passato, e spesso ancora attivo dei suoi genitori. "Perché proprio io!" "Perché ho avuto proprio questi genitori!"
- venire a patti: in questa fase il pazien­te si mostra disposto ad ammettere al­cuni problemi personali ed a rinunciare ad alcune idee preconcette e atteggia­menti stereotipati. Egli è disposto a ri­nunciare alla parte pur di salvare il tutto. Tale atteggiamento è inconsciamen­te insincero. Infatti ciò che abbiamo chiamato `parte' partecipa al tutto in modo essenziale e rinunciarvi significa in realtà rinunciare al tutto `così come si presenta'. È una fase di passaggio in cui il conscio e l'inconscio si informano reciprocamente in modo serrato nel di­sperato tentativo di trovare una soluzio­ne di compromesso, una via d'uscita il più possibile indolore.
depressione: Mano a mano che la per­sona entra nel proprio corpo avviene la depressione, intesa non secondo la psi­chiatria classica ma con la quale ha, in ogni caso, alcuni punti in comune: a) un generico talvolta profondo scoraggia­mento di fronte al compito impegnativo di rivisitare la propria vita in tutti i suoi aspetti e b) una diffusa consapevolezza di essere responsabile del mantinemen­to del sintomo, vissuta come colpa. Allo stato di depressione psichica, però, si ac­compagna una effettiva rivisitazione del corpo psichico e biologico che ha preci­samente la caratteristica di un movi­mento verso il basso (de-pressione) che finisce quando la persona torna ad es­sere con `i piedi per terra', cioè con un buon contatto con la realtà, consapevo­le di se stessa e quindi più obbiettiva verso il mondo esterno.
accettazione: eccoci alla remissione dei peccati, al perdono, alla purificazione. È il compito che nella chiesa cattolica vie­ne svolto dal sacerdote attraverso 1'e­strema unzione che, se possibile, segue l'ultima confessione. Il morente `rivede la propria vita' in modo spassionato, si pente e perdona. Ciò che avviene in que­sta fase è lo scioglimento di tutte le ten­sioni residue che ancoravano il paziente al passato impedendogli un contatto fer­mo e positivo con la realtà attuale: il per­donare equivale ad assolvere, a scioglie­re le tensioni psicocorporee, i nodi che ci legano alla visione passata e "patolo­gica" della realtà.
passaggio a miglior vita: alcune reli­gioni indicano l'aldilà come il luogo in cui gli sforzi saranno premiati, in cui ogni desiderio sarà esaudito, a patto, be­ninteso, di aver condotto la propria vita in modo irreprensibile.
Promettere il paradiso alla fine di un'a­nalisi o di una psicoterapia corporea è un'ovvia esagerazione. È realistico inve­ce aspettarsi un miglior contatto con se stessi e con il mondo. Una migliore sin­tonia col flusso della vita, cogliendo op­portunità di crescita laddove in passato vedevamo solo problemi, partecipando alla vita quotidiana come ad una ricer­ca personale (piuttosto che come ad una lotta sotto i vessilli di un falso Io, nella speranza di assicurarci una precaria so­pravivenza in suo nome).
Il modello presentato necessita ovvia­mente maggiori approfondimenti, con riferimenti clinici più precisi che per mo­tivi di spazio e di opportunità riservo ad una prossima pubblicazione.

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