Giordano Bruno è stato un filosofo, scrittore e frate domenicano italiano.Il suo pensiero, inquadrabile nel naturalismo rinascimentale, fondeva le più diverse tradizioni filosofiche - materialismo antico, averroismo, copernicanesimo, lullismo, scotismo, neoplatonismo, ermetismo, mnemotecnica, influssi ebraici ecabalistici - ma ruotava tutta intorno a un'unica idea: l'infinito, inteso come l'Universo infinito, creato da un Dio infinito, fatto d'infiniti mondi, da amare infinitamente.
Per Giordano Bruno Dio da un lato è trascendente, per cui è intelletto e ordinatore di tutto ciò che è in natura, ma nello stesso tempo è immanente, per cui Dio e Natura sono un'unica realtà da amare alla follia, in un'inscindibile unità panteistica di pensiero e materia, in cui dall'infinità di Dio si evince l'infinità del cosmo, e quindi la pluralità dei mondi, l'unità della sostanza, l'etica degli eroici furori.
Per queste argomentazioni, giudicate eretiche, fu condannato al rogo dall'Inquisizione della Chiesa cattolica; ma la sua filosofia sopravvisse alla sua morte, portò all'abbattimento delle barriere tolemaiche e aprì la strada alla Rivoluzione scientifica.
È lo stesso Bruno, negli interrogatori cui fu sottoposto durante il tragico processo che segnò gli ultimi anni della sua vita, a dare le informazioni sui suoi primi anni. « Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli dodici miglia, nato et allevato in quella città », e più precisamente nella contrada di San Giovanni del Cesco, ai piedi del monte Cicala, forse unico figlio del militare, l'alfiere Giovanni, e di Fraulissa Savolina, nell'anno 1548 - «per quanto ho inteso dalli miei»[2] - e fu battezzato col nome di Filippo, in onore dell'erede al trono di Spagna Filippo II.
La sua casa - che non esiste più - era modesta, ma nel suo De immenso ricorda con commossa simpatia l'ambiente che la circondava, l'«amenissimo monte Cicala», le rovine del castello del XII secolo, gli ulivi - forse in parte gli stessi di oggi - e di fronte al Vesuvio che egli, pensando che oltre quella montagna non vi fosse più nulla nel mondo, esplorò ragazzetto: ne trarrà l'insegnamento di non basarsi «esclusivamente sul giudizio dei sensi», come faceva, a suo dire, il grande Aristotele, imparando soprattutto che, al di là di ogni apparente limite, vi è sempre qualche cosa di altro.
Imparò a leggere e a scrivere da un prete nolano, Giandomenico de Iannello e fece gli studi di grammatica nella scuola di un tale Bartolo di Aloia. Proseguì gli studi superiori, dal 1562 al 1565, nell'Università di Napoli, che era allora nel cortile del convento di San Domenico, per apprendere lettere, logica e dialettica da «uno che si chiamava il Sarnese» e lezioni private di logica da un agostiniano, fra Teofilo da Vairano.
Il Sarnese, ossia Giovan Vincenzo de Colle, nato a Sarno, era un aristotelico di scuola averroista e a lui si fa risalire la formazione anti umanistica e anti filologica del Bruno, per il quale solo i concetti contano, nessuna importanza avendo la forma e la lingua nella quale sono espressi. Nel De la causa, Bruno scrive infatti che quantunque Averroè fosse arabo e perciò «ignorante di lingua greca, nella dottrina peripatetica però intese più che qualsivoglia greco che abbiamo letto; e avrebbe più inteso, se non fosse stato così addetto al suo nume Aristotele».
Scarse le notizie sull'agostiniano Teofilo da Vairano, del quale Bruno ebbe sempre ammirazione, tanto da farlo protagonista dei suoi dialoghi cosmologici e da confidare al bibliotecario parigino Guillaume Cotin che Teofilo fu «il principale maestro che abbia avuto in filosofia». Per delineare la prima formazione del Bruno, basta aggiungere che, introducendo la spiegazione del nono sigillo nella sua Explicatio triginta sigillorum del 1583, scrive di essersi dedicato fin da giovanissimo allo studio dell'arte della memoria, influenzato probabilmente dalla lettura del trattato Phoenix seu artificiosa memoria, del1492, di Pietro Tommai, chiamato anche Pietro Ravennate. A «14 anni o 15 incirca», rinuncia al nome di Filippo come imposto dalla regola domenicana, e assume il nome di Giordano, in onore del Beato Giordano di Sassonia, successore di San Domenico, o forse del frate Giordano Crispo, suo insegnante di metafisica, prende quindi l'abito di frate domenicano dal priore del convento di San Domenico Maggiore a Napoli, Ambrogio Pasca: «finito l'anno della probatione, fui ammesso da lui stesso alla professione», in realtà fu novizio il 15 giugno 1565 e professo il 16 giugno 1566, a diciotto anni. Valutando retrospettivamente, la scelta di indossare l'abito domenicano può spiegarsi non già per un interesse alla vita religiosa o agli studi teologici - che mai ebbe, come affermò anche al processo - ma per potersi dedicare ai suoi studi prediletti di filosofia con il vantaggio di godere della condizione di privilegiata sicurezza che l'appartenenza a quell'Ordine potente certamente gli garantiva.
Che egli non fosse entrato fra i domenicani per tutelare l’ortodossia della fede cattolica lo rivelò subito l’episodio – narrato dallo stesso Bruno al processo – nel quale fra’ Giordano, nel convento di San Domenico, buttò via le immagini dei santi in suo possesso, conservando solo il crocefisso e invitando un novizio che leggeva la Historia delle sette allegrezze della Madonna a gettar via quel libro, una modesta operetta devozionale, pubblicata a Firenze nel 1551, perifrasi di versi in latino di Bernardo di Chiaravalle, sostituendolo magari con lo studio della Vita de’ santi Padri di Domenico Cavalca. Episodio che, pur conosciuto dai superiori, non provocò sanzioni nei suoi confronti, ma che dimostra come il giovane Bruno fosse del tutto estraneo alle tematiche devozionali controriformistiche.
Non bisogna pensare che un convento fosse esclusivamente un'oasi di pace e di meditazione di spiriti eletti: soltanto dal 1567 al 1570, nei confronti dei frati di San Domenico Maggiore furono emesse diciotto sentenze di condanna per scandali sessuali, furti e perfino omicidi: non deve pertanto stupire il disprezzo che Bruno ostentò sempre nei confronti dei frati, ai quali rimproverò in particolare la mancanza di cultura; e non solo: egli fece protagonista della sua commedia Candelaio proprio un suo confratello, un fra Bonifacio da Napoli, candelaio, ossia sodomita. Tuttavia, la possibilità di formarsi un'ampia cultura non mancava certo nel convento di san Domenico Maggiore, famoso per la ricchezza della sua biblioteca ma dove, come negli altri conventi, erano vietati i libri di Erasmo da Rotterdam che però Bruno si procurò in parte, leggendoli di nascosto. L'esperienza conventuale di Bruno fu in ogni caso decisiva: vi poté fare i suoi studi, formare la sua cultura leggendo di tutto: di Aristotele e di Tommaso d'Aquino, di san Gerolamo e di san Giovanni Crisostomo, di Marsilio Ficino, di Raimondo Lullo e di Nicola Cusano.Sembra che intorno al 1569 sia andato a Roma e sia stato presentato a papa Pio V e al cardinale Scipione Rebiba, al quale avrebbe insegnato qualche elemento di quell'arte mnemonica che tanta parte avrà nella sua speculazione filosofica. Nel 1570 fu ordinato suddiacono, diacono nel 1571, studente di teologia nel 1572 e sacerdote nel 1573, celebrando la sua prima messa nel convento di San Bartolomeo a Campagna, presso Salerno, a quell'epoca appartenente ai Grimaldi principi di Monaco, e nel 1575 si laureò in teologia con due tesi su Tommaso d'Aquino e su Pietro Lombardo .Nel 1576 la sua indipendenza di pensiero e la sua insofferenza verso l'osservanza dei dogmi si manifestò inequivocabilmente: Bruno, discutendo di arianesimo con un frate domenicano, Agostino da Montalcino, ospite nel convento napoletano, sostenne che le opinioni di Ario erano meno perniciose di quel che si riteneva, dichiarando che « Ario diceva che il Verbo non era creatore né creatura, ma medio intra il creatore et la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente et il detto, et però essere detto primogenito avanti tutte le creature, non dal quale ma per il quale è stato creato ogni cosa, non al quale ma per il quale si refferisce et ritorna ogni cosa all'ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi sopra questo. Per il che fui tolto in suspetto et processato, tra le altre cose, forsi di questo ancora». Così riferì nel 1592 all'inquisitore veneziano dei suoi dubbi sulla Trinità, ammettendo di aver «dubitato circa il nome di persona del figliolo e del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre» ma considerando, neoplatonicamente, il Figlio l'intelletto e lo Spirito, pitagoricamente, l'amore del Padre o l'anima del mondo, non dunque persone o sostanze distinte, ma manifestazioni divine. Denunciato da fra Agostino al padre provinciale Domenico Vita, questi «fece processo contro di me sopra alcuni articoli, che io non so realmente sopra quali articoli, né di che in particolare; se non che me fu detto che si faceva processo contra di me di eresia per il che, dubitando di non esser messo in prigione, mi partii da Napoli ed andai a Roma». Bruno raggiunse Roma nel 1576, ospite del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, il cui procuratore, Sisto Fabri da Lucca, diverrà pochi anni dopo generale dell'Ordine e nel 1581 censurò i Saggidi Montaigne.
Sono anni di gravi disordini: a Roma sembra non farsi altro, scriveva il cronista marchigiano Gualtiero Gualtieri, che «rubare e ammazzare: molti gittati in Tevere, né di popolo solamente, ma i monsignori, i figli di magnati, messi al tormento del fuoco, e nipoti di cardinali erano levati dal mondo i frati lasciate le chiese e i conventi, correvano a questa vita esecranda» e ne incolpava il vecchio e debole papa Gregorio XIII.
Anche Bruno è accusato di aver ammazzato e gettato nel fiume un frate: scrive il bibliotecario Guillaume Cotin, il 7 dicembre1585, che Bruno fuggì da Roma per «un omicidio commesso da un suo frère, per il quale egli è incolpato e in pericolo di vita, sia per le calunnie dei suoi inquisitori che, ignoranti come sono, non concepiscono la sua filosofia e lo accusano di eresia». Oltre all'accusa di omicidio, Bruno ebbe infatti notizia che nel convento napoletano avevano trovato tra i suoi libri opere di san Giovanni Crisostomo e di san Gerolamo annotate da Erasmo e che si stava istruendo contro di lui un processo d'eresia. Nel 1577 è a Savona, poi a Torino, che giudica deliziosa città ma, non trovandovi impiego, per via fluviale s'indirizza a Venezia, dove alloggia in una locanda nella contrada di Frezzeria, facendovi stampare il suo primo scritto, andato perduto, De' segni de' tempi, «per metter insieme un poco de danari per potermi sostentare; la qual opera feci veder prima al reverendo padre maestro Remigio de Fiorenza», domenicano del convento dei Santi Giovanni e Paolo.
Ma a Venezia era in corso un'epidemia di peste che aveva fatto decine di migliaia di vittime, anche illustri, come Tiziano, così Bruno va a Padova dove, dietro consiglio di alcuni domenicani, riprende il saio, quindi se ne va a Brescia, dove si ferma nel convento domenicano; qui un monaco, «profeta, gran teologo e poliglotta», sospettato di stregoneria per essersi messo a profetizzare, viene da lui guarito, ritornando a essere - scrive ironicamente Bruno - il solito «asino».
Da Bergamo, nell'estate del 1578, decide di andare in Francia: passa per Milano e Torino, ed entra in Savoia, passando l'inverno nel convento domenicano di Chambéry; nel 1579 è a Ginevra, città dove è presente una numerosa colonia di italiani riformati. Bruno depone nuovamente il saio e si veste di cappa, cappello e spada, aderisce al calvinismo e trova lavoro come correttore di bozze, grazie all'interessamento del marchese napoletano Galeazzo Caracciolo il quale, transfuga dall'Italia, nel 1552 vi aveva fondato la comunità evangelica italiana. Il 20 maggio s'iscrive all'Università come «Filippo Bruno nolano, professore di teologia sacra».
In agosto accusa il professore di filosofia Antoine de la Faye di essere un cattivo insegnante e definisce «pedagoghi» i pastori calvinisti. È probabile che Bruno volesse farsi notare, dimostrare l'eccellenza della sua preparazione filosofica e delle sue capacità didattiche per ottenere un incarico d'insegnante, costante ambizione di tutta la sua vita. Anche la sua adesione al calvinismo era mirata a questo scopo; Bruno fu in realtà indifferente a tutte le confessioni religiose: nella misura in cui l'adesione a una religione storica non pregiudicasse le sue convinzioni filosofiche e la libertà di professarle, egli sarebbe stato cattolico in Italia, calvinista in Svizzera, anglicano in Inghilterra e luterano in Germania.
Scomunicato e processato per diffamazione, il 27 agosto è costretto a ritrattare; lascia allora Ginevra e si trasferisce brevemente a Lione per passare a Tolosa, città cattolica, sede di un'importante Università, dove per quasi due anni occupò il posto di lettore, insegnandovi il De anima di Aristotele e componendo un trattato di arte della memoria, rimasto inedito e andato perduto, la Clavis magna, che si rifarebbe all'Ars magna del Lullo. A Tolosa conobbe il filosofo scettico portoghese Francisco Sanches che volle dedicargli il suo libro Quod nihil scitur, chiamandolo «filosofo acutissimo»; ma Bruno non ricambiò la stima, se scrisse di lui di considerare «stupefacente che questo asino si dia il titolo di dottore».
Nel 1581, a causa della guerra di religione fra cattolici e ugonotti, lascia Tolosa per Parigi dove «acquistai nome tale che il re Enrico terzo mi fece chiamar un giorno, ricercandomi se la memoria che avevo et che professava era naturale o pur per arte magica; al qual diedi soddisfazione; et con quello che li dissi et feci provare a lui medesi mo, conobbe che non era per arte magica ma per scientia. E dopo questo feci stampar un libro de memoria, sotto titolo De umbris idearum, il qual dedicai a Sua Maestà; e con questa occasione mi feci lettor straordinario e provvisionato».
.Naturalmente Bruno sa che la sua vita è in gioco e si difende abilmente dalle accuse dell'Inquisizione veneziana: nega quanto può, tace, e mente anche, su alcuni punti delicati della sua dottrina, confidando che gli inquisitori non possano essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e giustifica le differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici con il fatto che un filosofo, ragionando secondo «il lume naturale», può giungere a conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per questo essere considerato un eretico. A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli «errori» commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa.
L'Inquisizione romana chiede però la sua estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano. Il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio. Nuovi testi, per quanto poco affidabili, essendo tutti imputati di vari reati dalla stessa Inquisizione, confermano le accuse e ne aggiungono di nuove.
Giordano Bruno fu forse torturato alla fine di marzo 1597, secondo la decisione della Congregazione presa il 24 marzo, secondo un'ipotesi avanzata da Luigi Firpo e Michele Ciliberto una circostanza negata invece da Andrea Del Col.Giordano Bruno non rinnegò i fondamenti della sua filosofia: ribadì l'infinità dell'universo, la molteplicità dei mondi, la non generazione delle sostanze - «queste non possono essere altro che quel che sono state, né saranno altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza s'aggionge mai, o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione, e congiuntione, o compositione, o divisione, o translatione da questo luogo a quell'altro» - e il moto della Terra. A questo proposito spiega che «il modo e la causa del moto della terra e della immobilità del firmamento sono da me prodotte con le sue ragioni et autorità e non pregiudicano all'autorità della divina scrittura». All'obiezione dell'inquisitore, che gli contesta che nella Bibbia è scritto che la «Terra stat in aeternum» e il sole nasce e tramonta, risponde che vediamo il sole «nascere e tramontare perché la terra se gira circa il proprio centro»; alla contestazione che la sua posizione contrasta con «l'autorità dei Santi Padri», risponde che quelli «sono meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura».
Sostiene che la terra è dotata di un'anima, che le stelle hanno natura angelica, che l'anima non è forma del corpo; come unica concessione, è disposto ad ammettere l'immortalità dell'anima umana.l 12 gennaio 1599 è invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali si comprendevano la sua negazione della creazione divina, dell'immortalità dell'anima, la sua concezione dell'infinità dell'universo e del movimento della Terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. La sua disponibilità ad abiurare, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma soloex nunc, è respinta dalla Congregazione dei cardinali inquisitori, tra i quali il Bellarmino. Una successiva applicazione della tortura, proposta dai consultori della Congregazione il 9 settembre 1599, fu invece respinta da papa Clemente VIII. Nell'interrogatorio del 10 settembre Bruno si dice ancora pronto all'abiura, ma il 16 cambia idea e infine, dopo che il Tribunale ha ricevuto una denuncia anonima che accusa Bruno di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo Spaccio della bestia trionfante direttamente contro il papa, il 21 dicembre rifiuta recisamente ogni abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire.
L'8 febbraio 1600, dinnanzi ai cardinali inquisitori e dei consultori Benedetto Mandina, Francesco Pietrasanta e Pietro Millini, è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per rogo; si alza e ai giudici indirizza la storica frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» («Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla»).
Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua in giova - serrata da una morsa perché non possa parlare - viene condotto in piazza Campo de' Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri saranno gettate nel Tevere.
A distanza di 400 anni, il 18 febbraio 2000 il papa Giovanni Paolo II, tramite una lettera del suo segretario di Stato Sodano inviata ad un convegno che si svolse a Napoli, espresse profondo rammarico per la morte atroce di Giordano Bruno, non riabilitandone la dottrina: la morte di Giordano Bruno "costituisce oggi per la Chiesa un motivo di profondo rammarico". Tuttavia, "questo triste episodio della storia cristiana moderna" non consente la riabilitazione dell'opera del filosofo nolano arso vivo come eretico, perché "il cammino del suo pensiero lo condusse a scelte intellettuali che progressivamente si rivelarono, su alcuni punti decisivi, incompatibili con la dottrina cristiana".
L'8 marzo 2012 l'organizzazione "Anonymous" in seguito a un'opera di hackeraggio ai danni del sito del Vaticano chiede le scuse formali da parte della Chiesa per le accuse mosse al filosofo e per la condanna a morte.
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