Gli antichi riconoscevano in Omero il primo e il più grande dei poeti greci, benché taluni credessero in ancor più antichi cantori. Il suo nome era variamente spiegato (le etimologie più diffuse lo connettevano all’espressione ho mè horôn «il cieco», o al dialettale hómeros «ostaggio», o al verbo homereîn «incontrarsi», «riunirsi»: forse un’allusione alle grandi feste panelleniche in cui i canti omerici venivano recitati dagli Aedi.) ed è citato per la prima volta in Callìno (ma la testimonianza è dubbia), Senòfane e Eraclito; ad esso si allude probabilmente già nel v. 173 dell’Inno ad Apollo, datato all’ultimo ventennio del VI secolo a.C.
La datazione variava dal IX al VII secolo a.C. Molte località si contendevano i suoi natali, e in particolare Chio, Smirne, Colofòne, ma anche Argo, Atene, Itaca, Pilo, Cuma. La vita di Omero fu oggetto di svariate e fantasiose ricostruzioni sin dal VI secolo a.C., con l’opera biografica di Teàgene di Reggio (che diede inizio peraltro a quella linea di interpretazione allegorica che avrà enorme successo dopo Platone, e specie con gli stoici), ma probabilmente con gli stessi aedi riuniti in consorterie professionali. I manoscritti medievali registrano così un considerevole numero di biografie omeriche, i più illustri dei quali sono quelli falsamente attribuiti a Erodoto e Plutarco; della stessa tradizione biografica fa parte il cosiddetto Certame di Omero e di Esiodo, il racconto di un’immaginaria competizione poetica che avrebbe visto opposti i due massimi cantori dell’epica greca: nella sua redazione attuale il Certame risale al II secolo d.C., ma è opinione comune che il suo nucleo più antico rimonti al sofista Alcidamante (IV a.C.). L’idea oggi dominante è che tali biografia dipendano, più o meno direttamente, dalla tradizione rapsodica antica, e che quindi il materiale in esse confluito sia un segno non dappoco della fortuna goduta da Omero in età arcaica e tardo-arcaica. Checché si voglia pensare sulla reale esistenza del poeta (gli studiosi sono da sempre divisi), è un fatto che la fama di Omero come massima autorità della poesia antica risulta documentata a partire dal VI secolo a.C., quando egli (o piuttosto la tradizione rapsodica che a lui si richiamava) s’impose sul piano panellenico, probabilmente inglobando non poche tradizioni locali, non è un caso che le biografie omeriche inscenino leggendari incontri fra il poeta e molti altri rapsodi arcaici di rilevanza regionale, da intendersi come costituzione ‘ideale’ di un corpus omerico legittimato dalla sua risonanza panellenica, e tuttavia risalente, attraverso un’ininterrotta tradizionale orale, alle fasi più remote della storia ellenica.
Per tutta l’antichità Omero, come poeta di Iliade e Odissea costituì il ‘‘testo base’’ della scuola e dell’educazione. Esso fu però ignoto al Medioevo occidentale e venne riscoperto, con altri classici greci, dall’Umanesimo. Osteggiato per i suoi presunti caratteri ingenui e primitivistici dall’erudizione rinascimentale e sei-settecentesca, esso dovette attendere il Romanticismo per una nuova e definitiva riscoperta che lo canonizzò come il primo autore della letteratura occidentale.
Opere omeriche
Si suole distinguere fra opere omeriche e opere pseudo-omeriche, come d’uso per ogni altra tradizione afferente a un grande autore dell’antichità classica; ma certamente il caso di Omero merita una trattazione (e una terminologia) a parte, poiché se si ammette che il nome del poeta sia stato innanzitutto la grande autorità di riferimento per una tradizione aedica di carattere orale, è difficile distinguere fra opere che avrebbero in comune, appunto, tale rinvio a un immaginario antenato, senza previe distinzioni, almeno in età arcaica, fra opere genuine e opere spurie. È un fatto però che la moderna limitazione dell’Omero ‘autentico’ all’Iliade e all’Odissea si fonda su una tradizione che risale alla tarda età classica, quando con autori come Erodoto, e poi soprattutto con Aristotele e con i filologi alessandrini, prende forma quella eliminazione dei poemi ‘pseudo-omerici’ che non mancò di far sentire i suoi effetti sulla stessa tradizione manoscritta: sicché il ritiro della paternità omerica a opere sino ad allora considerate genuine, ne causò, attraverso i secoli, la sostanziale scomparsa. Tale riduzione consiste essenzialmente nella separazione fra Iliade e Odissea da una lato, e il cosiddetto Ciclo omerico dall’altro. L’immagine del ‘ciclo’ rimanda a un’ideale ‘unità’ narrativa che comprenda tutta la vicenda della guerra contro Troia: dai più remoti antefatti mitici sino ai diversi destini degli eroi che ritornano in patria dopo la presa della città.
Il Ciclo (detto omerico, ma più precisamente ‘troiano’ per distinguerlo da cicli afferenti ad altre tradizioni mitiche, per esempio quelle relative a Tebe) comprendeva i seguenti poemi: i Canti ciprii (narravano gli antefatti dell’Iliade: dalla decisione di Zeus di risolvere la ‘crisi demografica’ con una guerra internazionale, sino alla partenza degli eroi achei comandati da Agamennone e al primo periodo della guerra di Troia), l’Etiopide (narrava il séguito dell’Iliade, dall’arrivo delle Amazzoni in aiuto di Priamo, sino all’uccisione del re degli Etiopi Mèmnone da parte di Achille e alla morte di quest’ultimo per mano di Paride), la Piccola Iliade che narravano l’ultima parte della guerra di Troia, sino all’inganno del cavallo ideato da Odisseo: ma il contenuto del poema resta dubbio e discusso, la Distruzione di Ilio che narrava la fine della guerra e l’incendio di Troia: forse era parte della Piccola Iliade, i cosiddetti Nóstoi («Ritorni»: un poema o una serie di poemetti), dedicati al viaggio che ricondusse gli eroi achei da Troia alle rispettive patrie dei quali il più famoso è naturalmente l’Odissea, la Telegonia che narrava le vicende di Odisseo dopo l’Odissea, sino alla sua morte per mano di Telègono, figlio avuto da Circe.
Tali poemi godono di una caratteristica ‘doppia attribuzione’: accanto al nome di Omero, si fanno i nomi di diversi poeti locali (Stasìno, Arctìno, Lesche e altri); questi ultimi possono essere stati ‘inventati’ dopo che la paternità omerica venne ritirata ai poemi, ma appare altrettanto se non più probabile che l’attribuzione a tali poeti sia più antica dell’attribuzione a Omero, che ne avrebbe in seguito, una volta che si è imposto come autorità panellenica, ‘inglobato’ l’opera per necessità inerenti al confronto fra diverse consorterie di aedi. Per noi perduti, i poemi del Ciclo possono essere ricostruiti, al di là dei rari frammenti, tramite il riassunto che nel V secolo d.C. ne fece Proclo nella sua Crestomazia (una sorta di ‘manuale letterario’, a sua volta conservato solo in estratti di età bizantina).
Oltre ai poemi del Ciclo, erano attribuito a Omero sino all’età classica un poema eroicomico (il Margite: che esso sia di Omero mostra di credere ancora Aristotele, che però è interessato a far discendere dal grande poeta i due ‘macrogeneri’ letterari – il ‘comico’ e il ‘serio’ – da cui sarebbero nate, rispettivamente, commedia e tragedia), mentre è probabilmente della tarda età ellenistica (se non addirittura posteriore) quella parodia nota con il nome Batracomiomachia(«Guerra delle rane e dei topi») che le nostre fonti tramandano sotto il nome di Omero. Al poeta veniva inoltre ascritta la paternità degli inni esametrici noti appunto come Inni omerici, e sopravvissuti in una raccolta di età tarda che comprende altresì brani che non hanno nulla a che vedere con l’età arcaica: ma almeno i maggiori di essi (l’Inno a Dionisio, l’Inno a Demetra, l’Inno ad Apollo, l’Inno ad Ermes e l’Inno ad Afrodite), devono risalire a un periodo a ridosso del VI-V secolo a.C.
Cenni sulla ‘questione omerica’
Con il nome di ‘questione omerica’ si intende il lungo dibattito che a partire dalla fine del Settecento (ma con notevoli anticipazioni fra XVII e XVIII secolo, e addirittura nella filologia ellenistica) mise in questione la realtà storica del poeta Omero e il processo di formazione dei poemi a lui attribuiti (in particolare l’Iliade e l’Odissea); tale dibattito si considera spesso concluso (con un’aporia o, più ottimisticamente, con un ‘superamento’ delle domande di partenza) grazie all’avvento della teoria oralistica negli anni ’30 del Novecento. In realtà, con uguale verosimiglianza, esso potrebbe considerarsi ancora in corso.
Iniziatore della ‘questione omerica’ è usualmente considerato F.A. Wolf, i cui Prolegomena ad Homerum (1795) tentano di ricostruire per la prima volta (benché oggi si tenda a evidenziare i legami di Wolf con la ricerca precedente) una storia del testo omerico nell’antichità, insistendo sul carattere orale della trasmissione testuale arcaica e attribuendo grande importanza a quella redazione scritta dei poemi omerici che già le fonti antiche attribuiscono a Pisìstrato (quindi alla seconda metà del VI secolo a.C.: realtà storica, rilevanza e modalità di tale ‘redazione pisistratea’ costituiscono uno dei più costanti problemi dell’omeristica contemporanea); Wolf giunge così a ipotizzare per l’Iliade una formazione per canti relativamente autonomi, appartenenti a diverse tradizioni rapsodiche, che solo in séguito sarebbero stati unificati a formare un solo poema attribuito a Omero. L’ipotesi (la cosiddettaLiedertheorie, «teoria dei canti») sarà ampiamente sviluppata nel secolo successivo (soprattutto da K. Lachmann) e nel Novecento (con G. Jachmann); altri, in quella che è l’epoca d’oro della filologia cosiddetta analitica, il XIX secolo, preferiranno pensare a una formazione che partendo da un nucleo originario (la cosiddetta Ur-Ilias, l’Iliade ‘originaria’) ha progressivamente fornito un ‘allargamento’ del poema, sino a giungere alla redazione attuale (principale esponente di tale prospettiva è il grande filologo G. Hermann). Simile alla teoria dei canti separati è la cosiddetta teoria dei «kleine Epen» («Piccoli poemi»), che sarebbero stati artificiosamente ‘ricuciti’ (si pensi per esempio ai primi quattro libri dell’Odissea, che formano una quasi autonoma Telemachia o poema di Telemaco) per formare due grandi poemi dall’apparenza unitaria. È evidente che le diverse teorie ‘analitiche’ (cioè miranti alla ‘scomposizione’ dei poemi omerici) tendono a porre in crisi la fede nell’esistenza di un grande poeta storico di nome Omero. Nella stessa linea si erano del resto già messi autori come l’abate d’Aubignac (le cui Conjectures sull’Iliade risalgono al 1664, ma vennero edite solo nel 1715) e il nostro G.B. Vico (nella Scienza Nuova, 1730, e particolarmente nel terzo libro), sostenendo l’inesistenza di Omero e battendo – con vari accenti – sulla natura collettiva dei poemi a lui attribuiti.
Un indubbio punto di svolta della questione omerica è segnato, fra gli anni ‘30 e ‘40 del XX secolo, da un doppio movimento di studi. Da una parte, M. Parry (e con lui A.B. Lord) compie quelle fondamentali ricerche sull’epica orale serbo-croata che daranno inizio alla cosiddetta oral formulaic theory, la teoria che intende spiegare i poemi omerici analizzando i metodi della mnemotecnica (le tecniche che consendono al cantore la memorizzazione di lunghi brani e le conseguenze della loro applicazione sulla struttura testuale) e della performanceaedica, fondata sulla ricorrenza e sulla combinazione di ‘formule’ (segmenti metrico-testuali relativamente invariabili, sulla cui esatta definizione, però, si discute tuttora) e di motivi tematici, nonché sulla straordinaria capacità di improvvisare oralmente nuove composizioni all’atto stesso dell’esecuzione (la cosiddetta composition-in-performance), capacità che non risulta inconciliabile con l’opera di un singolo cantore.
Dall’altra parte, studi come quelli di W. Schadewaldt, K. Reinhardt e più tardi J.T. Kakridis (con la cosiddetta corrente ‘neoanalitica’) hanno evidenziato, al di là delle incongruenze e delle contraddizioni rintracciate dagli ‘analitici’, l’architettura coesa e unitaria dei due poemi omerici. L’idea di un Omero storico (visto spesso come un aedo di genio, posto al termine di una lunga tradizione orale) è così ritornata in auge. Oggi più nessuno discute il fatto che Iliade e Odisseanascano dalla stratificazione di epoche e tradizioni aediche diverse, né che gran parte di tali tradizioni abbia avuto natura eminentemente orale. L’affinarsi dei metodi oralistici (con la progressiva definizione del concetto di formula e con le analisi formulari estese a pressoché tutto il corpus della poesia greca arcaica), e la formulazione di nuove ipotesi sul fondamentale passaggio da una tradizione orale a una tradizione scritta (indagine che deve contare innanzitutto sul comparativismo), hanno in certo senso preso il posto della tradizionale disputa sull’esistenza di Omero.
La lingua dei poemi omerici
Quella di Omero non è una ‘lingua’ nel senso tradizionale del termine: non vi è luogo né tempo in cui qualcuno, per le esigenze quotidiane, si sia espresso nella lingua parlata dal narratore e dai personaggi dei poemi omerici. Che essa costituisca una Kunstsprache (una «lingua artistica», cioè ‘artificiale’), e che come tale abbia goduto di una fortuna secolare, non è messo in discussione da alcuno. Il vero oggetto del contendere critico risiede nell’esatta definizione storica della lingua omerica, della sua ‘origine’ e dei suoi componenti.
Se tale lingua si fonda sulla possibilità di ‘contaminare’ una fondamentale base ionica con elementi provenienti da altri dialetti (in particolare, ma non solo, l’eolico), gli omeristi sono impegnati nella difficile impresa di comprendere in quale forma e attraverso quali vie si sia formata tale originale mistione, soprattutto a partire dal ruolo che il greco di età micenea può o deve aver giocato nelle fasi più antiche della tradizione aedica. Partendo dal presupposto che alcuni elementi eolici della lingua omerica non possono essere considerati, per ragioni metriche, posteriori trasformazioni di originari elementi ionici, vi è chi ritiene che a una fase ‘micenea’ sia seguita una fase ‘eolica’ (causata dal soggiorno in Tessaglia degli aedi sopravvissuti alla fine dell’età micenea) e quindi una progressiva ‘ionizzazione’ avvenuta sulle coste dell’Anatolia; altri sottolineano la natura già probabilmente composita, dal punto di vista dialettale, della ‘fase eolica’ o addirittura della ‘fase micenea’; altri ancora ritengono che una lingua d’arte essenzialmente ionica sia stata fin dall’origine influenzata da una lingua d’arte ‘continentale’ originariamente indipendente.
I risultati della ricerca sono dunque tutt’altro che definitivi, per quanto essa debba continuare a partire da alcuni dati che si possono considerare certi o quasi certi: il carattere originario di alcuni elementi ‘eolici’ (la maggior parte di tali dialettismi non sono ‘traducibili’ in ionico senza infrangere la metrica, mentre pare vero il contrario per la maggior parte degli elementi ionici; almeno che non si tratti, come qualcuno ha ipotizzato, di elementi ionici ‘antichi’); l’assenza di elementi dorici (che sembra indicare una data di formazione originaria anteriore all’arrivo dei Dori in Grecia); il carattere decisamente recenziore (spesso probabilmente posteriore alla stessa ‘redazione scritta’) degli atticismi, del resto rari.
La verità nascosta dell'Iliade e dell'Odissea
Da tre millenni queste domande incuriosiscono generazioni di studiosi di tutto il mondo. Giambattista Vico usò il termine “questione omerica” per definire l’infinita serie di enigmi creati dai due poemi: un autentico mattone indigesto per i poveri studenti e gli altrettanto poveri insegnanti.
E ancora: la guerra di Troia è un evento storico realmente verificatosi, oppure è solo l’invenzione di uno o più poeti, vissuti in epoche diverse?
E i resti archeologici trovati presso il villaggio turco di Hissarlik appartengono davvero alla città di Priamo ed Ettore, oppure questa identificazione è solo il frutto della lucida follia di Heinrich Schliemann, un archeologo dilettante, fortunato quanto incompetente?
In realtà nulla è sicuro, o scientificamente provato. Si tratta di una lunga serie di teorie e supposizioni, più o meno plausibili, che hanno dato luogo a infinite polemiche tra gli studiosi. Al principio degli anni ’90 sono stati pubblicati due libri che collocano a nord l’ambiente dove operano Ulisse e compagni. Il primo è del giornalista Iman Wilkens, intitolato Where once Troy stood (Dove un tempo stava Troia), che localizza l’antica Troia in Inghilterra, rilanciato recentemente grazie alla citazione del romanziere Clive Cussler nel suo Trojan Odyssey (tradotto in italiano con il titolo fuorviante di Odissea). L’altro, più convincente, pur con qualche piccolo errore che esamineremo, è il risultato dell'accurata ricerca di un ingegnere nucleare appassionato di letteratura antica, Felice Vinci, pubblicata in un saggio intitolato Omero nel Baltico, pubblicato in ben cinque edizioni e recentemente tradotto anche in russo, inglese, svedese, estone, danese e tedesco.I due libri hanno messo in crisi una delle poche certezze, ossia la grecità dei poemi e della mitologia classica, poiché anche se è vero che i poemi sono scritti in greco (ma il greco omerico è abbastanza diverso da quello classico), la localizzazione dei luoghi descritti da Omero mal si concilia con le omonime località del Mediterraneo, tanto da aver generato la diceria secondo cui “Omero è un poeta e non un geografo”. Non so se esista un sindacato dei poeti che possa organizzare una manifestazione di protesta contro l'idea che un poeta debba necessariamente essere incompetente in geografia. E poi Omero era un pignolo che descriveva tutto con un’accuratezza minuziosa, difficilmente avrebbe sbagliato continuamente e sistematicamente proprio sul nucleo dei suoi racconti, cioè la vita di eroi e popoli navigatori. Inoltre, è possibile che nessuno, mentre declamava i suoi versi nelle corti, tra guerrieri, mercanti, marinai e altri cantori, gliel’avesse mai fatto notare?
Vinci spiega come i poemi omerici siano verosimilmente delle saghe nordiche giunte fino al Mediterraneo lungo la via dell’ambra. Ciò giustifica le incongruenze geografiche e climatiche dei racconti, come il clima freddo, spesso tempestoso e nebbioso (e la stagione della navigazione era l'estate), gli assurdi percorsi di viaggio, le descrizioni che non quadrano, i capelli biondi di molti protagonisti, e così via. Secondo il nostro ingegnere, i nordici navigatori, scesi in Grecia a fondare nel XVI a.C. la civiltà micenea, avrebbero cominciato a rinominare i luoghi del Mediterraneo basandosi sulle loro località di origine, tramandate da mitologie e religioni, allo stesso modo come in America o in Australia avrebbero fatto secoli dopo i colonizzatori europei. Sappiamo dalle testimonianze storiche che i geografi antichi ribattezzavano le località mediterranee; l'unica sostanziale novità, introdotta da Vinci, è che questo lavoro sia stato un po’ più ampio di quanto si era creduto finora. Dopo un lungo periodo di trasmissione orale, i secoli bui del cosiddetto medioevo ellenico, i poemi sarebbero stati messi per iscritto intorno all’VIII a.C., quando si trovano le prime tracce scritte e le prime raffigurazioni. Sintetizzare le miriadi di spunti del volume di Vinci è impossibile; è stupefacente che molti addetti ai lavori lo ignorino tutt’ora, forse per aver superficialmente bollato la tesi come assurda senza averla esaminata con l’accuratezza che invece richiede. Possiamo solo aggiungere che la prefazione del libro è stata scritta dalla professoressa Rosa Calzecchi Onesti, una delle massime traduttrici di Omero, e che riviste scientifiche prestigiose hanno pubblicato lunghi estratti del saggio. Alla fine del 2013 anche il mondo accademico si è finalmente mosso: è uscito un numero speciale della prestigiosa (e costosa) Rivista di Cultura Classica e Medioevalehttp://www.libraweb.net/sommari.php?chiave=65 interamente dedicato a "La Scandinavia e i poemi omerici". La teoria vinciana è apprezzata da numerosi studiosi, osteggiata da acerrimi detrattori, e ignorata totalmente da altri.E i resti archeologici trovati presso il villaggio turco di Hissarlik appartengono davvero alla città di Priamo ed Ettore, oppure questa identificazione è solo il frutto della lucida follia di Heinrich Schliemann, un archeologo dilettante, fortunato quanto incompetente?
In realtà nulla è sicuro, o scientificamente provato. Si tratta di una lunga serie di teorie e supposizioni, più o meno plausibili, che hanno dato luogo a infinite polemiche tra gli studiosi. Al principio degli anni ’90 sono stati pubblicati due libri che collocano a nord l’ambiente dove operano Ulisse e compagni. Il primo è del giornalista Iman Wilkens, intitolato Where once Troy stood (Dove un tempo stava Troia), che localizza l’antica Troia in Inghilterra, rilanciato recentemente grazie alla citazione del romanziere Clive Cussler nel suo Trojan Odyssey (tradotto in italiano con il titolo fuorviante di Odissea). L’altro, più convincente, pur con qualche piccolo errore che esamineremo, è il risultato dell'accurata ricerca di un ingegnere nucleare appassionato di letteratura antica, Felice Vinci, pubblicata in un saggio intitolato Omero nel Baltico, pubblicato in ben cinque edizioni e recentemente tradotto anche in russo, inglese, svedese, estone, danese e tedesco.I due libri hanno messo in crisi una delle poche certezze, ossia la grecità dei poemi e della mitologia classica, poiché anche se è vero che i poemi sono scritti in greco (ma il greco omerico è abbastanza diverso da quello classico), la localizzazione dei luoghi descritti da Omero mal si concilia con le omonime località del Mediterraneo, tanto da aver generato la diceria secondo cui “Omero è un poeta e non un geografo”. Non so se esista un sindacato dei poeti che possa organizzare una manifestazione di protesta contro l'idea che un poeta debba necessariamente essere incompetente in geografia. E poi Omero era un pignolo che descriveva tutto con un’accuratezza minuziosa, difficilmente avrebbe sbagliato continuamente e sistematicamente proprio sul nucleo dei suoi racconti, cioè la vita di eroi e popoli navigatori. Inoltre, è possibile che nessuno, mentre declamava i suoi versi nelle corti, tra guerrieri, mercanti, marinai e altri cantori, gliel’avesse mai fatto notare?
Nell’appendice del mio saggio “Ulisse, Nessuno, Filottete” (Logisma editorehttp://www.logisma.it/ulisse.htm ) mi sono preso la briga di apportarne alcune correzioni, sia dal punto di vista geografico che, ancor più importante, da quello storico e archeologico.
Nel caso della tradizionale localizzazione mediterranea delle vicende, poiché nell’800 a.C. il mondo descritto da Omero non esisteva più da circa 400 anni, si è stati costretti a ipotizzare un lungo periodo di trasmissione orale dei poemi, prima che qualcuno li mettesse per iscritto. Anche Vinci sostiene l’idea della trasmissione orale, partendo addirittura dal XVI secolo. Ma spostandone l’origine nei mari nordici tutto cambia! Per esempio l’età del Ferro nel Nord Europa è cominciata a pieno titolo solo intorno al VI a.C., quindi non c’è da stupirsi se le armi descritte da Omero sono di bronzo. I poemi potrebbero essere arrivati nel mondo ellenico anche poco prima della fine dell’ottavo secolo e subito trascritti. In questo modo non c’è più neanche la necessità di immaginare un lungo periodo di oralità, oltretutto con un bellicoso medioevo in mezzo, prima che i poemi fossero messi per iscritto: tutto può essere avvenuto pochi anni dopo l’arrivo del cantastorie Omero, o di qualcuno della sua scuola, in Grecia. Secondo alcuni autori, l’Iliade e l’Odissea sarebbero state messe ufficialmente per la prima volta per iscritto intorno al VI a.C., all’epoca del tiranno ateniese Pisistrato (notizia non del tutto sicura). Gli eruditi del tempo avrebbero provveduto a raccogliere e ad accorpare in due racconti organici le differenti versioni dei poemi che giravano in Grecia a quell’epoca, il che potrebbe giustificare alcune variazioni dialettali che si riscontrano. Quanto alla lingua, il Greco presenta molte più affinità con le lingue germaniche e scandinave che con quelle mediterranee; la Grecia e alcune altre zone del Mediterraneo hanno subito parecchie invasioni da nord nel corso della protostoria, e quindi i poemi possono essere giunti assieme a una di queste migrazioni, mentre altre invasioni in tempi e luoghi diversi hanno portato diverse lingue e varianti dialettali nelle isole e nelle località del nostro mare. Oppure, si può anche ipotizzare che il greco omerico rappresentasse una specie di lingua franca in uso lungo la via dell’ambra, parlata e compresa da tutti i popoli che commerciavano la preziosa gemma. O ancora si può pensare che i cantastorie girovaghi, che costituivano in un certo senso l’élite intellettuale dell’epoca, conoscessero l’uso della scrittura, a differenza della grandissima maggioranza degli altri uomini antichi. Con questa nuova localizzazione temporale, l’origine nordica diventa ancora più plausibile, e giustifica l'assenza di testimonianze archeologiche antecedenti l'ottavo secolo. Mi sembrano ipotesi molto più logiche rispetto a quella di una tradizione orale durata secoli, di cui non si trova alcuna traccia (non solo scritture, ma neanche graffiti, vasi, statue), e che dà luogo a infinite contraddizioni. In ogni caso, tutte queste ipotesi, delle quali ciascuna non esclude automaticamente le altre, ma anzi può sommare il suo effetto in vari modi, non mettono in crisi la teoria, ma ampliano enormemente il ventaglio delle date possibili dell’evento. Mi sento comunque di consigliare a tutti gli studiosi di archeologia, filologia, mitologia e ai semplici appassionati il libro di Felice Vinci, perché la quantità di suggerimenti degni di attenzione è veramente impressionante.
In un prossimo intervento potremo vedere come un’altra chiave, forse ancor più sorprendente, ci consenta di individuare l’origine di certe mitologie di cui finora non si è mai capito molto, nonché di chiarire meglio ulteriori punti oscuri a cui abbiamo accennato, mettendo in luce la straordinaria coerenza delle opere di Omero e rivalutando pienamente la maestria del loro autore.
Riepilogando, invece, le interpretazioni che sono insegnate tutt’ora nelle scuole e nelle università di tutto il mondo, i poemi omerici sembrerebbero un caso praticamente unico, fuori da tutti gli schemi e da tutte le logiche. Senza uno scopo, senza un autore, senza un committente, e che raccontano storie mai avvenute di personaggi mai esistiti, in luoghi introvabili, se non a costo di continue forzature interpretative. Forse c’è qualcosa che non va.
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