venerdì 16 maggio 2014

perché è così importante la religione per l'uomo?

Le opinioni sull'estensione e sul valore o significato del fatto religioso sono divergenti, ma accade molto raramente che si pensi di negarne l'esistenza. Esiste un fatto religioso di cui abbiamo cercato di far vedere l'importanza apologetica. Certamente pochissimi potranno negare che la religione in chi la vive profondamente non risponda a un bisogno personale e profondo, e noi tutti conosciamo con sufficiente precisione molti uomini religiosi per poter constatare l'evidenza di questo fatto. Questo bisogno non sarà però fittizio? Non potrebbe ad esempio essere un prodotto della stessa religione che tende a soddisfarlo? Se cosi fosse, ci troveremmo come di fronte agli stupefacenti, che rendono schiavi quelli che vi si sono abituati, anche se al principio non ne sentivano una grande attrattiva. Il bisogno religioso non sarà per lo meno una particolare disposizione individuale legata a una mera forma di temperamento psicologico e forse fisiologico? In altri termini, il bisogno religioso, è veramente, se non di fatto, almeno di diritto, universale, oppure è soltanto un aspetto delle possibili " varietà " dell'umanità? Poniamo la questione nella forma più radicale: il bisogno religioso, di cui constatiamo l'esistenza, non è una finzione artificiale? Non potrebbe essere una specie di malattia spirituale, o tutt'al più, un fenomeno di compensazione, utile solo provvisoriamente e destinato a scomparire, perché legato a condizioni intellettuali, sociali, politiche, anch'esse destinate a scomparire nel variare dello sviluppo umano? Sotto un altro aspetto, qui ritroviamo gli stessi problemi che abbiamo incontrato a proposito del fatto religioso, il che non deve stupirci. Infatti, se non si professa un estrinsecismo insostenibile qui più che altrove, bisogna necessariamente ammettere che il fatto religioso è condizione del bisogna religioso e viceversa; e che tutto ciò che dimostra l'irriducibilità di quello dimostra anche la specificità e la permanenza di questo; il che ci dispensa dal ritornare su ciò che praticamente abbiamo già detto, e sappiamo che cosa d può suggerire la constatazione dei fatti, che cosa sarebbe imprudente attendere da essi e come orientarci per poter andare oltre i fatti.
Quindi, fermandoci a un altro punto di vista, diremo che ogni apologista, il quale sa bene che nella conversione non interviene soltanto l'intelligenza, tende naturalmente a far leva sul bisogno religioso. Di fronte a quelli che si mostrano insensibili alle condizioni oggettive, si è naturalmente tentati di fare appello a una realtà che non possono rifiutare, perché è in loro stessi, facendo vedere loro come la religione, che presentiamo loro dall'esterno, risponde a un'aspirazione intcriore di cui forse non hanno ancora coscienza, ma che diverrà loro percettibile se vorranno prestarvi attenzione. Anche quando non incontriamo resistenza, non è questo un metodo molto naturale per preparare all'esame delle prove? Non è naturale che si cerchi di far desiderare e amare la verità di ciò che le prove devono stabilire?
Questo ricorso al bisogno religioso non è illegittimo per se stesso; anzi, è un processo veramente normale, al quale non è possibile rinunciare senza danno. La religione potrebbe essere stabile in un'anima che non l'accetta come rispondente a un appello inferiore? Siamo però su un terreno difficile e pieno d'insidie; perciò, in materia tanto delicata, occorre un discernimento esatto e . spesso difficile onde non impegnarsi per una via falsa che impedisca di camminare verso la meta. L'esistenza e la natura del bisogno religioso fanno spesso sorgere problemi reali che esigono una soluzione precisa; altrimenti, sarà pericoloso farvi appello. Forse sembrerà esagerata pretesa parlare della necessità di una teologia del bisogno religioso, e ci limitiamo a dire che l'apologista che vuole far leva su di esso, non deve contentarsi della psicologia empirica che tocca soltanto manifestazioni parziali, confuse e spesso discutibili, ma deve approfondirne la natura e l'oggetto. Quindi, crediamo utile cominciare con alcuni elementari rilievi dottrinali.



Su questo argomento dire che ci sono biblioteche di libri è minimizzarlo. Il tema è quanto mai dibattuto: nessuno c’era all’origine dell’umanità per sapere come sono andati i fatti. Di fatto invece c’è solo che il sacro e l’idea di Dio sono antichi quanto l’uomo, e le primitive manifestazioni dell’uomo sono rivolte al sacro, e se c’è qualche antica traccia umana sparsa per il mondo è data dal culto per il divino. Quindi è possibile fare qualsiasi tipo di supposizioni. E infatti da sempre gli uomini si sono domandati com’è che nella mente umana è presente questa idea: «Dio». Che non risponda a niente di tutto ciò che è visibile, toccabile, sperimentabile e verificabile è talmente evidente che perciò ci si chiede da dove possa essere provenuta. Inoltre siccome a questa idea si dà credito che vi corrisponda un essere che la attui realmente, allora ci si chiede: c’è o non c’è il Dio di cui noi si ha ben chiara l’idea?
La storia umana registra innumerevoli «spiegazioni scientifiche» di come sia sorta e come l’uomo si sia inventata l’idea di Dio. Chi dalla paura della natura, chi da rapporti economici, chi da pulsioni sessuali, chi da rapporti sociali alienati, chi dai culti dei morti, chi dallo spirito di gruppo e di conservazione, ecc. ecc. Si noti ciascuna di queste teorie, che sono anche tra loro contrarie, afferma di essere «scientifica» cioè assoluta e necessaria, per cui le altre dovrebbero essere false. A me pare che sia una falsificazione a vicenda, e forse sarà bene mettersi a pensare da altra prospettiva.
A. Lang (Introduzione alla filosofia della religione, 1969) dice che nonostante l’umanità di tutti i tempi e luoghi si sia raffigurata l’idea di Dio in modi diversi: astri, luci, soli, animali, luoghi, monti, tuttavia essa nel pensiero umano è un concetto sempre uguale: Dio è l’essere perfettissimo per sé sussistente.
Questo è molto interessante, perché allora se l’idea fosse un’invenzione umana è chiaro dovrebbe essere diversa nei contenuti, nei popoli, nei tempi, e invece è diverso il «modo» di rappresentarla, ma non il concetto.
Gilson (L’ateismo difficile, 1986) segue questa linea, e in sintesi dice: posso aver visto migliaia di soli splendere, ma mai e poi mai questi potrebbero suggerirmi l’idea di Dio. Mentre è vero il contrario: se in me c’è l’idea di Dio, la vista anche di un solo sole mi viene incontro per aiutarmi a spiegare il concetto che ho in me di Dio.
E questo mi pare coerente con il fare umano: quando non troviamo parole per dire quello che pensiamo si ricorre a un esempio. Ma non il contrario. Infatti supponiamo che noi non soffrissimo la fame, potremmo vedere infiniti leoni mangiare, ma non ci potrebbe mai venire in mente la fame. Al contrario se noi abbiamo fame per poterla ben spiegare facciamo l’esempio: una fame da leone.
Santa Caterina da Siena pare che abbia visto il mare per la prima volta nel 1374, aveva 27 anni, ebbene stando alla riva e guardando questa grande e tranquilla distesa d’acqua, la prima cosa che le venne in mente fu di somigliarlo all’idea di Dio che aveva: mare pacioso! Non il mare le suggerì l’idea di Dio, ma il Dio, che dentro lei viveva, poteva esser somigliato al mare pacioso, che le si apriva davanti agli occhi. Se fosse il mare a generare l’idea di Dio nell’uomo, allora tutti gli uomini che stanno al mare dovrebbero credere, e quelli che non ci stanno dovrebbero essere atei, ecc. ecc.
A mio modesto avviso Gilson ha ragione. È la spiegazione più semplice e convincente, e quella più aderente alla realtà. Questo tuttavia non chiarisce come l’idea di Dio sia presente nel pensiero umano, e com’è che a questa idea gli diamo valore reale, mentre invece per esempio l’idea di chimera la stimiamo semplicemente una fantasia. Cartesio ritiene che l’idea di Dio sia una presenza assoluta e originaria, anche se non sappiamo come e perché ci sia. È difficile dargli torto. Sembra quasi che l’uomo nasca con questa «relazione al divino», come se Dio fosse un «proprium», un qualcosa della stessa natura umana. Indicazioni che non dimostrano né si dimostrano, ma suggestive, perché si capisce che toccano qualcosa di vero, anche se non riusciamo a razionalizzarlo.














Nessun commento:

Posta un commento