mercoledì 14 maggio 2014

cos'è la spiritualità?

Una spiritualità può essere definita da alcune caratteristiche:
Un modo per sentire Dio: a differenza della teologia, la spiritualità parla di un’esperienza di Dio, vissuta da chi è stato toccato da Lui nel più intimo. Dicendo Dio a partire da un’esperienza, parla quindi della persona umana e del mondo.
Se alcuni uomini e alcune donne hanno descritto la loro esperienza, era evidentemente per trasmetterla. Ne indicano le tappe progressive, propongono alcuni mezzi adatti. Segnalando questo cammino, conservano gli occhi fissi su Gesù Cristo, la via (Gv. 14,6). Una spiritualità innanzitutto è un modo di guardare a Gesù, privilegiando alcuni aspetti della sua vita. questo produce un modo di camminare verso di Lui e di vivere.
Una spiritualità raduna una famiglia, partendo da un’esperienza fondatrice. C’è uno spontaneo associarsi, dall’inizio, al “fondatore”, un costituirsi in qualche modo in comunità, delle persone che partecipano dello stesso modo di guardare Gesù. Così sono nate le grandi famiglie spirituali, vitali ancora oggi. Tutte vogliono appartenere all’unica Chiesa di Cristo.

Una delle prime parole che lo Spirito rivela alla sua chiesa è il comandamento: «Ama Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze». Così, alcuni anni dopo l'esperienza dei primi cristiani, vediamo nascere un modo particolare di vivere il vangelo, una spiritualità.
Alcuni cristiani si sentono spinti dallo Spirito Santo a ritirarsi nella solitudine, nel deserto: sono gli anacoreti, (in greco anachórein significa appartarsi, allontanarsi). L'apparire della spiritualità del deserto è comprensibile se teniamo presente che la radicalità evangelica che caratterizzava gli inizi della vita cristiana si era via via allentata. È quasi una sostituzione del martirio che per ragioni storiche si fa sempre più raro.
Il primo che ha scelto questo stile di vita è stato - almeno idealmente - sant'Antonio Abate, vissuto nel terzo secolo nel Medio Egitto. Aveva 18-20 anni quando una domenica in chiesa sentì leggere gli Atti degli Apostoli, dove si narra che i primi cristiani vendevano quello che avevano e lo portavano agli apostoli. Ne rimase profondamente impressionato. La domenica seguente si leggeva il passo del vangelo dove Gesù dice: «Se vuoi essere perfetto va, vendi quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi». Antonio sente che quelle parole sono proprio per lui. Vende tutto quello che ha, lo dà ai poveri, affida la sorella che sarebbe rimasta sola a delle donne cristiane, e si dona completamente a Dio.
Va a vivere da solo, fuori del villaggio e passa alcuni anni in preghiera. Poi va più lontano, nel deserto egiziano, sempre più lontano, per essere sempre più solo con Dio. Altri, attirati dalla fama della sua santità, lo imitano. Il deserto - ossia i luoghi solitari - "fiorisce", come si diceva allora, per la presenza viva di uomini e poi di donne. Tanti di loro raggiungono la santità nella profonda unione con Dio.
«Nulla mi sembra più grande di questo - scrive Gregorio di Nazianzo -: far tacere i propri sensi, uscire dalla carne del mondo, raccogliere se stesso, non occuparsi più delle cose umane, se non di quelle strettamente necessarie; parlare con se stesso e con Dio, condurre una vita che trascende le cose visibili; portare nell'anima immagini divine sempre pure, senza mescolanza di forme terrene ed erronee; essere veramente uno specchio immacolato di Dio e delle cose divine, e divenirlo sempre più...; godere, nella speranza presente, il bene futuro e conversare con gli angeli; avere già lasciato la terra, trasportati in alto con lo spirito».
Gli anacoreti vanno a Dio nella solitudine. A differenza dei primi cristiani la loro è una spiritualità che sottolinea maggiormente il momento "individuale", anche se rimane sempre una spiritualità ecclesiale" poiché il monaco è, per definizione, «colui che, separato da tutti, è unito a tutti», come dice Evagrio Pontico.
Grazie a questa loro apertura ecclesiale amano i fratelli. Per esempio, con i frutti del loro lavoro spesso aiutano i poveri. Pregano per tutta la chiesa, ospitano i viandanti, consigliano le persone che vanno da loro per essere aiutati a crescere nella vita spirituale.
Però il loro stile di vita non è centrato sull'amore e sul servizio dei fratelli. Esso è basato soprattutto sulla preghiera, sulla penitenza, sulla solitudine con Dio. La loro vita di unione con Dio irraggia all'esterno, ma il loro centro di gravità è dentro, motivati dall'amore di Dio, dal desiderio di vivere solo per lui. Si ispirano all'esempio di Elia, del Battista, ma soprattutto a quello di Gesù che si ritirò nel deserto per quaranta giorni e che spesso, di notte, andava a pregare da solo sulla montagna.
L'amore per la solitudine è tale che per alcuni anacoreti il fratello può diventare un ostacolo alla ricerca di Dio. Chiara Lubich nel suo tema cita uno di questi padri del deserto, 'Apa' Arsenio, che diceva: «Non posso essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini».

Egli amava i discepoli che gli si erano radunati attorno, attratti dalla sua santità. Infatti in questo stesso "detto" confida: «Dio sa quanto vi amo». Però non sapeva come conciliare l'amore di Dio e l'amore dei fratelli. Gli sembra che per stare con Dio debba lasciare i fratelli. Arsenio, come gran parte dell'anacoresi, è fortemente influenzato dalla cultura dualistica, proveniente dal mondo pagano. Si pensava che lo spirituale e l'umano fossero due realtà inconciliabili tra loro.


II pregare non consiste, propriamente, nel fatto di dedicare qualche tempo, durante il giorno, alla meditazione o nel leggere qualche brano della Sacra Scrittura o di testi di santi, e nel cercare di pensare a Dio o a sé stessi per una nostra riforma interiore. Questo non è il pregare nella sua essenza.
Così pure la recita del rosario o delle preghiere del mattino e della sera. Una persona può fare queste cose durante tutto il giorno e non aver mai pregato un minuto.
Il pregare, per essere veramente tale, esige innanzitutto un rapporto con Gesù: andare con lo spirito al di là della nostra condizione umana, delle nostre occupazioni, delle nostre preghiere, pur belle e necessarie, e stabilire questo rapporto intimo, personale con lui.
È indispensabile che facciamo la straordinaria scoperta che Gesù ci ama e ci chiama. Che cos'è in fondo la vocazione? È stata chiaramente descritta nella forma più bella nell'incontro di Gesù col giovane ricco. Dice il Vangelo di Marco: Gesù, guardandolo, lo amò e gli disse: lascia tutto quel che hai...
poi vieni e seguimi (cf. 10, 21).
Gesù ha questo sguardo per ciascuno di noi e ci ama, e noi sentiamo questo suo amore e possiamo scegliere di seguirlo. La vita di preghiera, nella sua essenza, consiste nel mantenere questo rapporto filiale e fraterno con Gesù tutto il giorno, tutti i giorni. La preghiera è un rapportarsi con lui e un silenzioso ascoltare quello che ci dice.
La forma sostanziale Questo rapporto tra noi e Gesù si instaura se riusciamo a compiere la scelta di Dio, che consiste nel mettere lui al primo posto di tutta la nostra esistenza, in tutte le nostre azioni. Allora le preghiere possono diventare preghiera, la forma sostanziale di preghiera, poiché in essa si esprime profondamente l'essere umano nel suo rapporto con Gesù.
I modi possono essere tanti. Un tipo di preghiera mentale è la meditazione, che si fa seguendo vari metodi. Uno dei più semplici è la lettura lenta e meditativa della Sacra Scrittura o di scritti di santi.Ma al di là del metodo con cui è fatta, la meditazione deve essere una occasione per trovare un momento di quiete, di tranquillità con Gesù. Può darsi che durante questo momento ci vengano alla mente delle preoccupazioni.
Allora ne parliamo con Gesù, dicendogli: Pensaci tu, io non posso far niente, posso solo parlarne con te. E questa potremmo chiamarla preghiera di domanda.
Ma nella sua sostanza, anche quando è di domanda, la preghiera è sempre di abbandono: anche quando chiediamo qualcosa, ci abbandoniamo a quello che Gesù vuole; se ci sono delle esperienze dolorose, nella nostra vita o in quella delle persone care, ne parliamo a lui con tranquillità, perché sappiamo che ci ama e ama tutte le persone molto di più di quanto possiamo fare noi.
Certo, la preghiera più bella è quella di chi sa che Gesù conosce i nostri problemi, le nostre difficoltà, le cose di cui abbiamo bisogno (dice il Vangelo: II Padre sa già ciò di cui avete bisogno: cf. Mt 6, 8), e si abbandona appunto a parlare a Gesù in uno stato di donazione, di totale consegna di sé, di gioia dell'incontro che si può avere con lui. È un dire a Gesù, e in lui alla Santissima Trinità: ecco, tu sai tutte le difficoltà che ho, tu sai le mie miserie, la mia poca fede, tu conosci le mie mancanze, i dolori e le difficoltà che incontro nella vita: adesso voglio stare con te e contemplarti.
Il ritorno a casa È il momento nel quale si esce da tutta una realtà contingente che ci affatica e ci addolora, per essere a contatto con lui, per trovare lui, per vivere nella nostra casa. La casa di ciascuno di noi infatti è la Trinità, il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, e in loro Maria e tutti i santi.
E noi che viviamo immersi in un mondo che ci sembra reale, ma è invece apparente, finalmente ritorniamo a casa, nel nostro vero mon- do, il mondo della Trinità. La preghiera è il momento più bello della nostra vita terrena poiché viviamo in quel momento insieme col Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, con Maria, in maniera cosciente.
Questa contemplazione non vuoi dire evasione dalla vita concreta; ma è la vera vita, per la quale possiamo affrontare cristianamente la realtà concreta di tutti i giorni, con i suoi scacchi, le sue tribolazioni, la stanchezza fisica e nervosa, con tutti i problemi, che posso e so affrontare proprio perché ho vissuto finalmente per un po' di tempo, per mezz'ora, nella meditazione, la mia vita vera: questo colloquio con Gesù.
Il silenzio interiore In questo incontro egli mi parla; e spesso è difficile saperlo ascoltare, perché siamo frastornati dal rumore delle cose di ogni giorno che tentano di insinuarsi anche in questo spazio di tempo dedicato alla contemplazione. Ma dobbiamo abituarci ad ascoltarlo, perché lui ci parla sempre. Non si tratta di realizzare un silenzio esteriore quanto di avere il silenzio interiore, cioè il dominio (relativo sempre alla nostra condizione umana) di tutte le nostre passioni (nel senso non solo negativo del termine), di tutte le nostre agitazioni, di tutti i tumulti psicologici interni: è un essere andati al di là di tutto questo per ascoltare Gesù che ci parla.
La sua voce è sottilissima.
Occorre veramente un silenzio interiore per coglierla (e la meditazione ci offre l'occasione per un silenzio esteriore, che è simbolo di quello interiore necessario per ascoltare Gesù). Egli ci dice sempre cose fondamentali.
Ci dice, quando siamo affannati, turbati dai vari problemi della vita: Non temete, sono io. Ci dice: Non temete, io ho vinto il mondo. Ci dice: Io sono con voi.
Gesù presenta sé stesso come modello, la sua vita come modello per la nostra. Una vita fatta anche di successi umani, di miracoli, ma conclusa con un apparente fallimento totale, sulla croce. I romani non sapevano neppure chi fosse; dei suoi correligionari, gli israeliti, alcuni pensavano che fosse Elia o un altro profeta...
E quando noi gli diciamo: Gesù, mi è andata male questa cosa, mi sta andando male quest'altra, egli ci risponde: Io ho gridato: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?.
Questa è la meta che ti presento.
Al resto ci penserò io; non è importante il successo o l'insuccesso, l'importante per te è mantenerti in questo rapporto con me.
Questi sono solo alcuni esempi di quello che il Signore ci dice per portarci al di là della quotidianità della nostra esistenza, per farci vivere nel mondo eterno. E talvolta fa anche miracoli, in questo colloquio che possiamo avere con lui. Chi non ricorda, a questo proposito, l'episodio della donna che perdeva sangue ed era in mezzo ad una folla che non le permetteva di raggiungere Gesù per chiedergli di guarirla?
Questa donna pensava: Se io potessi almeno toccare la stoffa del- la sua veste, sarei guarita. Si fa dunque avanti e riesce a toccarla con fede, con amore, e viene guarita.
E Gesù sente una forza che da lui è uscita e dice agli apostoli: Chi mi ha toccato?. Gli apostoli gli rispondono: Signore, siamo in mezzo ad una calca di gente e tu domandi chi ti ha toccato? (cf.Me 5, 25-31). Tanti lo avevano pregato, ma una sola aveva trovato il modo di parlargli, aveva trovato la preghiera, e Gesù aveva sentito che una forza si era sprigionata da lui per quella preghiera umile, silenziosa, piena di fede e di abbandono.
La preghiera che ci trasforma Se preghiamo con questa fede, gli altri ci troveranno sereni, perché abbiamo una pace che va al di là delle sofferenze, che pur patiamo come tutte le persone di questo mondo. E sentono la gioia di stare con noi, quella gioia che Gesù dice che il mondo non sa dare, perché portiamo nel nostro cuore un pezzettino di quel Cielo nel quale abbiamo vissuto durante il tempo della preghiera.
Tutto il mondo è assetato di Dio, e se noi non riusciamo a dissetarlo è perché gli diamo soltanto delle parole nostre, che parlano di Dio. Invece il mondo ha bisogno di Dio, anche senza le nostre parole e anche senza che si parli di lui. Riusciamo a ciò se nell'ascolto della chiamata di Gesù rimaniamo in un continuo colloquio con lui.
A volta oggi c'è una svalutazione della preghiera vocale, perché si ritiene che quella intellettuale sia più importante. Invece quel che importa è il rapporto con Dio, che posso trovare e nella preghiera mentale e in quella vocale, nelle giaculatorie, nel rosario, in tutte le forme di pietà più popolari e semplici, troppo semplici per la nostra superbia, ma tutte occasioni, in realtà, per avere un rapporto con Dio. Un rapporto che, naturalmente, non nasce nella preghiera se non nasce nella vita. Cioè non si può pregare se non si ha una vita impostata completamente su Dio.
La realtà più bella Se abbiamo questo rapporto autentico con Gesù, la preghiera diventa la cosa più bella e più viva della giornata. Diventa per noi una fonte di acqua viva, come Gesù dice: Chi crede in me, nasceranno da lui torrenti d'acqua viva (cf. Gv 1, 38).
Il nostro atteggiamento dev'essere di pace radicale e totale: dobbiamo riuscire ad avere quella pienezza umana che solo Dio ci può dare, e che irradia la pace e la serenità intorno a noi. Per questo - ripeto - il pregare è il momento più bello della nostra giornata; perché è l'unico momento nel quale ritorniamo a casa: usciamo lentamente dal mondo che ci circonda, pur rimanendo sempre immersi nel mondo; è il momento nel quale parliamo con Gesù, abbiamo questo rapporto con lui. Un parlare che non è fatto di parole, come egli dice: Quando pregate dite poche parole (cf. Mt 6, 7).
È un rapporto di amore profondo, di domanda profonda, di abbandono profondo al Padre, tramite il Figlio, nello Spirito Santo, con l'aiuto di Maria che - come alle nozze di Cana - si esprime per noi quando noi non sappiamo farlo. Questa è la nostra vera vita. Noi siamo stati chiamati a vivere nel seno del Padre.
La nostra vera chiamata è seguire Gesù e vivere in questa famiglia divina.
La preghiera non è altro che il parlare in casa, nella nostra vera casa.
Questa vuole essere e deve diventare la nostra preghiera. E lo diventa sicuramente se nella nostra vita viviamo totalmente per Dio



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