Quando gli Zingari si stabilirono in Grecia le popolazioni locali, che non li conoscevano ma che ancora ricordavano la fama di maghi e indovini degli appartenenti all'antica setta dell' Asia Minore, li chiamarono come loro Atsingani, accreditandoli in questo modo delle stesse credenze religiose. In realtà non è affatto dimostrato che gli abitanti del Piccolo Egitto (Modon nel Peloponneso) avessero abbracciato usi, costumi e fede religiosa degli eretici orientali.
Molto più semplicemente le popolazioni greche seguirono la tentazione alla quale era più facile cedere: di fronte al mistero che avvolgeva i nuovi arrivati tentarono di motivare la loro diversità associandola a qualcosa che era stata conosciuta e quindi, in qualche modo, meno problematica e preoccupante.
Alla stessa maniera, quando le prime carovane nomadi si presentarono in Europa, e nonostante molti di essi si dicessero di fede cristiana, nacque per gli Zingari l'appellativo di Saraceni o, come in qualche Paese del Nord Europa, di Heiden, cioè pagani.
Le dichiarazioni di fede, o i documenti papali e imperiali che essi presentavano quali lasciapassare, gli permisero di contrastare solo in parte e per un breve periodo la diffidenza cui andavano incontro.
Ad un certo punto fu poi chiaro che gli Zingari, se avessero anche posseduto una propria religione appresa in terre e in tempi lontani, non solo non la opponevano a quelle delle nazioni dove andavano a risiedere, ma addirittura si dicevano ben disposti, almeno in teoria, ad abbracciarle senza riserve.
Così fecero anche nei Paesi sottoposti al dominio dei Turchi, dove, a parte quelli che persistettero nella decisione di restare cristiani (fatto anomalo documentato), molti di loro si convertirono all' Islam e non incontrarono grandi difficoltà.
In Europa questa conversione alle diverse confessioni religiose cristiane fu poi accompagnata dal sospetto e spesso ritenuta non veritiera. Secondo il De Foletier gravavano su di loro troppe leggende di maledizione. Nicolas Ventura, nel suo «Tresor politique contenant les relations, instructions, traictez et divers discours appartenants à la parfaite intelligence de la raison d'Estat», del 1611, scrisse che: «Sembra che abbiano qualche maledizione o perché, come comunemente si dice, i loro antenati rifiutarono di alloggiare la Vergine Maria quando fuggì in Egitto con il nostro Salvatore, oppure per qualche altra cosa, visto che non si fermano mai a lungo nello stesso posto».
C'era qualcosa, nell' approccio zingaro alla religione cristiana, che portò moltissimi dotti ed ecclesiastici a non credere assolutamente, anche oltre i miti e le leggende negative, alla loro religiosità.
Secondo quanto disse Miinster nella sua «Cosmographia Universalis», essi, anche se facevano battezzare i loro figli, non avevano «... religione alcuna, ma vivono come cani».
Così la pensava anche Sancho de Moncada, il professore di Sacra Scrittura all'Universita di Toledo che ne chiese la pena di morte considerandoli spie, traditori, vagabondi, indovini e visionari. Il teologo, nel 1619, scriveva che «Persone degne di fede li considerano eretici e per molti essi sono pagani, idolatri ed atei, senza alcuna religione, sebbene in apparenza si conformino alla religione della provincia in cui si trovano, essendo Turchi con i Turchi, eretici con gli eretici, e battezzando a volte un bambino fra i cristiani per essere in regola»4.
Martin Lutero li chiamava Bose Buben (cattivi ragazzi) e li credeva Tartari capaci di falsità, menzogna e pericolosa divinazione.
Il calvinista Gijsbert Voet, olandese, ne proibiva i battesimi e in diverse chiese basche non era concessa loro la partecipazione alle funzioni religiose, che potevano seguire solo dall' esterno.
L'arcivescovo protestante di Stoccolma, Laurentius Petri, ordinò che: «Il prete non si occuperà dei Gitani: non procederà alle loro esequie, né battezzerà i loro bambini».
In Francia la Compagnia del Santissimo Sacramento parlava degli Tziganes come di «...questa razza di vagabondi che non hanno fede né religione»6.
Queste condanne morali così dure da una parte risentivano dell'influenza dei luoghi comuni e dei pregiudizi che si abbattevano sui Rom nel periodo delle persecuzioni e, dall'altra, esse stesse, provocavano nuovo rancore e nuovo pregiudizio, in un circuito chiuso di orrore e di emarginazione che per lungo tempo non si riuscì a spezzare.
D'altro canto era anche vero che gli Zingari, loro malgrado e malgrado gli sforzi che facevano per entrare nelle grazie della cristianità, per la loro gran parte furono davvero tutto fuorché buoni cristiani, per il significato che allora si dava a questo termine, ed effettivamente non si poteva che definirli eretici, poiché questo furono rispetto ad ogni religione che conobbero e che pure, a loro modo, cercarono di condividere e di reinterpretare.
È vero infatti che molti di loro facevano battezzare i propri figli, ma è anche vero che alcuni li facevano battezzare anche dieci volte diverse in dieci diverse località, forse per dare dimostrazione di buona volontà nelle nuove contrade che visitavano, e altri, se non tutti, continuavano ad imporre un nome segreto e gli antichi riti di purificazione, protezione e divinazione dei propri antenati.
È vero che essi chiedevano e si affidavano alla protezione della Chiesa e dei suoi Santi, ma è anche vero che continuavano a rispettare i propri Spiriti Buoni e a temere quelli Cattivi, come, in alcuni gruppi, le Holypi, streghe che dopo essersi unite sessualmente ai Demoni ne diventavano possedute e a loro volta potevano possedere altri esseri umani.
È vero che, a volte, quando gli veniva concesso, si univano in matrimonio secondo i riti delle varie confessioni religiose cristiane, ma è anche vero che per essi l'unica vera celebrazione restava la loro: il manifestarsi pubblico, all'interno di grandi feste e a volte di fronte ad un loro «capo», delle volontà dello sposo e della sposa di unirsi in una nuova famiglia.
Ed ancora, è vero che a volte gli Zingari facevano seppellire i loro morti nei cimiteri cristiani dopo aver ricevuto i santi sacramenti, ma è anche vero che spesso li seppellivano secondo le loro usanze, secondo cioè una serie di riti antichissimi e misteriosi.
Oltre a questo persistere di miti e usanze religiose proprie c'erano poi tanti altri comportamenti che impedivano ai Rom di essere considerati buoni cristiani, primo fra tutti l'esercizio dell'arte della divinazione.
Ma, anche se l'eresia zingara veniva considerata un crimine al pari di tutte le altre eresie sottoposte al morso di ferro dell'inquisizione, le differenze tra psicologia religiosa zingara e psicologia religiosa cristiana avrebbero dovuto lasciar intendere che piccoli trucchi ed esercizi di divinazione non erano altro che un'attività di tipo economico.
Così non fu.
I tentativi di catechizzazione, in forma violenta o meno violenta, si succedettero nel tempo e si alternarono alle manifestazioni di totale rifiuto.
Quando si tentava di convertirli, la conversione che si pretendeva doveva essere totale e verificabile: gli Zingari avrebbero dovuto cancellare il proprio substrato mitico e religioso e uniformare ai dettati religiosi occidentali anche il loro comportamento sociale. Quando si decideva di «civilizzarli», come nel caso dei tentativi di assimilazione forzata promossi da Maria Teresa e da Giuseppe II, la «civilizzazione» passava prima di tutto attraverso una catechizzazione coatta e poi attraverso l'obbligo di omologare il proprio vivere sociale ed economico ai dettati religiosi e morali dominanti.
Si tentò addirittura di cambiare, tramite articoli di legge, anche il loro senso del pudore e del peccato: i bambini e le bambine non avrebbero più dovuto circolare nudi, poiché costituiva peccato, né avrebbero più dovuto dormire nello stesso ambiente, poiché era considerato immorale.
Le comunità zingare, piccole civitates socialmente indipendenti e monadi non decomposte di un'antica cultura ancora ben viva e difesa a volte con disperata segretezza, si difesero come potevano da questi tentativi: si convertirono genuinamente a ciò che rispondeva alla loro idea della vita e della morte e rifiutarono tutto quello che urtava violentemente con la loro filosofia e con il loro senso di autonomia e di libertà.
Ciò che la cristianità non volle o non seppe comprendere fu che la manifesta eresia zingara, il loro accettare parte della religione di Baro Devel (Gesù Cristo), e parte rifiutarne, il loro assorbire ricorrenze, sacramenti e Santi per poi ridefinirli e celebrarli alla loro maniera, nascondeva in realtà un sentimento religioso profondo e forse senza paragoni, capace di apprendere e rispettare ciò che tutte le religioni del mondo venerano sotto forme diverse e che loro chiamano Del, il Grande Dio creatore del mondo e padrone del Bene, opposto a Beng, il Diavolo, padrone del Male.
Molto più semplicemente le popolazioni greche seguirono la tentazione alla quale era più facile cedere: di fronte al mistero che avvolgeva i nuovi arrivati tentarono di motivare la loro diversità associandola a qualcosa che era stata conosciuta e quindi, in qualche modo, meno problematica e preoccupante.
Alla stessa maniera, quando le prime carovane nomadi si presentarono in Europa, e nonostante molti di essi si dicessero di fede cristiana, nacque per gli Zingari l'appellativo di Saraceni o, come in qualche Paese del Nord Europa, di Heiden, cioè pagani.
Le dichiarazioni di fede, o i documenti papali e imperiali che essi presentavano quali lasciapassare, gli permisero di contrastare solo in parte e per un breve periodo la diffidenza cui andavano incontro.
Ad un certo punto fu poi chiaro che gli Zingari, se avessero anche posseduto una propria religione appresa in terre e in tempi lontani, non solo non la opponevano a quelle delle nazioni dove andavano a risiedere, ma addirittura si dicevano ben disposti, almeno in teoria, ad abbracciarle senza riserve.
Così fecero anche nei Paesi sottoposti al dominio dei Turchi, dove, a parte quelli che persistettero nella decisione di restare cristiani (fatto anomalo documentato), molti di loro si convertirono all' Islam e non incontrarono grandi difficoltà.
In Europa questa conversione alle diverse confessioni religiose cristiane fu poi accompagnata dal sospetto e spesso ritenuta non veritiera. Secondo il De Foletier gravavano su di loro troppe leggende di maledizione. Nicolas Ventura, nel suo «Tresor politique contenant les relations, instructions, traictez et divers discours appartenants à la parfaite intelligence de la raison d'Estat», del 1611, scrisse che: «Sembra che abbiano qualche maledizione o perché, come comunemente si dice, i loro antenati rifiutarono di alloggiare la Vergine Maria quando fuggì in Egitto con il nostro Salvatore, oppure per qualche altra cosa, visto che non si fermano mai a lungo nello stesso posto».
C'era qualcosa, nell' approccio zingaro alla religione cristiana, che portò moltissimi dotti ed ecclesiastici a non credere assolutamente, anche oltre i miti e le leggende negative, alla loro religiosità.
Secondo quanto disse Miinster nella sua «Cosmographia Universalis», essi, anche se facevano battezzare i loro figli, non avevano «... religione alcuna, ma vivono come cani».
Così la pensava anche Sancho de Moncada, il professore di Sacra Scrittura all'Universita di Toledo che ne chiese la pena di morte considerandoli spie, traditori, vagabondi, indovini e visionari. Il teologo, nel 1619, scriveva che «Persone degne di fede li considerano eretici e per molti essi sono pagani, idolatri ed atei, senza alcuna religione, sebbene in apparenza si conformino alla religione della provincia in cui si trovano, essendo Turchi con i Turchi, eretici con gli eretici, e battezzando a volte un bambino fra i cristiani per essere in regola»4.
Martin Lutero li chiamava Bose Buben (cattivi ragazzi) e li credeva Tartari capaci di falsità, menzogna e pericolosa divinazione.
Il calvinista Gijsbert Voet, olandese, ne proibiva i battesimi e in diverse chiese basche non era concessa loro la partecipazione alle funzioni religiose, che potevano seguire solo dall' esterno.
L'arcivescovo protestante di Stoccolma, Laurentius Petri, ordinò che: «Il prete non si occuperà dei Gitani: non procederà alle loro esequie, né battezzerà i loro bambini».
In Francia la Compagnia del Santissimo Sacramento parlava degli Tziganes come di «...questa razza di vagabondi che non hanno fede né religione»6.
Queste condanne morali così dure da una parte risentivano dell'influenza dei luoghi comuni e dei pregiudizi che si abbattevano sui Rom nel periodo delle persecuzioni e, dall'altra, esse stesse, provocavano nuovo rancore e nuovo pregiudizio, in un circuito chiuso di orrore e di emarginazione che per lungo tempo non si riuscì a spezzare.
D'altro canto era anche vero che gli Zingari, loro malgrado e malgrado gli sforzi che facevano per entrare nelle grazie della cristianità, per la loro gran parte furono davvero tutto fuorché buoni cristiani, per il significato che allora si dava a questo termine, ed effettivamente non si poteva che definirli eretici, poiché questo furono rispetto ad ogni religione che conobbero e che pure, a loro modo, cercarono di condividere e di reinterpretare.
È vero infatti che molti di loro facevano battezzare i propri figli, ma è anche vero che alcuni li facevano battezzare anche dieci volte diverse in dieci diverse località, forse per dare dimostrazione di buona volontà nelle nuove contrade che visitavano, e altri, se non tutti, continuavano ad imporre un nome segreto e gli antichi riti di purificazione, protezione e divinazione dei propri antenati.
È vero che essi chiedevano e si affidavano alla protezione della Chiesa e dei suoi Santi, ma è anche vero che continuavano a rispettare i propri Spiriti Buoni e a temere quelli Cattivi, come, in alcuni gruppi, le Holypi, streghe che dopo essersi unite sessualmente ai Demoni ne diventavano possedute e a loro volta potevano possedere altri esseri umani.
È vero che, a volte, quando gli veniva concesso, si univano in matrimonio secondo i riti delle varie confessioni religiose cristiane, ma è anche vero che per essi l'unica vera celebrazione restava la loro: il manifestarsi pubblico, all'interno di grandi feste e a volte di fronte ad un loro «capo», delle volontà dello sposo e della sposa di unirsi in una nuova famiglia.
Ed ancora, è vero che a volte gli Zingari facevano seppellire i loro morti nei cimiteri cristiani dopo aver ricevuto i santi sacramenti, ma è anche vero che spesso li seppellivano secondo le loro usanze, secondo cioè una serie di riti antichissimi e misteriosi.
Oltre a questo persistere di miti e usanze religiose proprie c'erano poi tanti altri comportamenti che impedivano ai Rom di essere considerati buoni cristiani, primo fra tutti l'esercizio dell'arte della divinazione.
Ma, anche se l'eresia zingara veniva considerata un crimine al pari di tutte le altre eresie sottoposte al morso di ferro dell'inquisizione, le differenze tra psicologia religiosa zingara e psicologia religiosa cristiana avrebbero dovuto lasciar intendere che piccoli trucchi ed esercizi di divinazione non erano altro che un'attività di tipo economico.
Così non fu.
I tentativi di catechizzazione, in forma violenta o meno violenta, si succedettero nel tempo e si alternarono alle manifestazioni di totale rifiuto.
Quando si tentava di convertirli, la conversione che si pretendeva doveva essere totale e verificabile: gli Zingari avrebbero dovuto cancellare il proprio substrato mitico e religioso e uniformare ai dettati religiosi occidentali anche il loro comportamento sociale. Quando si decideva di «civilizzarli», come nel caso dei tentativi di assimilazione forzata promossi da Maria Teresa e da Giuseppe II, la «civilizzazione» passava prima di tutto attraverso una catechizzazione coatta e poi attraverso l'obbligo di omologare il proprio vivere sociale ed economico ai dettati religiosi e morali dominanti.
Si tentò addirittura di cambiare, tramite articoli di legge, anche il loro senso del pudore e del peccato: i bambini e le bambine non avrebbero più dovuto circolare nudi, poiché costituiva peccato, né avrebbero più dovuto dormire nello stesso ambiente, poiché era considerato immorale.
Le comunità zingare, piccole civitates socialmente indipendenti e monadi non decomposte di un'antica cultura ancora ben viva e difesa a volte con disperata segretezza, si difesero come potevano da questi tentativi: si convertirono genuinamente a ciò che rispondeva alla loro idea della vita e della morte e rifiutarono tutto quello che urtava violentemente con la loro filosofia e con il loro senso di autonomia e di libertà.
Ciò che la cristianità non volle o non seppe comprendere fu che la manifesta eresia zingara, il loro accettare parte della religione di Baro Devel (Gesù Cristo), e parte rifiutarne, il loro assorbire ricorrenze, sacramenti e Santi per poi ridefinirli e celebrarli alla loro maniera, nascondeva in realtà un sentimento religioso profondo e forse senza paragoni, capace di apprendere e rispettare ciò che tutte le religioni del mondo venerano sotto forme diverse e che loro chiamano Del, il Grande Dio creatore del mondo e padrone del Bene, opposto a Beng, il Diavolo, padrone del Male.
Le origini della religione zingara
Jacques E. Menard, professore di Storia delle religioni alla facoltà di Scienze Umane di Strasburgo, nella premessa ad una pubblicazione sulle usanze religiose degli Zingari di Francoise Cozannet, ricorda che «... un popolo che non avesse più leggende, avrebbe freddo e il popolo che non vivesse più i suoi miti, sarebbe già morto».
Menard, a proposito delle particolari celebrazioni del nomadismo che vedevano certi gruppi zingari ormai sedentarizzati ricaricare per un giorno sui carri le loro povere cose e compiere un breve viaggio rituale che li riportava poi a casa dalla parte opposta alla quale erano partiti, notava che in questo modo il mito umano del ritorno alle origini veniva riattualizzato.
Queste e altre tradizioni mitiche e religiose degli Zingari sono rimaste, per interi secoli, avvolte nel mistero. Poco si conosceva e poco gli stessi Nomadi lasciavano intendere dei loro riti, mantenuti nel segreto per paura dei pregiudizi e della persecuzione della Santa Inquisizione.
Un segreto che ha smesso parzialmente di essere tale solo quando i tempi sono cambiati e solo quando di questi argomenti hanno cominciato a parlare e scrivere gli stessi Zingari e non solo gli studiosi di ziganologia. Francoise Cozannet, la studiosa francese autrice di un'interessante ricostruzione della mitologia zingara, ha basato il suo lavoro, oltre che sugli scritti degli ziganologi, anche sui suoi contatti diretti con le popolazioni Gitane francesi e spagnole.
Grande importanza hanno avuto nel suo lavoro gli scritti apparsi sin dal 1888 sulla rivista britannica «Journal of the Gypsy Lore Society», soprattutto in relazione alla vita ed alle usanze degli Zingari dell'Europa centrale. È bene precisare che gli studi della ricercatrice francese, proprio perché non abbracciano tutti i diversi gruppi, vanno intesi in senso relativo, seppure comunque interessanti e, per certi versi, rispondenti anche a particolari espressioni religiose dei Roma presenti in Sardegna. Il primo problema che la Cozannet ha dovuto affrontare, essa come tutti gli altri ricercatori che a questo tema si sono dedicati, è stato quello di comprendere quanto nell' atteggiamento religioso dei Rom ci fosse ancora di originale e quanto invece non fosse che il prodotto di un particolare sincretismo creatosi lungo il cammino dall'India.
Si trattava cioè di comprendere se gli Zingari avessero fuso, conciliandoli a volte in maniera arbitraria, elementi mitologici e dottrinari delle varie religioni conosciute lungo la strada con ciò in cui prima credevano, o se invece avessero mantenute vive parte delle credenze religiose orientali ricostituendole all'interno di un nuovo equilibrio basato sulla convivenza autonoma e separata di diverse istanze religiose.
Un problema questo che appare ancora irrisolto: d'altronde i confini tra simbiosi e sincretismo appaiono a volte assai confusi.
La Cozannet, lasciando aperto questo dubbio, è riuscita comunque a ricostruire alcuni frammenti dell' originale cosmogonia, lavorando sui residui in vigore degli antichi riti e sui racconti e le fiabe tipiche di una cultura che si è riprodotta essenzialmente per via orale.
I racconti sulla creazione del mondo testimoniano la credenza in un dualismo originario, il Bene e il Male, Dio e il Diavolo, dei quali il secondo sottomesso al primo.
Un altro punto nodale è rappresentato da due temi noti nella storia delle grandi religioni, le acque primordiali e l'albero della vita.
Un'antica fiaba raccontata in Ungheria a Vladislav Kornel, che poi la pubblicò sul «Journal of the Gypsy Lore Society» nel 1890, racconta di come Dio lasciasse cadere il bastone che usava per pascolare le nuvole nella grande distesa d'acqua che ricopriva la terra, e di come, da quel bastone, nascesse il grande Albero.
Il Diavolo, che mentendo tentava di convincere Dio della sua amicizia, ma che si rendeva conto di non essere creduto, gli consigliò di creare qualche altra persona per non restare, loro due, soli ed in esclusiva compagnia l'uno dell'altro.
Dio allora mandò il Diavolo in fondo al mare per prendere della sabbia, e con essa, intorno all' Albero, creò la terra. Ma questa piacque tanto al suo nemico che egli si sistemò per bene sotto l'albero e non volle più andar via. Dio allora, furibondo, fece sorgere un grande bue che infilzò con le sue corna il Diavolo e lo trascinò con sé per il mondo. Egli, per la paura e il dolore, gridò così forte che tutte le foglie dell' Albero caddero sulla terra e si trasformarono in uomini e donne8. .
Bruno Levak Zlato, Rom Kalderasa, ha raccontato recentemente una fiaba molto simile:
«Era tutta acqua e c'erano Del e Bengh, insieme come fratelli. Così mi raccontava mio nonno, forse era vero. C'era dunque Del e c'era anche Bengh.
Allora Del dice a Bengh: - Va' in fondo e forse trovi terra. Portamene una branca.
Bengh è andato ed è tornato su con i pugni pieni di terra. Ma inutilmente:
l'acqua la portava via. È arrivato su con le mani vuote. Allora Del cosa fa?
Prende uno stecca, così, e dalle unghie - perché Bengh ha le unghie lunghe ha tirato fuori un po' di terra e l'ha ammucchiata. Fai e dai, ne ha fatta un bel po '. È andato giù tante volte da fare un bel mucchietto di terra. Allora Del cosa fa? Fa una sedia, una seggiolina con questa terra e si mette a sedere sopra; gli ha preso un sonno, un sonno sopra la sedia.
- Mah, dice Bengh, lui sta seduto e io che ho fatto tanta fatica sono qui in piedi.
Bestemmiando ha preso Del per una gamba e ha cominciato a tirarlo per buttarlo in acqua. Ma come lo tirava, la terra si allargava sotto di lui. Allafine Del si è svegliato:
- Uh, dice, quanta terra hai fatto. Troppa, troppo grande, cosa facciamo adesso? Occorre accorciarla.
- Ci penso io, dice Bengh, non dubitare.
Si è messo a saltare di qua, a saltare di là; e salta qua e salta là, è venuto tutte salite e montagne. Così l'ha accorciata e fatta come adesso; prima era dritta come l'acqua. Poi Bengh non sapeva cosa fare. La terra era là e hafatto di terra un uomo, come noi, con bocca, occhi, tutto. Solo mancava che era vivo.
Lo guarda Del:
- Bello, ma adesso che l'hai fatto, fallo vivo.
- Ma non ne sono capace.
- Se lo regali a me, io lo faccio vivo.
- Se lo fai vivo, te lo regalo.
- Ripetilo tre volte.
Ha ripetuto tre volte che lo regala a Dio. Allora Dio, sai, ha fatto una croce e ha soffiato in bocca. Ecco la vita. Così è diventato vivo l'uomo di terra.
Perché siamo di terra tutti noi.
Quest'uomo si è messo a dormire.
- Poveretto, che cosa fa questo qui senza nessuno?
- Almeno facciamo una compagna per lui.
Hanno tagliato una costola di quest'uomo e gli hanno fatto la sua compagnia, la sua donna. È vero, perché la donna ha una costola in più. Allora mi pare che era proprio così, perché il segno c'è: basta contare le costole. Erano Adamo ed Eva.
Un giorno nel loro giardino è arrivata una carovana di Rom. Adamo ed Eva li hanno cacciati via e quello è stato il primo peccato».
A parere della Cozannet il tema delle acque primordiali, così come quello dell' Albero della vita, si ritroverebbero nelle tradizioni indiane e sarebbero quindi all'origine della cosmogonia zingara.
Alcuni riti legati alla nascita confermerebbero poi questa teoria.
Il rapporto tra Dio e il Diavolo, sarebbe meglio dire tra il Bene e il Male, nel ruolo subordinato ma strumentale del secondo rispetto al primo ed in un disegno che esula dalla comprensione umana, è peraltro molto simile a quello espresso dalla storia di Giobbe nel Vecchio Testamento: Dio permette a Satana di provocare sofferenze, disordine e malattie a Giobbe, ma salva l'innocenza dell'uomo in un più ampio piano prestabilito per lui.
Un altro. parallelismo tra cosmogonia zingara e cosmogonia giudaico cristiana lo si può rilevare ponendo a confronto il dualismo cielo-terra presente nella mitologia romanes con quanto esposto, a proposito della creazione, nella Genesi, primo Libro del Pentateuco:
Nella Genesi Dio «...fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. (...) Dio disse: le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un sol luogo e appaia l'asciutto. E così avvenne».
Secondo certe narrazioni degli Zingari dei Ba1cani, invece, il cielo e la terra originariamente erano un solo insieme combinato in modo tale che al proprio interno stessero rinchiusi il Re Sole, il Re Luna, il Re Fuoco, il Re Vento e il Re Nebbia, che erano i loro figli e che litigavano violentemente tra loro. Per riuscire a liberarsi dall' abbraccio ormai indesiderato dei genitori, i diversi Re ne fecero di cotte e di crude, riuscendo infine nel loro intento ma continuando a litigare per decidere chi doveva stare con il padre Cielo e chi con la madre Terra.
La madre Terra, adirandosi con Re Sole, Re Luna e Re Vento, che l' avevano importunata violentemente per costringerla a separarsi dal marito Cielo, disse loro: «Voi, sole, luna e vento siete stati avversi e dunque allontanatevi da me! Quanto a voi, fuoco e nebbia, non mi avete fatto nulla di male, perciò restatemi vicino» .
Molto più complesso appare invece il racconto che un altro Rom Kalderasa, Zanko, rilasciò nel 1959 a P. Chatard, un domenicano che svolgeva opera di evangelizzazione presso gli Zingari francesi.
Zanko così racconta: «All'inizio c'era Phu, la Terra-madre divina. Da essa sono nati il Puro Del e il Beng, i quali si sfidano a vicenda. Un giorno, mentre passeggiavano sulla riva del grande fiume-mare, il Beng disse: - Sono capace di scendere fino al fondo. Il Beng risalì alla superficie portando della terra e, su comando del Del, foggiò due statuette, prima assessuate e poi distinte in maschio e femmina. Ma dovette dichiararsi incapace, quando il Del gli chiese difarle parlare. Allora il Del tese il suo bastone verso le statuette e dalla terra uscirono due alberi che avvilupparono le statuette, le quali parlavano, perché gli alberi avevano trasformato la creta in carne vivente.
Il puro Del col suo bastone fece fruttificare gli alberi in pero e in melo e ordinò ai due di mangiarne i frutti, rispettivamente Dama - il primo uomo le pere e Yehwah - la prima donna - le mele.
Allora essi provarono desiderio l'uno per l'altro e per ordine del Puro Del si accoppiarono. Ma la donna, insaziabile, richiese all'uomo di ripetere più volte l'accoppiamento. Per le prime tre volte il Puro Del li approvò, ma poi si adirò: - Tre è la misura e la benedizione. Tu, donna, sei uscita dalla misura e dalla benedizione. Tu non sarai mai soddisfatta. Avrai sempre desiderio dell'uomo.
E il Puro Del li abbandonò al loro destino fuori della misura e della benedizione.
L'uomo e la donna generarono molti figli e da qui vennero le stelle in cielo, perché ogni stella è un segno di un uomo: sale quando nasce e cade quando muore. Damo e Yehwah tornarono poi alla loro natura di alberi. Poi il Del, sposo della Terra e nostro padre, fece uscire dalla terra il sole e la luna, il Sherkano o serpente divino e la sua femmina Halla per provare laforza degli uomini; poi le coppie di tutti gli altri animali. Fece pure uscire dalla Terra il grande fiume-lago.
In questo primo mondo il Puro Del Sinpetri aveva dei compagni: Sunto Yacchof, Sunto Abraham, Sunto Moishel e Sunto Crecuno. Erano i Suntse, gli Antenati. Con essi c'era pure il Pharavono, che poi se ne distaccò provocando la scissione degli uomini - fino ad allora costituenti una sola razza nomade e parlanti una sola lingua - in due raggruppamenti: gli Horaxane con a capo Sinpetri e i Pharavonure con a capo Pharavono.
Questo gruppo dapprima si tenne in disparte, ma poi, moltiplicandosi e essendo pieni di intelligenza e di audacia, decisero di conquistare tutta la terra.
Così Pharavono mosse guerra a Sinpetri; ma non sapeva che il re Sinpetri era lo stesso Puro Del, che aveva il potere del Del. Alla testa delle sue truppe Pharavono superò ilfiume-Iago, invocando il potere del Del. Ma, nell'attraversare il fiume-mare, pieno di orgoglio invocò il proprio potere e venne travolto dalle acque. (...) Tutto il paese allora abitato venne allagato. Il Puro Del Sinpetri rifece la terra allargandola e dandola ai suoi Horaxane e portò i Suntse nel Raio, l'altra terra al di sopra delle stelle. I Pharavonure annegati precipitarono nel Hiardo, l'abisso sotterraneo, dove vanno tutti i morti di morte cattiva.
I pochi Pharavonure superstiti - cioè gli Zingari - sono condannati a non avere più né territorio nazionale, né organizzazione politica, né Chiesa, né scrittura, perché tutto è annegato nel mare»!!.
La Karpati, analizzando il racconto di Zanko ne coglie un aspetto molto importante: l'interpolazione di alcuni elementi biblici, che lo Zingaro potrebbe aver inserito per un malinteso senso di rispetto nei confronti di Chatard, domnicano.
A proposito di Della Karpati osserva che: «Egli provoca la vita agendo con il bastone, quasi si trattasse di un mistico coito con la Terra Madre. Infatti di lui è detto "sposo della Terra e nostro padre". Ne risulta quindi una nuova concezione che, (...) pone nel rapporto maschio-femmina il principio vitale e creatore». La separazione e l'opposizione di maschio e femmina, e la loro riunificazione in un sistema più ampio che continua ad abbracciare ambedue, riporterebbe, secondo Ménard, ai principi maschili e femminili dello Yang e dello Yin orientali e agli stessi principi si potrebbero riportare altri dualismi mitologici dei Rom.
Una mitologia nella quale la femminilità, opposta e complementare al suo alter ego maschile, ricopre una particolare valenza che si ritrova ancora in determinate tradizioni.
Menard, a proposito delle particolari celebrazioni del nomadismo che vedevano certi gruppi zingari ormai sedentarizzati ricaricare per un giorno sui carri le loro povere cose e compiere un breve viaggio rituale che li riportava poi a casa dalla parte opposta alla quale erano partiti, notava che in questo modo il mito umano del ritorno alle origini veniva riattualizzato.
Queste e altre tradizioni mitiche e religiose degli Zingari sono rimaste, per interi secoli, avvolte nel mistero. Poco si conosceva e poco gli stessi Nomadi lasciavano intendere dei loro riti, mantenuti nel segreto per paura dei pregiudizi e della persecuzione della Santa Inquisizione.
Un segreto che ha smesso parzialmente di essere tale solo quando i tempi sono cambiati e solo quando di questi argomenti hanno cominciato a parlare e scrivere gli stessi Zingari e non solo gli studiosi di ziganologia. Francoise Cozannet, la studiosa francese autrice di un'interessante ricostruzione della mitologia zingara, ha basato il suo lavoro, oltre che sugli scritti degli ziganologi, anche sui suoi contatti diretti con le popolazioni Gitane francesi e spagnole.
Grande importanza hanno avuto nel suo lavoro gli scritti apparsi sin dal 1888 sulla rivista britannica «Journal of the Gypsy Lore Society», soprattutto in relazione alla vita ed alle usanze degli Zingari dell'Europa centrale. È bene precisare che gli studi della ricercatrice francese, proprio perché non abbracciano tutti i diversi gruppi, vanno intesi in senso relativo, seppure comunque interessanti e, per certi versi, rispondenti anche a particolari espressioni religiose dei Roma presenti in Sardegna. Il primo problema che la Cozannet ha dovuto affrontare, essa come tutti gli altri ricercatori che a questo tema si sono dedicati, è stato quello di comprendere quanto nell' atteggiamento religioso dei Rom ci fosse ancora di originale e quanto invece non fosse che il prodotto di un particolare sincretismo creatosi lungo il cammino dall'India.
Si trattava cioè di comprendere se gli Zingari avessero fuso, conciliandoli a volte in maniera arbitraria, elementi mitologici e dottrinari delle varie religioni conosciute lungo la strada con ciò in cui prima credevano, o se invece avessero mantenute vive parte delle credenze religiose orientali ricostituendole all'interno di un nuovo equilibrio basato sulla convivenza autonoma e separata di diverse istanze religiose.
Un problema questo che appare ancora irrisolto: d'altronde i confini tra simbiosi e sincretismo appaiono a volte assai confusi.
La Cozannet, lasciando aperto questo dubbio, è riuscita comunque a ricostruire alcuni frammenti dell' originale cosmogonia, lavorando sui residui in vigore degli antichi riti e sui racconti e le fiabe tipiche di una cultura che si è riprodotta essenzialmente per via orale.
I racconti sulla creazione del mondo testimoniano la credenza in un dualismo originario, il Bene e il Male, Dio e il Diavolo, dei quali il secondo sottomesso al primo.
Un altro punto nodale è rappresentato da due temi noti nella storia delle grandi religioni, le acque primordiali e l'albero della vita.
Un'antica fiaba raccontata in Ungheria a Vladislav Kornel, che poi la pubblicò sul «Journal of the Gypsy Lore Society» nel 1890, racconta di come Dio lasciasse cadere il bastone che usava per pascolare le nuvole nella grande distesa d'acqua che ricopriva la terra, e di come, da quel bastone, nascesse il grande Albero.
Il Diavolo, che mentendo tentava di convincere Dio della sua amicizia, ma che si rendeva conto di non essere creduto, gli consigliò di creare qualche altra persona per non restare, loro due, soli ed in esclusiva compagnia l'uno dell'altro.
Dio allora mandò il Diavolo in fondo al mare per prendere della sabbia, e con essa, intorno all' Albero, creò la terra. Ma questa piacque tanto al suo nemico che egli si sistemò per bene sotto l'albero e non volle più andar via. Dio allora, furibondo, fece sorgere un grande bue che infilzò con le sue corna il Diavolo e lo trascinò con sé per il mondo. Egli, per la paura e il dolore, gridò così forte che tutte le foglie dell' Albero caddero sulla terra e si trasformarono in uomini e donne8. .
Bruno Levak Zlato, Rom Kalderasa, ha raccontato recentemente una fiaba molto simile:
«Era tutta acqua e c'erano Del e Bengh, insieme come fratelli. Così mi raccontava mio nonno, forse era vero. C'era dunque Del e c'era anche Bengh.
Allora Del dice a Bengh: - Va' in fondo e forse trovi terra. Portamene una branca.
Bengh è andato ed è tornato su con i pugni pieni di terra. Ma inutilmente:
l'acqua la portava via. È arrivato su con le mani vuote. Allora Del cosa fa?
Prende uno stecca, così, e dalle unghie - perché Bengh ha le unghie lunghe ha tirato fuori un po' di terra e l'ha ammucchiata. Fai e dai, ne ha fatta un bel po '. È andato giù tante volte da fare un bel mucchietto di terra. Allora Del cosa fa? Fa una sedia, una seggiolina con questa terra e si mette a sedere sopra; gli ha preso un sonno, un sonno sopra la sedia.
- Mah, dice Bengh, lui sta seduto e io che ho fatto tanta fatica sono qui in piedi.
Bestemmiando ha preso Del per una gamba e ha cominciato a tirarlo per buttarlo in acqua. Ma come lo tirava, la terra si allargava sotto di lui. Allafine Del si è svegliato:
- Uh, dice, quanta terra hai fatto. Troppa, troppo grande, cosa facciamo adesso? Occorre accorciarla.
- Ci penso io, dice Bengh, non dubitare.
Si è messo a saltare di qua, a saltare di là; e salta qua e salta là, è venuto tutte salite e montagne. Così l'ha accorciata e fatta come adesso; prima era dritta come l'acqua. Poi Bengh non sapeva cosa fare. La terra era là e hafatto di terra un uomo, come noi, con bocca, occhi, tutto. Solo mancava che era vivo.
Lo guarda Del:
- Bello, ma adesso che l'hai fatto, fallo vivo.
- Ma non ne sono capace.
- Se lo regali a me, io lo faccio vivo.
- Se lo fai vivo, te lo regalo.
- Ripetilo tre volte.
Ha ripetuto tre volte che lo regala a Dio. Allora Dio, sai, ha fatto una croce e ha soffiato in bocca. Ecco la vita. Così è diventato vivo l'uomo di terra.
Perché siamo di terra tutti noi.
Quest'uomo si è messo a dormire.
- Poveretto, che cosa fa questo qui senza nessuno?
- Almeno facciamo una compagna per lui.
Hanno tagliato una costola di quest'uomo e gli hanno fatto la sua compagnia, la sua donna. È vero, perché la donna ha una costola in più. Allora mi pare che era proprio così, perché il segno c'è: basta contare le costole. Erano Adamo ed Eva.
Un giorno nel loro giardino è arrivata una carovana di Rom. Adamo ed Eva li hanno cacciati via e quello è stato il primo peccato».
A parere della Cozannet il tema delle acque primordiali, così come quello dell' Albero della vita, si ritroverebbero nelle tradizioni indiane e sarebbero quindi all'origine della cosmogonia zingara.
Alcuni riti legati alla nascita confermerebbero poi questa teoria.
Il rapporto tra Dio e il Diavolo, sarebbe meglio dire tra il Bene e il Male, nel ruolo subordinato ma strumentale del secondo rispetto al primo ed in un disegno che esula dalla comprensione umana, è peraltro molto simile a quello espresso dalla storia di Giobbe nel Vecchio Testamento: Dio permette a Satana di provocare sofferenze, disordine e malattie a Giobbe, ma salva l'innocenza dell'uomo in un più ampio piano prestabilito per lui.
Un altro. parallelismo tra cosmogonia zingara e cosmogonia giudaico cristiana lo si può rilevare ponendo a confronto il dualismo cielo-terra presente nella mitologia romanes con quanto esposto, a proposito della creazione, nella Genesi, primo Libro del Pentateuco:
Nella Genesi Dio «...fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. (...) Dio disse: le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un sol luogo e appaia l'asciutto. E così avvenne».
Secondo certe narrazioni degli Zingari dei Ba1cani, invece, il cielo e la terra originariamente erano un solo insieme combinato in modo tale che al proprio interno stessero rinchiusi il Re Sole, il Re Luna, il Re Fuoco, il Re Vento e il Re Nebbia, che erano i loro figli e che litigavano violentemente tra loro. Per riuscire a liberarsi dall' abbraccio ormai indesiderato dei genitori, i diversi Re ne fecero di cotte e di crude, riuscendo infine nel loro intento ma continuando a litigare per decidere chi doveva stare con il padre Cielo e chi con la madre Terra.
La madre Terra, adirandosi con Re Sole, Re Luna e Re Vento, che l' avevano importunata violentemente per costringerla a separarsi dal marito Cielo, disse loro: «Voi, sole, luna e vento siete stati avversi e dunque allontanatevi da me! Quanto a voi, fuoco e nebbia, non mi avete fatto nulla di male, perciò restatemi vicino» .
Molto più complesso appare invece il racconto che un altro Rom Kalderasa, Zanko, rilasciò nel 1959 a P. Chatard, un domenicano che svolgeva opera di evangelizzazione presso gli Zingari francesi.
Zanko così racconta: «All'inizio c'era Phu, la Terra-madre divina. Da essa sono nati il Puro Del e il Beng, i quali si sfidano a vicenda. Un giorno, mentre passeggiavano sulla riva del grande fiume-mare, il Beng disse: - Sono capace di scendere fino al fondo. Il Beng risalì alla superficie portando della terra e, su comando del Del, foggiò due statuette, prima assessuate e poi distinte in maschio e femmina. Ma dovette dichiararsi incapace, quando il Del gli chiese difarle parlare. Allora il Del tese il suo bastone verso le statuette e dalla terra uscirono due alberi che avvilupparono le statuette, le quali parlavano, perché gli alberi avevano trasformato la creta in carne vivente.
Il puro Del col suo bastone fece fruttificare gli alberi in pero e in melo e ordinò ai due di mangiarne i frutti, rispettivamente Dama - il primo uomo le pere e Yehwah - la prima donna - le mele.
Allora essi provarono desiderio l'uno per l'altro e per ordine del Puro Del si accoppiarono. Ma la donna, insaziabile, richiese all'uomo di ripetere più volte l'accoppiamento. Per le prime tre volte il Puro Del li approvò, ma poi si adirò: - Tre è la misura e la benedizione. Tu, donna, sei uscita dalla misura e dalla benedizione. Tu non sarai mai soddisfatta. Avrai sempre desiderio dell'uomo.
E il Puro Del li abbandonò al loro destino fuori della misura e della benedizione.
L'uomo e la donna generarono molti figli e da qui vennero le stelle in cielo, perché ogni stella è un segno di un uomo: sale quando nasce e cade quando muore. Damo e Yehwah tornarono poi alla loro natura di alberi. Poi il Del, sposo della Terra e nostro padre, fece uscire dalla terra il sole e la luna, il Sherkano o serpente divino e la sua femmina Halla per provare laforza degli uomini; poi le coppie di tutti gli altri animali. Fece pure uscire dalla Terra il grande fiume-lago.
In questo primo mondo il Puro Del Sinpetri aveva dei compagni: Sunto Yacchof, Sunto Abraham, Sunto Moishel e Sunto Crecuno. Erano i Suntse, gli Antenati. Con essi c'era pure il Pharavono, che poi se ne distaccò provocando la scissione degli uomini - fino ad allora costituenti una sola razza nomade e parlanti una sola lingua - in due raggruppamenti: gli Horaxane con a capo Sinpetri e i Pharavonure con a capo Pharavono.
Questo gruppo dapprima si tenne in disparte, ma poi, moltiplicandosi e essendo pieni di intelligenza e di audacia, decisero di conquistare tutta la terra.
Così Pharavono mosse guerra a Sinpetri; ma non sapeva che il re Sinpetri era lo stesso Puro Del, che aveva il potere del Del. Alla testa delle sue truppe Pharavono superò ilfiume-Iago, invocando il potere del Del. Ma, nell'attraversare il fiume-mare, pieno di orgoglio invocò il proprio potere e venne travolto dalle acque. (...) Tutto il paese allora abitato venne allagato. Il Puro Del Sinpetri rifece la terra allargandola e dandola ai suoi Horaxane e portò i Suntse nel Raio, l'altra terra al di sopra delle stelle. I Pharavonure annegati precipitarono nel Hiardo, l'abisso sotterraneo, dove vanno tutti i morti di morte cattiva.
I pochi Pharavonure superstiti - cioè gli Zingari - sono condannati a non avere più né territorio nazionale, né organizzazione politica, né Chiesa, né scrittura, perché tutto è annegato nel mare»!!.
La Karpati, analizzando il racconto di Zanko ne coglie un aspetto molto importante: l'interpolazione di alcuni elementi biblici, che lo Zingaro potrebbe aver inserito per un malinteso senso di rispetto nei confronti di Chatard, domnicano.
A proposito di Della Karpati osserva che: «Egli provoca la vita agendo con il bastone, quasi si trattasse di un mistico coito con la Terra Madre. Infatti di lui è detto "sposo della Terra e nostro padre". Ne risulta quindi una nuova concezione che, (...) pone nel rapporto maschio-femmina il principio vitale e creatore». La separazione e l'opposizione di maschio e femmina, e la loro riunificazione in un sistema più ampio che continua ad abbracciare ambedue, riporterebbe, secondo Ménard, ai principi maschili e femminili dello Yang e dello Yin orientali e agli stessi principi si potrebbero riportare altri dualismi mitologici dei Rom.
Una mitologia nella quale la femminilità, opposta e complementare al suo alter ego maschile, ricopre una particolare valenza che si ritrova ancora in determinate tradizioni.
Spiriti buoni e Demoni patogeni
Secondo la Cozannet nella cultura religiosa zingara quasi tutte le forze soprannaturali, spiriti buoni, spiriti cattivi e mediatori, hanno sembianze femminili. Allo stesso modo le persone ritenute più capaci di ergersi al di sopra delle comuni capacità umane e di avvicinarsi in qualche maniera al soprannaturale sarebbero proprio le donne.
Presso gli Zingari dell'Europa centrale si credeva che esistessero tre classi di spiriti, tutti femminili, che determinavano il destino degli uomini e degli animali: le Ourmes, le Kechali e le Holypi.
Le Ourmes erano le dee del destino, chiamate anche «donne bianche» perché indossavano una lunga veste di quel colore. Legate all'ambiente naturale esse apparivano sempre in numero di tre, una buona, una che portava sventura ed una che fungeva da mediatrice. Quando un nuovo nato rallegrava una comunità, la stessa notte della nascita, oppure quella successiva al giorno del battesimo, intorno alla tenda del nascituro veniva tracciato un ampio cerchio e dentro esso veniva lanciata una manciata di semente di agrifoglio.
Ciò avrebbe permesso alle tre «donne bianche» di non essere disturbate da spiriti cattivi.
In Romania, in Serbia e in Russia, esisteva l'usanza simbolica di porre sul corpo del neonato una tazza colma di grano cotto nel miele, con dentro tre cucchiai, uno per ogni spirito.
Una volta terminati i preparativi all'interno della tenda restavano solo la madre e il nuovo figlio: una maga restava invece in preghiera vicino all'uscio auspicando che sul capo del bambino venissero attirate fortuna e salute. Alcuni giorni dopo, ed esattamente a mezzogiorno, nello stesso luogo dove era avvenuta la nascita, veniva piantato un ago: dal grado di ossidazione rilevato dalla maga dopo altri tre giorni si poteva finalmente comprendere quale sarebbe stato il destino in vita del nuovo nato, quanta fortuna l'avrebbe accompagnato e quanta sfortuna l'avrebbe colpito.
Oltre alle «donne bianche» anche le Kechali, o fate dei boschi, avevano sembianze femminili e potevano determinare il destino degli uomini. Esse abitavano le montagne in gruppi di tre e possedevano lunghi e sottili capelli che, spandendosi per l'aria, formavano la nebbia.
Le fate dei boschi potevano determinare la buona o cattiva sorte del nascituro avvolgendo intorno al suo collo un filo rosso. Le maghe, all'atto della nascita, controllavano così se sul collo del bambino apparisse o meno un qualcosa che potesse ricordare simbolicamente il filo rosso, una piega o una grinza, segno di buona sorte.
Secondo la Cozannet l'affinità di questa credenza con quella delle tre Parche, le Moire presenti nella mitologia greca, Cloto, Lachesi e Atropo (dee del destino che tessevano o recidevano il filo del fato), dimostrerebbe forse una comune ascendenza dei due miti. Resta però il dubbio che gli Zingari, molto più semplicemente, possano aver riciclato il mito delle figlie di Zeus e Temi quando vissero nel Peloponneso.
Come le «donne bianche» e le fate dei boschi, anche le Holypi, le streghe, erano entità femminili, anche se non veri e propri spiriti ma donne trasformatesi nel nuovo stato dopo una congiunzione carnale con il Diavolo.
Esse, considerate dagli Zingari dell'Europa centrale al pari di altre forze soprannaturali negative, erano credute capaci di procurare malattie e sventure e potevano essere combattute solamente attraverso numerosi riti di scongiuro.
Le streghe, essendo capaci di unirsi sessualmente col Diavolo, mantenevano alcune necessità terrene, come quella di nutrirsi: il cibo che si supponeva fosse loro gradito diventava così vietato agli esseri umani; un vero e proprio tabù simile a quelli che ancora oggi, anche se con diverse motivazioni, vietano ai Rom di assumere determinati alimenti.
Il ruolo d'intermediario tra gli spiriti femminili e i comuni mortali veniva affidato alle maghe.
Maghe lo si poteva divenire in due modi: o essendo figlie di maghe, ed ereditando in questa maniera il potere della madre, oppure tenendosi in rapporto sessuale con i Nivaci, spiriti acquatici con sei dita alla mano sinistra.
È più che probabile comunque che oltre alle figure già citate ne esistessero numerosissime altre con numerosissimi altri riti dei quali si è persa ogni traccia.
Presso gli Zingari dell'Europa centrale si credeva che esistessero tre classi di spiriti, tutti femminili, che determinavano il destino degli uomini e degli animali: le Ourmes, le Kechali e le Holypi.
Le Ourmes erano le dee del destino, chiamate anche «donne bianche» perché indossavano una lunga veste di quel colore. Legate all'ambiente naturale esse apparivano sempre in numero di tre, una buona, una che portava sventura ed una che fungeva da mediatrice. Quando un nuovo nato rallegrava una comunità, la stessa notte della nascita, oppure quella successiva al giorno del battesimo, intorno alla tenda del nascituro veniva tracciato un ampio cerchio e dentro esso veniva lanciata una manciata di semente di agrifoglio.
Ciò avrebbe permesso alle tre «donne bianche» di non essere disturbate da spiriti cattivi.
In Romania, in Serbia e in Russia, esisteva l'usanza simbolica di porre sul corpo del neonato una tazza colma di grano cotto nel miele, con dentro tre cucchiai, uno per ogni spirito.
Una volta terminati i preparativi all'interno della tenda restavano solo la madre e il nuovo figlio: una maga restava invece in preghiera vicino all'uscio auspicando che sul capo del bambino venissero attirate fortuna e salute. Alcuni giorni dopo, ed esattamente a mezzogiorno, nello stesso luogo dove era avvenuta la nascita, veniva piantato un ago: dal grado di ossidazione rilevato dalla maga dopo altri tre giorni si poteva finalmente comprendere quale sarebbe stato il destino in vita del nuovo nato, quanta fortuna l'avrebbe accompagnato e quanta sfortuna l'avrebbe colpito.
Oltre alle «donne bianche» anche le Kechali, o fate dei boschi, avevano sembianze femminili e potevano determinare il destino degli uomini. Esse abitavano le montagne in gruppi di tre e possedevano lunghi e sottili capelli che, spandendosi per l'aria, formavano la nebbia.
Le fate dei boschi potevano determinare la buona o cattiva sorte del nascituro avvolgendo intorno al suo collo un filo rosso. Le maghe, all'atto della nascita, controllavano così se sul collo del bambino apparisse o meno un qualcosa che potesse ricordare simbolicamente il filo rosso, una piega o una grinza, segno di buona sorte.
Secondo la Cozannet l'affinità di questa credenza con quella delle tre Parche, le Moire presenti nella mitologia greca, Cloto, Lachesi e Atropo (dee del destino che tessevano o recidevano il filo del fato), dimostrerebbe forse una comune ascendenza dei due miti. Resta però il dubbio che gli Zingari, molto più semplicemente, possano aver riciclato il mito delle figlie di Zeus e Temi quando vissero nel Peloponneso.
Come le «donne bianche» e le fate dei boschi, anche le Holypi, le streghe, erano entità femminili, anche se non veri e propri spiriti ma donne trasformatesi nel nuovo stato dopo una congiunzione carnale con il Diavolo.
Esse, considerate dagli Zingari dell'Europa centrale al pari di altre forze soprannaturali negative, erano credute capaci di procurare malattie e sventure e potevano essere combattute solamente attraverso numerosi riti di scongiuro.
Le streghe, essendo capaci di unirsi sessualmente col Diavolo, mantenevano alcune necessità terrene, come quella di nutrirsi: il cibo che si supponeva fosse loro gradito diventava così vietato agli esseri umani; un vero e proprio tabù simile a quelli che ancora oggi, anche se con diverse motivazioni, vietano ai Rom di assumere determinati alimenti.
Il ruolo d'intermediario tra gli spiriti femminili e i comuni mortali veniva affidato alle maghe.
Maghe lo si poteva divenire in due modi: o essendo figlie di maghe, ed ereditando in questa maniera il potere della madre, oppure tenendosi in rapporto sessuale con i Nivaci, spiriti acquatici con sei dita alla mano sinistra.
È più che probabile comunque che oltre alle figure già citate ne esistessero numerosissime altre con numerosissimi altri riti dei quali si è persa ogni traccia.
La malattia e la morte
In passato, ma è bene ricordare ancora una volta che gli studi degli ziganologi si riferiscono sempre a particolari gruppi e che quindi appare difficilissimo tracciare un quadro unitario di certe abitudini rituali e di certe credenze, i Rom hanno spesso accreditato la provenienza della malattia ad un' origine di tipo religioso, ed in particolare demoniaco: un'ingerenza dei Demoni patogeni nel destino dell'individuo.
Gli Zingari, convinti dell'assoluta unitarietà tra ciò che è spirito e ciò che è materia, sarebbero stati altrettanto convinti della profonda complementarità del naturale e del sovrannaturale.
Un sovrannaturale che si sarebbe manifestato spesso sotto forme corporee che vivevano in stretto contatto con gli esseri umani e che, penetrando in essi, ne minavano lo spirito, ciò che noi chiamiamo anima e che essi definiscono come «vita» (vodji, jipen, dùsa).
Contro i Demoni patogeni che potevano impadronirsi di un individuo, combatteva il Butyakengo, lo spirito protettore che proveniva dagli avi defunti e che trasmetteva ai discendenti una porzione dell'anima rimasta sulla terra.
La divisibilità dell'anima sarebbe stata l'anello di congiunzione che legava, generazione dopo generazione, la famiglia zingara alla sua ascendenza.
Il Butyakengo restava comunque distinto dall'anima della persona che proteggeva e, se veniva sconfitto dai Demoni, poteva allontanarsene fuoriuscendo dal corpo attraverso l'orecchio destro.
I Demoni patogeni, figli della regina Ana delle Kechali, provocavano malattie e avevano differenti nomi nei diversi sotto gruppi zingari. La Cozannet riporta i nomi tratti da «Tziganes de Serbia et de Turquie», la cui funzione è stata ben spiegata da H. von Vislocki nel suo «Aus dem inneren Leben der Zigeuner» (1892):
Gli Zingari, convinti dell'assoluta unitarietà tra ciò che è spirito e ciò che è materia, sarebbero stati altrettanto convinti della profonda complementarità del naturale e del sovrannaturale.
Un sovrannaturale che si sarebbe manifestato spesso sotto forme corporee che vivevano in stretto contatto con gli esseri umani e che, penetrando in essi, ne minavano lo spirito, ciò che noi chiamiamo anima e che essi definiscono come «vita» (vodji, jipen, dùsa).
Contro i Demoni patogeni che potevano impadronirsi di un individuo, combatteva il Butyakengo, lo spirito protettore che proveniva dagli avi defunti e che trasmetteva ai discendenti una porzione dell'anima rimasta sulla terra.
La divisibilità dell'anima sarebbe stata l'anello di congiunzione che legava, generazione dopo generazione, la famiglia zingara alla sua ascendenza.
Il Butyakengo restava comunque distinto dall'anima della persona che proteggeva e, se veniva sconfitto dai Demoni, poteva allontanarsene fuoriuscendo dal corpo attraverso l'orecchio destro.
I Demoni patogeni, figli della regina Ana delle Kechali, provocavano malattie e avevano differenti nomi nei diversi sotto gruppi zingari. La Cozannet riporta i nomi tratti da «Tziganes de Serbia et de Turquie», la cui funzione è stata ben spiegata da H. von Vislocki nel suo «Aus dem inneren Leben der Zigeuner» (1892):
- il Melalo (lo sporco), che portava malattie e calamità di vario tipo;
- la Lily (la vischiosa), che portava malattie del raffreddamento;
- il Tchulo (il grosso), che provocava malattie alle gestanti;
- la Tchridyi (la calda), che portava le febbri da parto;
- lo Schilayi (il freddo), che provocava febbri fredde;
- il Bitoso (il digiunatore), che provocava mal di stomaco, tosse e inappetenza;
- il Lolmisho (il topo rosso), che causava malattie della pelle;
-la Minceskre (moglie del topo rosso), che provocava le malattie veneree;
- il Poreskoro (essere terrificante con quattro teste di gatto e di cane, un corpod'uccello e la coda di serpente), che provocava la peste e il colera.
Quando il Butyakengo entrava in lotta contro uno di questi spiriti si manifestavano le malattie, contro le quali ci si adoperava in diversi modi, ma sempre sperando che lo spirito protettore facesse la sua parte.
Uno di questi modi era l'uso medicinale di una vastissima gamma di sostanze vegetali, animali e minerali. Un uso medicinale che rientrava nell'insieme di operazioni rituali nelle quali tanto le proprietà stesse delle sostanze utilizzate, quanto i simbolismi religiosi tratti dalle religioni positive, quanto, ancora, le capacità magiche delle guaritrici, entravano in gioco.
Quando la malattia si riteneva molto grave poteva infatti richiedersi l'intervento di una maga, la quale cominciava anch'essa la sua personale lotta con i Demoni patogeni presenti nel corpo dell'ammalato: essa, con l'ausilio di parole e polveri magiche (probabilmente altre erbe medicinali), ordinava ai Demoni, in nome di Dio, di lasciare il corpo sofferente.
Oltre la vita
È parere comune di tutti gli studiosi che nella loro tradizionale psicologia religiosa gli Zingari intuivano l'immortalità dell'anima in maniera totalmente diversa da quella teorizzata dalle religioni positive.
Ciò che nella tradizione cristiana era stato proposto col Nuovo Testamento, cioè l'esatta e per la prima volta ben definita finalizzazione della vita terrena e delle sue sofferenze alla vera vita, quella ultraterrena, nella quale avviene la retribuzione di ciò che di bene o di male si è fatto nel corso dell' esistenza materiale, non sarebbe esistita affatto nelle credenze zingare.
L'immortalità dell'anima sarebbe stata da loro concepita come il suo passaggio in un altro stato sensibile, che non rappresentava nel modo più assoluto la finalità o la retribuzione della vita terrena, la premiazione o la punizione causate dai comportamenti tenuti prima di decedere.
L'universo dei morti «... secondo la mitologia zingara non ha nulla di allegro, è sostanzialmente un penoso vagabondaggio dell'anima in un atmosfera di terrore e spavento. Questo regno dei morti non è situato in un luogo speciale, risiede per ogni tribù zingara nella regione in cui essa è stanziata, ma nei luoghi remoti alla frontiera tra la terra e l'immaginario aldilà».
Questa interpretazione orrorifica dell' aldilà per certi versi non sembra affatto corrispondere a quanto da altri riportato. Nei racconti kalderasha, per esempio, su e intorno alla morte, compaiono altri elementi che danno dell'aldilà un aspetto meno drammatico e che smentiscono l'assenza del principio di retribuzione.
Zlato e la Karpati, in Rom Sim, dicono per esempio che «È un tribunale, la kris, che nell'aldilà delibera l'accoglimento nelle praterie beate, dove i Rom continuano la loro vita, ma nella pace e nella gioia. È il morente, che nel momento supremo raccoglie il frutto di una vita».
I riti funerari zingari non sarebbero stati delle vere e proprie celebrazioni, o non soltanto queste: esse da una parte dovevano preparare l'anima del defunto nei suoi vagabondaggi, benefici o malefici, nell' aldilà, e dall' altra avevano un carattere esorcistico verso le sue eventuali manifestazioni nel regno dei vivi.
Il passaggio dell'anima nel regno dei morti, si credeva non avvenisse immediatamente dopo il decesso. Per questo motivo essa andava aiutata in tutti i modi possibili: si vestiva il defunto con i suoi abiti più belli, lo si incoraggiava con i canti e i lamenti funebri, gli si costruiva una bara grande e comoda nella quale a volte si sistemavano le sue cose personali.
In certi gruppi, nel terzo giorno dopo la sepoltura, si ponevano su una tavola imbandita del sale, del pane e dell'acqua per il defunto. Più avanti, durante altre feste, il morto veniva ancora ricordato con altri .riti.
A volte lo si ricordava in modo speciale nel rito chiamato Pomana, che avveniva sei settimane e un anno dopo la morte: nel corso di un banchetto una persona della stessa età del morto ne recitava il ruolo, usando i suoi stessi modi di vestire, di parlare, di mangiare. La Pomana, con tempi diversi, è ancora in uso tra i Roma residenti a Cagliari.
L'atteggiamento generale nei confronti dei morti non era in definitiva la celebrazione o la preghiera, ma la compartecipazione alle difficoltà insite in quello che si credeva il suo nuovo stato.
Nello stesso momento, dato che la malattia e la morte avvenivano ad opera degli spiriti del male, il defunto era anche temuto, quasi potesse ancora contaminare i vivi. Si sa che in certi gruppi gli spiriti cattivi potevano manifestarsi sotto molte sembianze. Venivano, e vengono ancora, chiamati Mulo, o Vampiro, o, ancora, secondo la Karpati, Duxo: in questo caso l'entità di una persona morta accidentalmente che doveva «continuare ad aggirarsi senza pace sulla terra sotto forma di spettro per tutta la durata del tempo che gli era stata assegnata da Dio».
Ciò che nella tradizione cristiana era stato proposto col Nuovo Testamento, cioè l'esatta e per la prima volta ben definita finalizzazione della vita terrena e delle sue sofferenze alla vera vita, quella ultraterrena, nella quale avviene la retribuzione di ciò che di bene o di male si è fatto nel corso dell' esistenza materiale, non sarebbe esistita affatto nelle credenze zingare.
L'immortalità dell'anima sarebbe stata da loro concepita come il suo passaggio in un altro stato sensibile, che non rappresentava nel modo più assoluto la finalità o la retribuzione della vita terrena, la premiazione o la punizione causate dai comportamenti tenuti prima di decedere.
L'universo dei morti «... secondo la mitologia zingara non ha nulla di allegro, è sostanzialmente un penoso vagabondaggio dell'anima in un atmosfera di terrore e spavento. Questo regno dei morti non è situato in un luogo speciale, risiede per ogni tribù zingara nella regione in cui essa è stanziata, ma nei luoghi remoti alla frontiera tra la terra e l'immaginario aldilà».
Questa interpretazione orrorifica dell' aldilà per certi versi non sembra affatto corrispondere a quanto da altri riportato. Nei racconti kalderasha, per esempio, su e intorno alla morte, compaiono altri elementi che danno dell'aldilà un aspetto meno drammatico e che smentiscono l'assenza del principio di retribuzione.
Zlato e la Karpati, in Rom Sim, dicono per esempio che «È un tribunale, la kris, che nell'aldilà delibera l'accoglimento nelle praterie beate, dove i Rom continuano la loro vita, ma nella pace e nella gioia. È il morente, che nel momento supremo raccoglie il frutto di una vita».
I riti funerari zingari non sarebbero stati delle vere e proprie celebrazioni, o non soltanto queste: esse da una parte dovevano preparare l'anima del defunto nei suoi vagabondaggi, benefici o malefici, nell' aldilà, e dall' altra avevano un carattere esorcistico verso le sue eventuali manifestazioni nel regno dei vivi.
Il passaggio dell'anima nel regno dei morti, si credeva non avvenisse immediatamente dopo il decesso. Per questo motivo essa andava aiutata in tutti i modi possibili: si vestiva il defunto con i suoi abiti più belli, lo si incoraggiava con i canti e i lamenti funebri, gli si costruiva una bara grande e comoda nella quale a volte si sistemavano le sue cose personali.
In certi gruppi, nel terzo giorno dopo la sepoltura, si ponevano su una tavola imbandita del sale, del pane e dell'acqua per il defunto. Più avanti, durante altre feste, il morto veniva ancora ricordato con altri .riti.
A volte lo si ricordava in modo speciale nel rito chiamato Pomana, che avveniva sei settimane e un anno dopo la morte: nel corso di un banchetto una persona della stessa età del morto ne recitava il ruolo, usando i suoi stessi modi di vestire, di parlare, di mangiare. La Pomana, con tempi diversi, è ancora in uso tra i Roma residenti a Cagliari.
L'atteggiamento generale nei confronti dei morti non era in definitiva la celebrazione o la preghiera, ma la compartecipazione alle difficoltà insite in quello che si credeva il suo nuovo stato.
Nello stesso momento, dato che la malattia e la morte avvenivano ad opera degli spiriti del male, il defunto era anche temuto, quasi potesse ancora contaminare i vivi. Si sa che in certi gruppi gli spiriti cattivi potevano manifestarsi sotto molte sembianze. Venivano, e vengono ancora, chiamati Mulo, o Vampiro, o, ancora, secondo la Karpati, Duxo: in questo caso l'entità di una persona morta accidentalmente che doveva «continuare ad aggirarsi senza pace sulla terra sotto forma di spettro per tutta la durata del tempo che gli era stata assegnata da Dio».
La psicologia religiosa zingara e le religioni positive
Gli Zingari ormai da circa mille anni hanno conosciuto sia il cristianesimo che l'islamismo: resta difficile stabilire in che misura si sia concretizzata la simbiosi tra vecchio e nuovo, quanto del vecchio sia tutt' ora in vita e quanto di questo stia lentamente trasformandosi in un ruolo che si potrebbe definire di superstizione residua, al pari di quelle che sopravvivono nella psicologia religiosa cristiana come substrato di elementi arcaici.
Di sicuro certi usi sono ancora in vita e, anche ad una lettura superficiale, li si può facilmente notare nei gruppi Roma presenti in Sardegna.
La resistenza, per esempio, a parlare dei propri morti; i riti funerari stessi;
i tabù che impediscono di mangiare certi cibi, la paura per i cani primogeniti e per certi gatti che potrebbero assalire i bambini; i tabù sull'impurità o i riti utilizzati per curare certe malattie.
Esiste ancora il terrore dei fantasmi, sui quali ognuno ha storie da raccontare: storie solitamente accreditate ai parenti più anziani.
I fantasmi sono, a loro parere, di due tipi: il Cohano, che si può vedere e che sarebbe il più pericoloso perché assume forme materiali ed è capace di aggressioni fisiche, e la Javista, che non si vede ma della quale essi spesso dicono di sentire l'agitarsi fuori dalle baracche nelle notti ventose.
Quando si sospetta che in un posto possano esservi morti degli esseri umani, gli uomini, da soli, vegliano la notte e si accertano se lì sia possibile o meno costruire il nuovo accampamento: uno degli ostacoli maggiori al trasferimento di un gruppo sul terreno assegnatogli da una amministrazione comunale in provincia di Cagliari, oltre le condizioni davvero infami visto che si trattava di un terreno adiacente ad un ex-inceneritore di rifiuti urbani, fu la paura che nei pressi potessero aggirarsi i fantasmi di neonati morti (gli Zingari sono rimasti molto colpiti dalla «abitudine» di certe donne non-zingare di liberarsi dei neonati buttando li nei cassonetti dei rifiuti). Altri elementi del passato sopravvivono sicuramente nella simbiosi presente all'interno delle ricorrenze religiose: durante la Festa di Primavera si rinnova il rito del Kurbano (il sacrificio dell' agnello), con il quale si prepara la Shastimace, il cibo del ringraziamento per una grazia ricevuta.
La Festa di Primavera si ricollega poi alla concezione animistica della rinascita della natura: cessa l'inverno, con il suo buio e le sue malattie, e inizia la positiva Primavera, il mondo naturale si risveglia e inizia un nuovo ciclo vitale.
Ma al pari di queste credenze, e ad esse ormai intimamente associate, sono ben vive quelle apprese con l'islamismo.
A questo proposito c'è da domandarsi, ma è solo una domanda spontanea alla quale forse potranno rispondere più competenti ricerche, se l'associarsi degli Zingari all'islamismo o al cristianesimo, non abbia in qualche modo rappresentato la naturale evoluzione di un senso religioso fatali sta e non positivo.
Una tesi un po' azzardata: se non altro perché suppone non la simbiosi tra credenze diverse, madre di un qualcosa che comunque resta autonomo e differenziato, ma la piena e totale conversione.
Cosa che, senza dubbio, per tanti di loro oggi non è.
Di sicuro certi usi sono ancora in vita e, anche ad una lettura superficiale, li si può facilmente notare nei gruppi Roma presenti in Sardegna.
La resistenza, per esempio, a parlare dei propri morti; i riti funerari stessi;
i tabù che impediscono di mangiare certi cibi, la paura per i cani primogeniti e per certi gatti che potrebbero assalire i bambini; i tabù sull'impurità o i riti utilizzati per curare certe malattie.
Esiste ancora il terrore dei fantasmi, sui quali ognuno ha storie da raccontare: storie solitamente accreditate ai parenti più anziani.
I fantasmi sono, a loro parere, di due tipi: il Cohano, che si può vedere e che sarebbe il più pericoloso perché assume forme materiali ed è capace di aggressioni fisiche, e la Javista, che non si vede ma della quale essi spesso dicono di sentire l'agitarsi fuori dalle baracche nelle notti ventose.
Quando si sospetta che in un posto possano esservi morti degli esseri umani, gli uomini, da soli, vegliano la notte e si accertano se lì sia possibile o meno costruire il nuovo accampamento: uno degli ostacoli maggiori al trasferimento di un gruppo sul terreno assegnatogli da una amministrazione comunale in provincia di Cagliari, oltre le condizioni davvero infami visto che si trattava di un terreno adiacente ad un ex-inceneritore di rifiuti urbani, fu la paura che nei pressi potessero aggirarsi i fantasmi di neonati morti (gli Zingari sono rimasti molto colpiti dalla «abitudine» di certe donne non-zingare di liberarsi dei neonati buttando li nei cassonetti dei rifiuti). Altri elementi del passato sopravvivono sicuramente nella simbiosi presente all'interno delle ricorrenze religiose: durante la Festa di Primavera si rinnova il rito del Kurbano (il sacrificio dell' agnello), con il quale si prepara la Shastimace, il cibo del ringraziamento per una grazia ricevuta.
La Festa di Primavera si ricollega poi alla concezione animistica della rinascita della natura: cessa l'inverno, con il suo buio e le sue malattie, e inizia la positiva Primavera, il mondo naturale si risveglia e inizia un nuovo ciclo vitale.
Ma al pari di queste credenze, e ad esse ormai intimamente associate, sono ben vive quelle apprese con l'islamismo.
A questo proposito c'è da domandarsi, ma è solo una domanda spontanea alla quale forse potranno rispondere più competenti ricerche, se l'associarsi degli Zingari all'islamismo o al cristianesimo, non abbia in qualche modo rappresentato la naturale evoluzione di un senso religioso fatali sta e non positivo.
Una tesi un po' azzardata: se non altro perché suppone non la simbiosi tra credenze diverse, madre di un qualcosa che comunque resta autonomo e differenziato, ma la piena e totale conversione.
Cosa che, senza dubbio, per tanti di loro oggi non è.
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